STANCHI E SPREMUTI, MA QUALE DOLCE VITA DEI PILOTI
I COMANDANTI ITALIANI: “SIAMO STANCHI E SPREMUTI COME LIMONI”
“Una volta affrontavamo un volo ogni tre o quattro giorni, le rotte erano poche e capitava di attraversare l’Oceano e fermarsi per riposare. Oggi è tutto cambiato, i piloti sono costretti a turni massacranti soprattutto nelle compagnie lowcost”.
Il comandante Nelson Ferrera, ex portavoce dell’Anpac, ha lasciato l’Alitalia da cinque anni ma sente con vigore il dibattito sulla sicurezza dei piloti, scatenato dal terribile disastro dell’aereo Germanwings precipitato sui monti dell’Alta Provenza.
Specialmente perchè sembrano ormai lontanissimi i tempi della dolce vita dei comandanti, così ambita che nel film “Prova a prendermi” Leonardo Di Caprio faceva letteralmente carte false per diventare un ammirato pilota di linea, un privilegio descritto anche dalla serie Pan Am. “No, non è più così”, ammette Ferrera.
Gli inquirenti hanno scoperto che Andreas Lubitz, il co-pilota accusato di aver deliberatamente fatto schiantare il velivolo, nel giorno della tragedia non sarebbe dovuto stare ai comandi: nel suo alloggio è stato trovato un certificato medico, mentre secondo i media tedeschi il giovane era stato ricoverato all’ospedale di Dusseldorf nei mesi scorsi, escludendo però che fosse per una patologia psichiatrica.
La Germanwings, costola della Lufthansa, non era completamente all’oscuro dello stato mentale di Lubitz, visto che sapeva che il giovane aveva sospeso l’addestramento per esaurimento nervoso e lo aveva classificato con il codice Sic – abitualmente attribuito ai membri dell’equipaggio da tenere sotto particolare attenzione medica.
“Se un pilota prende psicofarmaci normalmente viene sospeso dal lavoro”, commenta Ferrera, che però vuole dare una lettura umana a ciò che è successo: “L’imponderabile può accadere. Ma non dite che i comandanti degli aerei mettono il pilota automatico: la rotta può essere pre-impostata ma è il pilota a evitare i temporali oppure a compiere manovre di emergenza”.
O manovre di strage, come pare sia accaduto con l’Airbus A320.
A confermare il fatto che gli anti-depressivi sono una causa sufficiente per sospendere i piloti dai voli è Fabio Peppucci, direttore tecnico Anpac: “Ogni anno i piloti devono sottomettersi a una visita medica per ricevere il certificato di idoneità al volo. Se da un anno all’altro dovessero capitare episodi gravi che inducono all’ansia o alla depressione per le quali diventa necessario prendere dei farmaci, di norma il pilota viene lasciato a casa fino ai 12 mesi senza perdere il posto di lavoro”.
Anche in questo caso, i piloti delle grandi compagnie sembrano più tutelati rispetto ai colleghi delle low cost dove, spiega ancora Peppucci, “di fronte a una diagnosi di depressione un pilota può rischiare il licenziamento immediato”.
E dunque proliferano i casi dei comandanti e dei co-piloti che tendono a nascondere il disturbo mentale, anche passeggero. Un problema enorme, spesso discusso dai sindacati dei piloti.
Su questo punto il Time cita un dato pazzesco: William Sledge, primario allo Yale-New Haven Psychiatric Hospital, incaricato di esaminare dal punto di vista medico i piloti per la Federal Aviation Administration, rivela che il 40% presenta problemi legati all’alcol mentre un terzo manifesta un grado di depressione o ansia.
“Tuttavia soltanto la metà dei depressi e degli ansiosi ha ammesso spontaneamente il problema. L’altra metà lo ha ammesso al dottor Sledge dopo che un incidente aveva costretto i loro superiori a intervenire”.
Il Time riporta anche i dati sui suicidi, che riguardano però piloti che non stavano nella cabina di un volo di linea: dal 1983 al 2003 trentasette comandanti hanno provato a togliersi la vita, 21 ci sono riusciti.
Non tutti però presentavano problemi pregressi di tipo psichiatrico (il 38%), mentre la maggioranza (il 46%) era legato a problemi nella vita personale.
Il fatto è che a livello italiano ed europeo non esistono dati sulla frequenza delle malattie psichiatriche dei piloti, perchè evidentemente esiste la paura di smettere di volare.
Ma la questione è scottante e per questo gli Stati Uniti obbligano i piloti ad ammettere la propria condizione psico-fisica alla compagnia aerea, pena una multa da 250mila dollari.
“Da noi non esiste la multa. Ma come associazione professionale stiamo cercando di ottenere in Italia delle strutture di ascolto psicologico per i piloti, che sono sottoposti a un lavoro massacrante e usurante”, ci fa sapere Peppucci.
“Si chiamano Pilot Advisory Groups e servirebbero soprattutto a quei colleghi che non vogliono manifestare la propria situazione di disagio al datore di lavoro, proprio per il timore di ritorsioni contrattuali”.
Il punto di vista dell’Anpac è chiaro: se le compagnie aeree pretendono livelli illimitati di sforzo lavorativo, i piloti si stancano troppo oppure si ammalano e questo mette a repentaglio la sicurezza dei voli.
“Eventuali investimenti nelle strutture di ascolto potrebbero evitare ciò che è successo con l’aereo della Germanwings”, sottolinea Peppucci, che come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi europei – francesi e tedeschi in primis – giudica “frettolose” le conclusioni della procura di Marsiglia, come se si fosse voluto “trovare immediatamente un capro espiatorio per salvaguardare gli interessi economici”.
In attesa che la commissione d’inchiesta arrivi, con molta più lentezza, alla verità sullo schianto dell’Airbus A320, rimane la sottovalutazione della salute mentale dei piloti ma anche la poca attenzione alle lunghissime ore di volo.
Recentemente la questione è arrivata sulle cronache dei giornali: a febbraio il pilota di un Airbus A320 era troppo stanco per continuare il volo ed è atterrato a Manchester invece che a Parigi. Nel 2012 una vicenda ancora più grave: a quindici minuti dall’atterraggio due piloti della British Airways avevano chiesto alla torre di controllo di guidare l’atterraggio a Monaco perchè entrambi si sentivano esausti.
Si tratta della procedura “unfit to fly”(inadatto a volare, ndr), adottata da alcune compagnie aeree tra le quali Lufthansa e Germanwings (già dal 2002), che consente ai piloti di fermarsi quando pensano di non poter garantire l’efficienza.
Basta dare un’occhiata alle statistiche della European Cockpit Association, l’associazione che riunisce 38mila piloti europei, per comprendere l’allarme: il 50% degli intervistati per una ricerca sulla stanchezza in cabina ammette di sentire che la propria capacità di volare è minata dalla fatica fisica, ma il 70-80% dei comandanti e dei co-piloti non lo ammette ai propri superiori oppure non accede alla procedura “unfit to fly” per paura di azioni disciplinari.
Il risultato è che circa la metà dei piloti si addormenta nella cabina di pilotaggio.
Sul protocollo Fatigue Risk Management l’Enac ha già aperto un tavolo con le compagnie aeree che operano in Italia, ma secondo la European Cockpit Association il nostro continente dovrebbe seguire l’esempio degli Stati Uniti, dove a un periodo nel quale le compagnie aeree hanno cercato di sfruttare al massimo la capacità dei piloti, è seguita una nuova valutazione e una comprensione del rischio collegato alla stanchezza di questi lavoratori che hanno ormai perso l’aura del mito.
“In America sono dovuti accadere degli incidenti gravi per far comprendere che i piloti non possono essere spremuti giorno dopo giorno. Purtroppo da noi la tendenza è opposta”, conclude Peppucci. L’Eca, intanto, ricorda che entro il 2020 il numero dei voli europei raddoppierà .
(da “Huffingtonpost“)
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