TRUMP, UNA CATASTROFE PER L’AMBIENTE: PIU’ CARBONE, STOP AI FINANZIAMENTI VERDI
LA SPERANZA CHE LE COMUNITA’ LOCALI POSSANO LIMITARE DANNI CHE SAREBBERO IRREPARABILI.. PER LUI IL RISCALDAMENTO GLOBALE DEL PIANETA E’ UNA BALLA DEI CINESI, SALVO RIFARSI A QUESTO PER CHIEDERE OPERE DI TUTELA DEI SUOI CAMPI DA GOLF
Sono appese alla costruzione di un muro le speranze che Donald Trump.
Il muro in questione non è quello che ha minacciato di innalzare al confine con il Messico per fermare l’immigrazione, ma quello che vuole costruire lungo il suo campo da golf sulla costa occidentale dell’Irlanda.
Se c’è un settore dove l’arrivo alla Casa Bianca del magnate newyorkese rischia di fare danni irreparabili, vista la gravità della situazione e il poco tempo a disposizione per rimediare, è quello della lotta ai cambiamenti climatici.
Trump non ha esitato a definire il riscaldamento globale “una bufala inventata dai cinesi per minare la competitività dell’industria americana”, aggiungendo che il Pianeta “in realtà si sta congelando”
Eppure, come ha svelato il sito Politico.com la richiesta di autorizzazione inviata alle autorità irlandesi dalla Trump International Golf Links Ireland spiega che la costruzione del muro si rende necessaria per proteggere la struttura “dall’erosione della costa e dall’innalzamento del livello del mare provocato dai cambiamenti climatici”.
Sarà altrettanto pragmatico quando si tratterà di tutelare il benessere del Pianetà anzichè il valore delle sue proprietà immobiliari?
Il programma illustrato da Trump rischia di fare piazza pulita di tutti i passi avanti compiuti nelle politiche ambientali dagli Stati Uniti durante i due mandati di Barack Obama.
Alcuni isituti di ricerca si sono spinti persino a calcolare il diverso andamento delle emissioni di CO2 americane in caso di presidenza Clinton e di presidenza Trump.
Il candidato repubblicano innazitutto non ha esitato a promettere la cancellazione degli impegni presi dagli Usa con l’Accordo di Parigi.
Eventualità che la ratifica a tempo di record e la successiva entrata in vigore lo scorso 4 novembre sembrano però aver definitivamente scongiurato.
“Le clausole dell’Accordo sul Clima – spiega il direttore scientifico del Kyoto Club Gianni Silvestrini su Qualenergia – prevedono infatti che un paese che intenda abbandonare il campo lo possa fare solo dopo quattro anni. In ogni caso, considerando l’attuale stato delle ratifiche, che vede l’adesione già di 102 paesi, anche l’uscita degli Stati Uniti non invaliderebbe comunque l’Agreement. La clausola del livello del 55% delle emissioni mondiali sarebbe infatti già garantita dagli altri paesi”.
Il pericolo, però, è che avendo dalla sua anche un Congresso controllato dai Repubblicani, il neopresidente possa attuare una serie di scelte che impedirebbero di fatto agli Usa di centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica indicati al momento di aderire all’Accordo di Parigi.
I motivi di preoccuapazione in tal senso non mancano di certo.
Trump ha ribadito più volte di voler puntare ad una rinascita dell’industria carbonifera e di promuovere un’ulteriore diffusione dell’estrazione di gas e petrolio dal territorio nazionale attraverso il ricorso alla tecnica del fracking.
Obiettivi peraltro in contrasto tra loro, visto che i prezzi bassi del metano nazionale hanno contribuito a mettere fuori mercato il carbone.
Altro motivo della crisi del carbone sono state le rigorose misure anti inquinamento (in particolare il Clean power plan) volute dall’Environment protection agency, l’Agenzia federale per l’ambiente, istituzione usata sin qui da Obama come un grimaldello per forzare le tante resistenze incontrate dalle sue politiche green. Su come risolvere questo intralcio Trump sembra avere però le idee chiare ed ha già annuciato l’intenzione di nominare ai vertici dell’Epa Myron Ebell, noto “negazionista climatico”.
Il tycoon repubblicano si è detto anche convinto della necessità di riprendere il progetto per la costruzione del contestato oleodotto Keystone XL per trasportare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada (il più inquinante in assoluto in quanto ad emissioni prodotte) alle raffinerie del Texas bloccato da Obama ricorrendo al suo potere di veto.
Nell’agenda del neopresidente, così come l’ha illustrata nel corso della campagna elettorale, trovano spazio poi anche la volontà di tagliare i finanziamenti internazionali a sostegno delle politiche sul clima e una più generale ostilità verso la Cina che rischia di far naufragare la fondamentale collaborazione avviata tra Washington e Pechino attraverso Mission Innovation, la partnership per lo scambio di tecnologie verdi.
Quest’ultimo, come ricordava a Repubblica il vicepresidente dell’Ipcc Carlo Carraro, è stato uno dei motori del cambio di passo nell’atteggiamento della comunità internazionale verso la minaccia del riscaldamento globale.
Non a caso, con una rara ingerenza nella politica interna americana, la Cina nei giorni scorsi ha messo in guardia Trump sulle conseguenze di un possibile voltafaccia.
Ce n’è quanto basta per essere molto allarmati, ma come insegna il paradosso del muro per salvare il campo da golf irlandese, non tutto è necessariamente perduto.
Da un lato va tenuto conto infatti del pragmatismo dell’uomo d’affari che alla prova dei fatti potrebbe portare Trump ad assecondare la rivoluzione energetica ormai avviata negli Stati Uniti non solo sulla base di politiche incentivanti, ma anche dal crollo dei prezzi delle tecnologie pulite e dalla loro accettabilità sociale.
L’industria delle rinnovabili statunitense è ormai una realtà e dichiararle guerra significherebbe mettere in pericolo migliaia di posti di lavoro.
Inoltre, se il ruolo di promozione svolto da Obama soprattutto a livello culturale è innegabile, un impatto fondamentale nei progressi ambientali statunitensi degli ultimi anni lo hanno avuto gli enti locali.
Da un lato, come documenta una recente inchiesta di The Atlantic, le piccole realtà di provincia (esattamente quelle esaltate da Trump in contrapposizione all’america metropolitana) e dall’altro alcuni stati fondamentali come la California che negli ultimi anni ha infilato una serie incredibile di record: tra il 2000 e il 2013 l’andamento del Pil e l’andamento demografico sono stati in forte crescita mentre le emissioni generali e quelle procapite sono diminuite, dimostrando che decarbonizzare un’economia e una società non significa affatto depauperarla.
(da “La Repubblica“)
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