UN’IMPIEGATA AL TELEFONO: “FALSO CHE SIA UNA RIVOLTA ISLAMISTA, RACCONTATE LA VERITA”
BENGASI, QUI NELLA CITTA’ LIBERATA IL POPOLO E’ IN FESTA…E’ UNA RIVOLTA CONTRO IL DITTATORE CHE RISPONDE MASSACRANDO DONNE E BAMBINI NEL SUO DELIRIO… DIVERSI MILITARI CHE SI SONO SCHIERATI CON IL POPOLO SONO STATO MUTILATI
La Libia della rivolta contro Gheddafi è come una cassaforte che soltanto nelle ultime ore i media cominciano a scassinare.
Come ha insegnato l’Iran dal 2009 in poi, meglio non avere reporter e telecamere in mezzo ai piedi se si vuole stroncare il dissenso come si deve. Così abbiamo dovuto accontentarci di vedere le immagini della nascente rivoluzione attraverso sequenze rubate dai telefonini o immortalate per un attimo dalla mano tremolante di qualche volenteroso dilettante.
Sembra che il primo giornalista a entrare in Libia dopo i massacri sia stato, ieri mattina presumibilmente, Ben Wedeman della Cnn.
Wedeman è passato dal confine egiziano, dove ieri sera torme di giornalisti occidentali erano ancora arenati nella zona dove l’esercito egiziano ha costruito un ospedale da campo per accogliere le migliaia di connazionali che stavano fuggendo in patria.
Poco più là di Marsa Matrouk: luoghi che ricordano l’epica di El Alamein e, più di recente, spiagge estive con acque cristalline.
A giudicare dai suoi reportage che raccontano il clima da Repubblica degli Insorti della Libia orientale, Wedeman non è ancora riuscito ad arrivare a Bengasi, che pure sulla carta non è distante.
Le condizioni di sicurezza devono essere minime.
Con il web messo fuori gioco (altro passaparola molto ascoltato dai dittatori di tutto il mondo), l’unico modo dall’esterno per raggiungere Bengasi è il telefono, che funziona male ma funziona ancora.
Dopo un po’ di chiamate a vuoto, Islam, ingegnere edile, risponde con voce squillante: «No, oggi Bengasi è tranquilla. La gente è nelle strade, non c’è traccia dei miliziani di Gheddafi. Qui sono tutti felici per come stanno andando le cose».
E adesso che cosa succederà ?
«Non lo so proprio, signore, so soltanto che non ci fermeremo. Non torneremo mai più sotto la dittatura di Gheddafi e della sua famiglia».
Si dice che in tutta la zona «liberata» stiano spuntando le bandiere rosso-nero-verdi con la stella e la mezzaluna del Regno di Libia, vietate dal regime. Probabilmente più uno sfregio a Tripoli che nostalgia di re Idris.
Rima, impiegata, abita vicino alla raffineria di Ras Lanuf, più o meno a metà strada tra Bengasi e Tripoli.
All’inizio esita: «Chi le ha dato il mio numero?».
Rassicurata, si scioglie. «A Bengasi la situazione è tranquilla», conferma.
Ma è Tripoli che la preoccupa: «Laggiù è stato un massacro. Ci sono migliaia di mercenari africani che uccidono la gente nelle strade. Non hanno pietà neppure delle donne e dei bambini. La popolazione è terrorizzata, nessuno esce più di casa, neppure per comprare il pane».
Gheddafi dice che a Bengasi la rivolta è guidata dagli islamisti, è vero? «No, è falso. Per favore raccontate al mondo la verità . Non credete alle parole di chi fa sparare addosso al suo popolo. Lo sa che a Tripoli hanno bombardato i dimostranti con gli aerei?».
Colpisce che in questa incipiente rivoluzione (qui, a differenza dell’Egitto, l’assalto al Palazzo c’è stato davvero, con la sua triste e inevitabile contabilità di sangue) non spuntano i nomi dei leader.
Per adesso è difficile farsi un’idea precisa di quale sia il volto dell’opposizione al Colonnello.
A rendere incerto l’esito della lotta è la posizione dell’esercito che in alcuni casi si è schierato con gli insorti.
Raccontano a Bengasi che ieri hanno portato all’ospedale diciassette soldati che erano stati torturati per aver appoggiato i ribelli.
Avevano nasi e orecchie tagliati. Sembra che nessuno sia riuscito a sopravvivere.
Claudio Gallo
(da “La Stampa“)
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