VENTI ANNI DALLA STRAGE E LE TROPPE DOMANDE SENZA RISPOSTA
VIA D’AMELIO, IL PUNTO SULLE INDAGINI: FU SOLO MAFIA? PERCHE’ VENNE DATO CREDITO AL FALSO PENTITO SCARANTINO?
Il lavoro cominciato a Capaci, sulla strada che portava dall’aeroporto alla città , fu completato a Palermo, cinquantasette giorni dopo, in via Mariano d’Amelio.
Dopo Giovanni Falcone toccò a Paolo Borsellino, anche stavolta con il carico aggiuntivo degli agenti di scorta, saltati in aria insieme all’obiettivo che avrebbero dovuto proteggere.
Era scritto, e Borsellino lo sapeva bene. Per questo aveva fretta. Voleva arrivare a qualche risultato prima che gli assassini arrivassero a lui.
Si capì allora, e c’è la conferma oggi, dopo le nuove indagini che hanno in parte riscritto la storia di quell’attentato.
Una storia di mafia, ma non solo.
Ormai sembra un modo di dire, una frase fatta, un luogo comune. Ma è così. Non è importante che siano o meno inquisiti o imputati estranei a Cosa nostra, per sostenere che con ogni probabilità qualche altro elemento entrò in gioco nella morte di Borsellino.
FERMI A BOSS E PICCIOTTI?
Come presunti colpevoli siamo fermi a boss e picciotti, ricorda il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell’ultima inchiesta, peraltro non ancora conclusa. Ha ragione, lui deve attenersi a ciò che risulta agli atti.
Dentro quegli stessi atti, però, emergono frammenti di verità , schegge di avvenimenti che se pure non portano a individuare responsabilità penali fanno capire che intorno alla fine di Paolo Borsellino — prima, durante e dopo — c’è qualcosa che non riguarda solo Cosa nostra.
Il procuratore aggiunto di Palermo dilaniato il 19 luglio 1992 dal tritolo mafioso doveva morire perchè era l’unico che poteva prendere il posto di Falcone nella comprensione delle dinamiche interne alle cosche, e quindi nel contrasto ad esse.
E forse era tra i pochi che avrebbero potuto avvicinarsi alla verità sulla strage di Capaci, al di là del movente della vendetta. Anche se formalmente non era suo compito, e di questo lui si rammaricava.
Fu forse il cruccio più grande dei suoi ultimi due mesi di vita.
VOLEVA ESSERE INTERROGATO
Titolare delle indagini era una Procura diversa dalla sua, ma lui avrebbe voluto testimoniare di fronte ai colleghi di Caltanissetta, per rivelare qualcosa che sapeva e poteva essere utile per risalire agli assassini di Falcone, e magari a qualche diverso centro di potere che poteva aver avuto interesse alla sua eliminazione.
Lo ripeteva in ogni occasione, anche in pubblico, parlando del suo amico Giovanni: c’erano delle cose su cui era costretto a tacere perchè doveva riferirle all’autorità giudiziaria, nel segreto dell’inchiesta.
Ma nell’arco di due mesi non ci fu alcuna autorità giudiziaria che trovò il tempo per raccoglierne la testimonianza.
E’ uno dei misteri di quei cinquantasette giorni.
Che può avere pure una spiegazione banale, ma mai sufficiente a giustificare l’assenza di quella deposizione tra le carte dell’inchiesta.
Così come la scomparsa dell’agenda rossa sulla quale il giudice annotava le proprie considerazioni sul lavoro che andava svolgendo nella sua corsa contro il tempo, su quello che era venuto a sapere, sugli spunti d’indagine da coltivare.
Un elemento prezioso per tentare di scoprire le responsabilità nascoste su Capaci e — dopo —su via D’Amelio. Che non è mai stata ritrovato.
L’agenda rossa era nella borsa che il giudice portò con sè dalla casa del mare a quella della madre, prima dell’esplosione.
E’ sparita, e le indagini non hanno chiaro perchè, nè per mano di chi. E’ un altro mistero che non ha a che fare con la mafia.
OLTRE LA MAFIA
Non ce’è bisogno di individuare “mandanti esterni” o agenti segreti infedeli che abbiano partecipato all’attentato, per capire che non è solo una storia di mafia.
Basta risalire a qualche omissione o pezzo mancante per poter sostenere che nell’intreccio c’è qualche altra cosa, oltre la mafia. Capita quasi sempre, nelle storie dove il potere s’intreccia col crimine.
Colpevoli sono i criminali, ma sulla sponda del potere si scopre puntualmente che qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.
Nella migliore delle ipotesi.
Vale anche per la presunta trattativa avviata tra lo Stato e la mafia dopo Capaci (o forse addirittura prima, secondo l’ultima ipotesi della Procura di Palermo), di cui Borsellino era venuto a conoscenza.
Almeno per un frammento, che magari era solo un’iniziativa investigativa un po’ audace: i colloqui tra i carabinieri e l’ex sindaco corleonese di Palermo Vito Ciancimino.
Non glielo dissero i carabinieri, con i quali pure aveva contatti e stava programmando attività d’indagine: che ne avrà pensato il giudice?
E chi era l’amico che l’aveva tradito, come hanno testimoniato sue suoi giovani “allievi” che l’incontrarono piangente e piegato da avvenimenti e preoccupazioni poche settimane prima che morisse?
Perchè, il giorno prima dell’attentato, disse alla moglie che ad ucciderlo non sarebbe stata soltanto la mafia?
DOMANDE SENZA RISPOSTA
Sono tutte domande rimaste senza risposta, che suscitano inquietudini.
In cui la mafia non c’entra.
Così come non c’entra nelle indagini che dopo la strage di via D’Amelio imboccarono quasi subito una falsa pista, smascherata solo dopo sedici anni da un nuovo pentito. Perchè si volle chiudere tutto così in fretta, con le false confessioni di qualche falso collaboratore di giustizia?
Fu solo un errore investigativo e poi giudiziario — com’è costretto a ipotizzare il procuratore di Caltanissetta, in assenza di prova che dimostrino altro — o c’era qualche diverso motivo?
Comunque sia andata, dietro la morte di Paolo Borsellino e quello che s’è mosso intorno a lui prima e dopo la bomba di vent’anni fa, non ci furono solo i padrini e i loro gregari.
E anche quell’eccidio è diventato uno dei grandi misteri d’Italia che hanno deviato e inquinato il corso della storia.
Rimanendo misteri, purtroppo.
Giovanni Bianconi
(da “Il Corriere della Sera”)
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