ZINGARETTI AL BIVIO: “SERVE CHIAREZZA”. E PER LA SUCCESSIONE SPUNTA LETTA
QUALCUNO SPERA IN UN SUO RIPENSAMENTO, I BIG STANNO ORGANIZZANDO L’ALTERNATIVA
«Preside’ hai fatto bene ad andartene». «Preside’ troppo hai resistito in quel covo di vipere». Nicola Zingaretti si è appena congedato da Sergio Mattarella, cui ha fatto da Cicerone nella Nuvola di Fuksas trasformata dalla sua Regione in un grande hub vaccinale. Mancano pochi minuti alle 11, per le strade dell’Eur c’è poca gente e l’ormai ex segretario Pd sta andando a prendere il caffè in un bar lì vicino.
Nonostante la mascherina, in tanti lo riconoscono, dai finestrini abbassati gli urlano parole di incoraggiamento. Un calore mai avvertito, neanche dopo aver vinto le primarie, che ricompensa l’amarezza delle ultime settimane, culminata nel clamoroso «mi vergogno» pronunciato per annunciare le dimissioni.
Non ci ha ripensato, Zingaretti. O almeno «non ancora», confidano i suoi, tuttora fiduciosi di fargli cambiare idea. Convinti che il pressing dei circoli, gli appelli delle federazioni regionali, la marea di militanti che scrivono o chiamano per chiedergli di restare possano prima o poi aprire una breccia.
Far vacillare il muro che per adesso sembra resistere a ogni sollecitazione: «Io ho fatto il mio, ora tocca a voi», ha risposto il governatore del Lazio ai tanti che anche ieri hanno provato a sondarlo.
Non solo per la spericolatezza della manovra: a dieci giorni dall’addio dovrebbe farsi confermare o farsi eleggere in assemblea, come se nulla fosse successo, col rischio di perdere la faccia dopo il pesante j’accuse che ha accompagnato la sua uscita di scena.
Il problema è pure che lo stato maggiore del partito non l’ha presa bene: dipingere il Pd come una sentina di veleni, popolato da dirigenti che pensano soltanto alle poltrone, ha fatto calare il gelo intorno a lui. Rendendo complicato un eventuale ritorno. Contro il quale, però, viste le difficoltà del momento, nessuno opporrebbe resistenza, anzi. «Sarebbe una cosa positiva, forse la soluzione migliore», spiega uno fra i più autorevoli avversari interni.
Una delle poche strade per evitare il caos, lo scontro fra correnti che si sta già materializzando nei primi pour parler per individuare il successore.
L’assemblea nazionale, che salvo rinvio si terrà sabato e domenica, ha difatti solo due opzioni davanti: eleggere il segretario che guiderà il Pd sino al 2023; oppure indire il congresso, che tuttavia la pandemia rende impraticabile.
Precluso per lo meno fino alla prossima primavera: a ottobre ci sono le amministrative, nel febbraio successivo si elegge il presidente della Repubblica. Avviare un confronto di 4-5 mesi (tanto quando dura l’iter che porta alle primarie) a cavallo di scadenze tanto importanti è giudicato da tutti una follia.
Non resta dunque che concentrarsi sul post-Zingaretti, sempre che lui non decida di rientrare in campo. Come i suoi sperano, tanto da aver già predisposto una strategia per l’assemblea: proporre in apertura un ordine del giorno per chiedere al segretario di tornare. Se l’80-90% voterà a favore, lui non potrebbe tirarsi indietro.
Presenterebbe un documento politico di rottura. E nessuno potrebbe obiettare nulla. Lo dice chiaro l’ex ministro Boccia: «Ora decide l’assemblea, non quattro capicorrente». E lo lascia intendere lo stesso Zingaretti, a margine di una visita a Termini: «Nel Pd da mesi sentiamo una voglia di dibattito che però si è risolta in un martellamento quotidiano. Mi auguro che questo momento aiuterà a fare chiarezza».
In attesa di capire come finirà , i big del Pd stanno tuttavia organizzando un’alternativa. D’accordo sul fatto che il prossimo leader non potrà essere debole nè di transizione, ma una figura autorevole, capace di parlare con Draghi, fare il controcanto a Salvini, reggere la competizione con Conte.
Pescare fra le seconde file sarebbe un suicidio. Spiega infatti Dario Franceschini ai suoi: «Non possiamo pensare a soluzioni ballerine, provvisorie, serve un segretario forte, con la maggioranza più larga possibile, che guidi il partito almeno per un anno». Meglio ancora «se condiviso», aggiungono da Base riformista. Identikit che per molti corrisponde a quello di Enrico Letta. Il quale avrebbe un’unica controindicazione: non è una donna, come i più vorrebbero.
(da “La Repubblica”)
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