Marzo 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA STRANA ALLEANZA TRA “LA DESTRA” E IL LEGHISTA MOLTENI, DEPUTATO FEDELE A MARONI… E LA “DESTRA SOCIALE” DI STORACE SI RIVELA UNA PATACCA
In politica, quando si tratta di correre per vincere, ogni alleato è quello giusto. 
Ma il matrimonio tra la Lega Nord e La Destra siglato nei giorni scorsi a Cantù, cittadina brianzola di 40 mila abitanti, lascia alquanto sorpresi.
Se è vero che ogni realtà va letta sotto la lente locale, è vero anche che ciascuno dei due partiti fonda la propria esistenza su principi antitetici.
Il primo, la Lega Nord, annovera tra le finalità il “conseguimento dell’indipendenza della Padania“ (articolo 1 dello statuto del Carroccio) e l’altro, La Destra, fonda i propri principi sulla “tradizione culturale e storica del popolo italiano” e sulla “integrità e la tutela dell’interesse Nazionale” (articolo 1 dello statuto del partito di Storace e Buontempo).
L’alleanza canturina, nata anche sotto il segno della comune distanza dal governo Monti e dal Pdl, è stata ufficializzata nei giorni scorsi in una conferenza stampa a cui hanno preso parte l’esponente locale de La Destra Antonio Metrangolo e il candidato sindaco della Lega, il deputato Nicola Molteni.
In quell’occasione Molteni ha espresso soddisfazione per l’accordo, specificando che “l’obiettivo principale, il punto focale del programma è porre l’accento sulla sicurezza in città ”, rimarcando il tema che rappresenta probabilmente uno dei pochi punti contatto tra le due forze politiche.
Il patto tra la Lega e La Destra ha ricevuto anche il sostegno indiretto del principale sponsor di Molteni, Roberto Maroni, che nei giorni scorsi ha tenuto un comizio a Cantù.
Tra il pubblico, ad applaudire alle parole dell’ex ministro dell’Interno c’era infatti anche il leader locale del partito di Storace.
In quell’occasione, Maroni ha rivendicato la scelta di correre separati dal Pdl e, spingendosi anche oltre, ha confermato che non ci sarà “nessun appoggio al Pdl neanche a un eventuale ballottaggio. Loro se ne sono andati. Per noi al momento l’alleanza è chiusa”.
Senza Pdl l’obiettivo più alto per il Carroccio canturino, nella inedita veste di alleato de La Destra, è il ballottaggio.
Risultato arduo da raggiungere se si pensa che la Lega, dopo aver guidato la città in solitaria per un decennio, non ha mai sfondato alle urne, portando a casa un magro 15,7 per cento nel 2002 e un ancor più risicato 14,6 per cento nel 2007.
Gli ex alleati del Pdl correranno per la poltronissima con il vicepresidente di Federfarma Lombardia Attilio Marcantonio, un nome considerato credibile nel panorama dei candidati canturini e che proprio per questo preoccupa i leghisti.
A contendersi la seconda piazza per il ballottaggio sono in molti (10 in tutto i candidati sindaco): più di altri sembrano poter centrare l’obiettivo Claudio Bizzozero (a capo della civica Lavori in corso) e il candidato del centrosinistra Antonio Pagani (Pd, Idv, Psi e Sinistra per Cantù).
In questo scenario l’alleanza tra la Lega e La Destra (a cui vanno sommate due liste civiche) assume contorni più chiari: stare assieme per sperare di mettere insieme i voti necessari per giocarsi il tutto per tutto al ballottaggio.
Alessandro Madron
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 30th, 2012 Riccardo Fucile
LA NUOVA PROPOSTA DEL GOVERNO AFFIDERA’ UN RUOLO DECISIVO AI GIUDICI… IN ALTERNATIVA IL NUOVO ART. 18 SI POTREBBE APPLICARE SOLO AI NUOVI ASSUNTI
La parola d’ordine è quel “non permetteremo abusi” che Mario Monti ha pronunciato nei giorni scorsi di fronte alle proteste dei sindacati.
Come evitare abusi in una materia sensibile come quella del licenziamento individuale per motivi economici?
Da due giorni gli esperti del ministero di Giustizia stanno studiando insieme a quelli del Lavoro un’ipotesi secondo cui dovranno essere i giudici a stabilire, quando si trovano di fronte a un licenziamento per motivi economici, se esso nasconda motivi discriminatori.
Nel documento approvato dal governo, invece è il lavoratore che deve dimostrare la discriminazione mentre il giudice non è tenuto a esprimersi su questo punto. In alternativa a questa misura (che andrebbe incontro, almeno nelle intenzioni, alle richieste del Pd) il governo potrebbe applicare il nuovo articolo 18 solo ai nuovi contratti.
Il governo potrebbe intervenire anche sulla cosiddetta flessibilità in entrata, cioè sulle modifiche introdotte per limitare il precariato dei giovani. Le novità della riforma hanno fatto storcere il naso nel centrodestra che vorrebbe lasciare più libertà alle imprese. In sostanza, la possibilità di limitare il licenziamento si paga con una minore precarietà in ingresso.
Anche per queste ragioni il lavoro degli esperti del ministero della Giustizia è particolarmente delicato.
Quando sarà concluso? “È una questione di giorni” dicono al ministero del lavoro.
Per consentire a Monti, di ritorno dall’Asia, di avere un testo sul tavolo.
Articolo 18. Il magistrato potrebbe ripristinare il reintegro
La questione più delicata è quella dei licenziamenti individuali. La riforma prevede diversi tipi di ingiusto licenziamento ma non dice chi stabilisce se un licenziamento ingiusto è discriminatorio o se invece era motivato solo da un’errata valutazione delle condizioni economiche dell’azienda.
È evidente che questa scelta non può in ogni caso spettare all’impresa: “Nessuno ammetterà mai di aver deciso un licenziamento per discriminare un lavoratore” riconosceva due sere fa il ministro Fornero di fronte alla platea dell’Unione Industriale di Torino.
Chi decide dunque? Probabilmente toccherà a un giudice, ed è anche per questo che della questione sono stati investiti gli esperti del ministro Severino.
Ma come si arriva dal giudice? Un’ipotesi è che ci si possa andare automaticamente in tutti i casi di licenziamento individuale, come accade in Germania.
In questo caso si toglierebbe al licenziato l’onere della prova.
E se il giudice dovesse riconoscere che c’è stata discriminazione, ovviamente scatterebbe anche l’obbligo di reintegro.
Contratti. I paletti sugli atipici in versione più soft
Nella logica della riforma, rendere più difficile il licenziamento individuale significa offrire alle aziende una contropartita sui contratti di ingresso.
Aver abolito alcune possibilità come l’associazione in partecipazione impedirà alle imprese di ricorrere alle forme più convenienti di utilizzo della manodopera, o, se si preferisce, le forme di precariato che tutelano di meno i lavoratori.
Meno precarietà significa anche più costi.
Da qui la protesta di una parte delle associazioni imprenditoriali e dei partiti del centrodestra.
Ridurre o ammorbidire i paletti applicati dal documento del governo ai contratti atipici potrebbe essere considerata una contropartita all’intervento sui licenziamenti.
In alternativa c’è la strada della divisione tra generazioni: con i giovani che hanno contratti di ingresso più tutelati ma non vengono protetti in uscita dalle tutele dell’articolo 18 e i lavoratori meno giovani che mantengono le attuali garanzie.
Quel che è certo è che al momento le imprese considerano l’attuale “un buon punto di equilibrio”.
Ammortizzatori. Quel milione di precari che non avrà l’Aspi
L’Aspi, l’assicurazione sociale anti-disoccupazione spetta a tutti i lavoratori dipendenti cui si aggiungono gli apprendisti (che dovrebbero diventare la principale categoria tra i giovani assunti) e gli artisti dipendenti che finora non usufruivano della mobilità .
Poi c’è una mini-Aspi, soprattutto per i più giovani, prevista per i contratti a termine, ma sempre subordinati.
È evidente che da questa platea vengono esclusi i cocopro, i contratti a progetto e tutte le forme di lavoro falsamente indipendente, ma in realtà subordinato.
Il documento approvato dal Consiglio dei ministri contiene a questo proposito un impegno a rendere strutturale l’una tantum oggi riservata ai cocopro.
Si tratta oggi di una tantum pari al 30% del reddito dell’anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l’83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550).
Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.
Salari. Il costo dell’1,4% si scarica sui lavoratori
Per incentivare il lavoro a tempo indeterminato, il ministero prevede di tassare maggiormente le forme di occupazione precaria imponendo alle aziende che le utilizzano un’aliquota dell’1,4 per cento sulla retribuzione.
In altre proposte di riforma questa norma era accompagnata da un tetto minimo salariale: i lavoratori non avrebbero potuto percepire meno di una certa cifra.
Nel documento finale, invece, il tetto minimo non c’è.
Il rischio è che alla fine a pagare siano solo i lavoratori precari e la riforma si traduca in una riduzione del loro salario.
In pratica le aziende per pagare la tassa finirebbero per ridurre i salari caricando sulle spalle dei lavoratori i maggiori costi imposti dalla riforma.
È evidente che senza un tetto minimo per i contratti precari o a tempo determinato, molti imprenditori finirebbero per praticare questa scorciatoia.
Ma è altrettanto vero, fanno notare al ministero, che il tetto da solo non serve a evitare gli abusi.
Si cercherà dunque un sistema per tutelare comunque il salario dei precari.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 30th, 2012 Riccardo Fucile
“I PARTITI DIMOSTRANO SENSO DI RESPONSABILITA, GLI ITALIANI SONO MATURI”
Caro Direttore,vedo solo ora che alcune considerazioni da me fatte in una conferenza tenuta
l’altro ieri a Tokyo presso il giornale Nikkei hanno suscitato vive reazioni in Italia.
Ne sono molto rammaricato, tanto più che quelle considerazioni, espresse nel corso di un lungo intervento in inglese, avevano l’obiettivo opposto a quello che, fuori dal contesto, è stato loro attribuito.
Volevano infatti sottolineare che, pur in una fase difficile, le forze politiche italiane si dimostrano vitali e capaci di guardare all’interesse del Paese.
La mia visita in Corea, Giappone e Cina ha lo scopo di spiegare ai governi e agli investitori asiatici ciò che l’Italia sta facendo per diventare più competitiva, anche nell’attrarre investimenti esteri.
Comincia a diffondersi l’apprezzamento per ciò che il nostro Paese ha saputo fare in pochi mesi in termini di riduzione del disavanzo, riforma delle pensioni, liberalizzazioni.
Ma restano una riserva, una percezione errata, un forte dubbio.
La riserva, comprensibile, riguarda il mercato del lavoro.
Con quali tempi il Parlamento approverà la riforma proposta dal governo?
La sua portata riformatrice verrà mantenuta sostanzialmente integra o verrà diluita?
La percezione errata è quella che porta ad attribuire essenzialmente al governo («tecnico») il merito dei rapidi cambiamenti in corso.
Il forte dubbio discende da quella percezione: è il dubbio che il nuovo corso possa essere abbandonato quando, dopo le elezioni parlamentari, torneranno governi «politici».
Finchè la percezione errata e il dubbio non saranno dissipati, la fase attuale verrà considerata come una interessante «parentesi», degna forse di qualche investimento finanziario a breve termine.
Ma le imprese straniere, come del resto quelle italiane, saranno riluttanti a considerare l’Italia un luogo conveniente nel quale investire e creare occupazione.
Non è facile modificare le opinioni su questi due punti.
Ma credo sia dovere del presidente del Consiglio cercare di farlo con ogni interlocutore.
Gli argomenti che ho utilizzato a Tokyo, riportati correttamente dai corrispondenti italiani presenti, ma «letti» in Italia fuori contesto, sono stati i seguenti.
Se da qualche mese l’Italia ha imboccato risolutamente la via delle riforme, lo si deve in parte al governo, ma in larga parte al senso di responsabilità delle forze politiche che, pure caratterizzate da forti divergenze programmatiche, hanno saputo dare priorità , in una fase di emergenza, all’interesse generale del Paese.
E lo si deve anche alla grande maturità degli italiani, che hanno mostrato di comprendere che vale la pena di sopportare sacrifici rilevanti, purchè distribuiti con equità , per evitare il declino dell’Italia o, peggio, una sorte simile a quella della Grecia.
E dopo le elezioni?
Certo, torneranno governi «politici», come è naturale (perfino in Giappone, ho dichiarato che il sottoscritto sparirà e che il «montismo» non esiste!).
Ma ritengo che ciò non debba essere visto come un rischio.
Le forze politiche sono impegnate in una profonda riflessione al loro interno e, in dialogo tra loro, lavorano a importanti riforme per rendere il sistema politico e istituzionale meno pesante e più funzionale.
Ho anche espresso la convinzione che il comportamento delle forze politiche dopo questo periodo, del quale le maggiori di esse sono comunque protagoniste decisive nel sostenere il governo e nell’orientarne le scelte, non sarà quello di prima.
Infatti, stiamo constatando – anche i partiti – che gli italiani sono più consapevoli di quanto si ritenesse, sono pronti a esprimere consenso a chi si sforzi di spiegare la reale situazione del Paese e chieda loro di contribuire a migliorarla.
«La mia fiduciosa speranza – ho detto a Tokyo – è che questo sia un anno di trasformazione per il Paese, non solo sul fronte del consolidamento di bilancio, per la crescita e per l’occupazione, ma anche perchè i partiti politici stanno vedendo che gli italiani sono molto più maturi di quello che pensavamo: la gente sembra apprezzare un modo moderato e non gridato di affrontare i problemi».
A sostegno di questa tesi, fiduciosa nella politica e indispensabile per dare fiducia nell’Italia a chi deve aiutarci con gli investimenti, a offrire lavoro ai nostri giovani, ho ricordato che, per quel che valgono, i sondaggi sembrano finora rivelare un buon consenso al governo, che pure è costretto a scelte finora considerate impopolari.
In questo modo mi sto impegnando per presentare, a una parte sempre più decisiva dell’economia globale, un’Italia che si sta trasformando, grazie all’impegno di politici, «tecnici» e, soprattutto, cittadini.
Trasformazione che proseguirà anche dopo il ritorno a un assetto più normale della vita politica.
Mario Monti
(da “Il Corriere della Sera“)
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
DA PRODI A BERLUSCONI, DECINE DI PROMESSE SENZA ALCUN RISULTATO… ORA SI PARLA DI UNA MINI-RIDUZIONE DEI SEGGI, MA E’ GIA’ A RISCHIO
Potevamo partire anche da 30 anni fa, dalla Bicamerale per le riforme del 1983 e di sicuro avremmo trovato qualcuno che chiedeva la riduzione del numero dei parlamentari. Abbiamo deciso di limitarci agli ultimi dieci anni, che bastano a collezionare dagli archivi Ansa migliaia di proclami su un taglio degli eletti alle Camere che, naturalmente, non c’è mai stato.
Del resto, chiedere a deputati e senatori di autoridursi sarebbe come chiedergli di tagliarsi un braccio da soli.
Il 24 luglio 2002 Silvio Berlusconi era al governo e spiegava che uno dei punti del loro programma era proprio la diminuzione del numero dei parlamentari che con il Senato delle autonomie avrebbe realizzato un federalismo “di buon senso”.
In realtà la diminuzione dei rappresentanti era nei programmi di entrambe le coalizioni che si presentarono alle urne nel 2001.
L’8 novembre 2002, in una puntata di Porta a Porta durante la quale si diceva pronto per il Quirinale, Berlusconi annunciò una riforma che prevedeva — guarda un po’ — la riduzione dei parlamentari.
Stesso proclama il 9 febbraio e il 31 luglio 2003.
Il 2 marzo 2004 tocca a Gianfranco Fini: “Nelle riforme è previsto un drastico ridimensionamento del numero dei parlamentari, che non saranno più 915 ma 600”. Bastano pochi mesi e il 6 luglio la Casa delle Libertà annuncia che no, non si possono tagliare 315 posti, al massimo si può arrivare a 750.
Sarà Pier Ferdinando Casini, da Vienna, a sostenere il 5 ottobre dello stesso anno che “la riduzione del numero dei deputati è un elemento positivo che dimostra la capacità di essere vigili e selezionare la classe dirigente”.
Peccato che la riforma tanto annunciata non sia mai arrivata.
Perchè il governo Berlusconi aveva realmente inserito nel ddl sulle riforme costituzionali l’intenzione di tagliare i parlamentari.
Un buon avvocato potrebbe dire che quella riforma, approvata ben 4 volte tra Camera e Senato, fu poi bocciata dai cittadini col referendum.
Ma all’interno prevedeva una riduzione dei parlamentari soltanto a partire dal 2016. Cioè quando buona parte degli onorevoli allora seduti sugli scranni staranno riscuotendo il vitalizio.
Lo fece notare, all’indomani del “no” dei cittadini, anche Luciano Violante: “L’unica cosa positiva era la riduzione del numero dei parlamentari, ma va fatta scattare prima del 2016”.
Cambia il governo, vengono eletti sempre 915 parlamentari, e si riparte col balletto: riunioni, accordi, tensioni.
Ma la riforma non va in porto.
Il 18 gennaio 2007 il democratico Vannino Chiti incontra il leghista Roberto Maroni per cercare un punto di contatto sulla legge elettorale che — neanche a dirlo — portava con sè l’ipotesi di un taglio al numero degli eletti.
Nella bozza Chiti erano previsti di nuovo 600 parlamentari, 400 deputati e 200 senatori.
I ministri dell’allora governo Prodi non perdono tempo per elogiare l’iniziativa: “Il governo si impegna in Parlamento per la riduzione del numero dei parlamentari” dichiara Linda Lanzillotta il 13 luglio 2007.
“È un segnale positivo e giusto” sostiene Alfonso Pecoraro Scanio il 4 ottobre.
E nel frattempo anche l’allora presidente della Camera, Fausto Bertinotti, aveva benedetto l’ipotesi. Che alla fine è rimasta tale.
Dopo la nascita del Partito democratico, il nuovo segretario Walter Veltroni non perde occasione per ribadire l’importanza della riforma, ma il progetto non decolla. Rosy Bindi il 4 aprile 2008 parla del taglio dei rappresentanti come una modifica “chirurgica” da fare alla Costituzione.
Non avverrà .
Cambierà di nuovo governo, gli eletti saranno ancora 915 e il primo a pronunciarsi sarà il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, auspicando “meno parlamentari”.
Per Mariastella Gelmini “meno quantità non è meno qualità ”. Allora perchè non ci si riesce?
Tocca a Pier Luigi Bersani diventato segretario del Pd: “Occupiamoci di cose serie, come la riduzione del numero dei parlamentari”.
Forse non lo erano abbastanza.
L’8 aprile 2010 di nuovo Maroni sentenzia: “Se non faremo le riforme in 3 anni avremo fallito”. Missione compiuta.
Il 9 maggio 2011 Berlusconi sostiene che “siamo l’unico paese al mondo con 1000 parlamentari”, e Anna Finocchiaro assicura che “il dimezzamento ci sarà entro settembre” (sempre del 2010…).
Il 9 settembre 2011 il Senato stava esaminando 6 ddl costituzionali. Dieci giorni dopo c’era un’intesa per 450 deputati e 250 senatori. Ancora niente.
Il resto è cronaca delle ultime ore: un accordo ABC (Alfano, Bersani e Casini) sulla legge elettorale che prevede anche una serie di riforme costituzionali, compreso un taglio dei parlamentari al ribasso (500 e 250), che già scricchiola.
Perchè nei partiti maggiori sono in molti a rifiutare l’intesa.
“à‰ necessario che Alfano convochi il partito per discutere su un argomento vitale per la politica e per il Paese — ha dichiarato il senatore del Pdl Altero Matteoli — senza una sintesi le conseguenze possano essere gravissime”.
Come quelle previste per il Pd da Arturo Parisi: “Il vertice del Pd, ovvero Violante per conto di D’Alema e Bersani, hanno intrapreso questo viaggio a ritroso, hanno fatto l’accordo con gli altri e poi lo sottoporranno all’assemblea a cosa fatta. Mi chiedo se i dirigenti non debbano tornare ai loro vecchi partiti. L’accordo è un imbroglio, perchè la maggior parte degli eletti sarà scelto dalle segreterie dei partiti, questo è un porcellinum”.
Ma anche i partiti minori non ci stanno.
“Se la riforma della legge elettorale sarà quella che si legge sui giornali, ci sarà una reazione durissima, innanzitutto contro il Pd” ha minacciato Nichi Vendola.
Se finirà come tutte le volte negli ultimi dieci anni, il leader di Sel può dormire sonni tranquilli.
Caterina Perniconi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
“LA SOLITA SPARTIZIONE DEMOCRISTIANA”…QUASI TUTTI I COMMENTI SONO NEGATIVI: LE MAGGIORI CRITICHE RIVOLTE AL NON RITORNO DELLE PREFERENZE E ALLA NON COMUNICAZIONE PREVENTIVA DELLE ALLEANZE
Dal Porcellum al “Casinum”. In rete la discussione sulla riforma elettorale pende proprio sul
Casinum: perchè la nuova riforma non è molto intuitiva (“è una supercazzola”), e poi perchè – si dice – è tagliata su misura rispetto alle ambizioni del leader Udc.
“Con la nuova legge elettorale saremo sempre alla mercè di uno Scilipoti qualsiasi”, scrive Luigi su Twitter. “Le preferenze sono l’elemento indispensabile per una riforma della legge elettorale”, dice Roberto.
E Mario: “La nuova legge elettorale è una vergognosa tutela per le nomenklature di partito senza manco la governabilità “.
A conti fatti, le stesse cose che accadevano (e accadono) e si dicevano (e si continuano a dire) riferendosi al vecchio Porcellum.
Insomma, cambiare tutto per non cambiare nulla?
È davvero difficile trovare un solo commento positivo in giro, compreso tra quelli di chi non nascondono la propria vicinanza a uno dei tre partiti che si stanno mettendo d’accordo, cioè Pd, Pdl e Udc.
“Torna la vecchia spartizione in salsa democristiana per la coalizione”, commenta Adolfo. “Dalla padella alla brace”; “tutti candidati premier, poi in una cantina si decide chi guida il governo”; “è un assist per il Monti bis”; “dal Porcellum alla supercazzola”; “i capi-Casta e il loro motto: resistere resistere resistere”.
E poi Matteo ironizza: “Ritorno al passato: legge elettorale da Prima Repubblica; economia indietro di 15 anni; torna Lotta Continua in edicola. E i miei capelli?”.
Ecco invece un paio di valutazioni positive.
Geremia commenta su un blog: “Cerchiamo di avere fiducia. Una buona notizia è la volontà di seppellire il Porcellum; l’altra notizia non è buona, non è chiara, ma intanto chissà , il fascino di certi capipopolo scema, scema, e forse emerge un pochino di classe dirigente”.
E Antonio, pragmaticamente: “Siamo tutti a lamentarci del Porcellum, ma chi lo deve cambiare, o provare a cambiare, se non questo Parlamento?”.
Il problema più sentito, prima ancora delle analisi su maggiore o minore governabilità , è quello delle preferenze.
La bozza non prevede la possibilità di scegliere il proprio candidato, ma saranno le segreterie dei partiti – ancora una volta – a decidere chi entrerà in Parlamento.
“Ecco che il solco tra cittadini e politica continua ad aumentare”, sottolinea Michele. Luca: “Credo che con questa nuova legge elettorale l’astensione aumenterà ancora”.
Tutti i sondaggi politico-elettorali danno come primo partito tra gli italiani quello dell’astensionismo, “a parole i politici si stracciano le vesti, ai fatti a loro va benissimo così”, ragiona Sandro. Giovanni, sulla pagina Facebook del Popolo della Libertà : “Ha vinto Casini, ha perso il bipolarismo e han perso i cittadini che non sceglieranno chi li governa”.
Arturo, sulla bacheca fb di Bersani: “I tre affamatori degli italiani si sono accordati per poter continuare a farlo”.
Seconda questione, le alleanze.
Votare al buio un partito, senza sapere con chi eventualmente si alleerà il giorno dopo le elezioni, non sembra gradire a nessuno.
“È peggio delle Prima Repubblica. Perchè lì, almeno, c’era il proporzionale puro, che è la forma più democratica che ci sia”, spiega Giacomo.
Infine, quello sbarramento che dovrebbe essere fissato al 4 o 5%: “Stritoleranno definitivamente ogni dissenso, lasciando milioni di cittadini senza rappresentanza”, scrive Alessandro.
Il coro, alla fine, è praticamente unanime: la nuova legge elettorale, così com’è, sembra incorporare in sè un po’ di Prima e un po’ di Seconda Repubblica.
La parte peggiore di entrambe.
Matteo Pucciarelli
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
“I POPOLARI IGNORAVANO QUANTO PRENDEVA FRANCESCO CHE AVRA’ AVUTO QUALCOSA IN PIU’. ALCUNI SAPEVANO DELLE CASE”
Il patto per la spartizione dei fondi della Margherita assegnava «il 60 per cento ai Popolari e il 40 per cento ai rutelliani».
A fare da garante era Luigi Lusi che aveva il compito, come spiega lui stesso ai magistrati, «di mettere al sicuro i rimborsi elettorali», circa 220 milioni di euro.
E lo fece «effettuando anche operazioni immobiliari, di cui alcuni all’interno del partito erano a conoscenza».
Il verbale del tesoriere indagato per appropriazione indebita e illecito reimpiego dei soldi perchè accusato di aver sottratto dalle casse del partito almeno 23 milioni di euro a fini personali, svela quanto accaduto nella formazione politica poi confluita nel Partito democratico dal 2007 in poi riguardo alla gestione del denaro.
Dichiara Lusi ai pubblici ministeri: «Dal 2009 ho annotato le uscite perchè i Popolari non sapevano quanto prendeva Francesco Rutelli, che ritengo nel tempo abbia avuto qualcosa in più per la nostra vicinanza politica e perchè era presidente del partito».
GLI INVESTIMENTI IMMOBILIARI
Dura sei ore l’interrogatorio di Lusi davanti al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Stefano Pesci.
Alla fine firma un verbale di sei pagine che ricostruisce il suo ruolo nel partito.
«Il patto era di ripartire i fondi tra Popolari e i rutelliani».
Fornisce le percentuali e quando gli viene chiesto se conosce la destinazione dei soldi afferma: «Non so che uso è stato fatto di questi fondi».
Sottolinea invece di aver deciso di annotare ogni elargizione dal 2009, quando ci fu la fusione con i Ds «perchè ritengo che Rutelli prendesse un po’ di più e gli altri non lo sapevano. In particolare posso dire che Bocci e Rutelli erano attenti alle rispettive spese».
Poi nega che gli acquisti di ville e appartamenti fosse un’appropriazione indebita: «Io avevo un mandato fiduciario. Nessuno mi ha dato incarico di comprare case o ville. Mi era stato detto soltanto che dovevo investire bene i soldi e io l’ho fatto. Sapevo che se ci fosse stato bisogno di liquidità quegli immobili sarebbero stati venduti».
I magistrati gli contestano di essersi intestato la proprietà dei beni, ma lui non arretra: «Se adesso li vendessimo guadagneremmo molto più di quanto è stato speso. Posso assicurare che una volta che il partito avesse avuto necessità , tutti i beni acquistati sarebbero stati dismessi e restituiti».
I pubblici ministeri gli chiedono i tempi di questa restituzione e Lusi risponde: «Al più presto, anche perchè la liquidità della Margherita era in progressivo esaurimento. All’interno del partito alcuni sapevano di questi immobili, ma non faccio nomi perchè tanto mi smentirebbero».
LE OPERAZIONI FIDUCIARIE
Afferma il parlamentare indagato: «Dal 2007 c’era necessità di mettere al sicuro i beni dei rimborsi elettorali. Io non volevo nascondere nulla perchè questo modo di gestire serviva a proteggere le operazioni fiduciarie.
Non volevo truccare i bilanci. Io operavo come fiduciario e per fare queste operazioni ho usato le società Luigia ltd e TTT srl.
Le operazioni fiduciarie sono quelle sugli immobili, dunque l’acquisto della villa di Genzano e della “nuda proprietà ” di quella di Ariccia oltre all’appartamento di via Monserrato a Roma. Inserisco in questo elenco di operazioni fiduciarie anche la ristrutturazione delle case di Capistrello, i tre milioni di euro che sono stati depositati sul conto di mia moglie e alcuni prestiti infruttiferi fatti ad alcuni miei familiari. In particolare uno a mio fratello di 100 mila euro, a mio nipote 120 mila, a due miei amici 360 mila euro, a un altro nipote 130 mila».
Non nega che ci siano stati altri investimenti personali.
«La società Filor l’ho costituita nel 2007 e sta realizzando un immobile in Canada. Questa non è un’operazione fiduciaria, mia moglie non sa nulla sull’utilizzo dei fondi della Margherita, pensava che fossero miei risparmi. Non lo sapevano i miei nipoti che mi hanno fatto soltanto un favore, lo stesso vale per mio cognato. In Canada ho trasferito un milione e 600 mila dal conto di mia moglie alla Filor, 270 mila dalla TTT».
I magistrati gli chiedono a che titolo avesse preso questi soldi e il denaro utilizzato per i viaggi e le cene.
Dichiara Lusi: «I viaggi sono spese inserite nel sistema di cui ho parlato. Per quanto riguarda i soldi che ho speso voglio precisare che, terminato l’incarico di tesoriere avrei fatto la differenza tra quanto speso e quanto era da restituire alla cassa del partito».
I SOLDI DEL TERREMOTO
Non nega Lusi di aver emesso assegni «liberi» ma nel caso dell’acquisto della villa di Ariccia sostiene che gli furono chiesti dal proprietario, che invece aveva fornito una versione opposta. Ammette di aver versato oltre un milione di euro in nero per la ristrutturazione delle case di Capistrello.
Poi gli viene chiesto di giustificare la mancata consegna di 85 mila euro che risultano destinati ai terremotati dell’Aquila, ma non invece non sono mai arrivati.
E lui afferma: «Quando mi sono sposato, anzichè farmi fare il regalo di nozze ho chiesto soldi in beneficienza per i terremotati. Ce li ho ancora, ma intendo darli al sindaco per un parco.
Li avevo appoggiati sul conto di mio fratello perchè ho un contenzioso privato per cui rischiavo un sequestro e quindi li avevo messi lì.
Nel dicembre scorso ne avevo parlato con il sindaco Cialente e avevo assicurato che li avrei consegnati al più presto».
Fiorenza Sarzanini
(da “Il Corriere della Sera“)
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
NECESSARIO UN “CAMBIAMENTO CULTURALE” SECONDO IL DIRETTORE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE… PER L’EURISPES IL SOMMERSO IN ITALIA ARRIVA A 540 MILIARDI
Nel 2011 l’Agenzia delle Entrate ha incassato 12,7 miliardi dalla lotta all’evasione, con un
aumento del 15,5% sul 2010, e meglio degli 11,5 miliardi preventivati a fine gennaio.
I controlli effettuati sono stati due milioni.
Lo ha detto il direttore Attilio Befera, aggiungendo che nel 2012, “più che migliorare i risultati da controllo, auspico sia in atto un cambiamento culturale”.
Un cambiamento che per Befera è arrivato con il governo Monti che ha reso il Fisco più forte: “Contiamo su ulteriori risultati positivi, ma credo che un po’ stia cambiando il modo di vedere l’evasione fiscale in Italia, gli evasori stanno riflettendo se davvero vale la pena”.
A perderci continua a essere lo Stato: solo lo scorso anno sono stati evasi 120 miliardi.
Contro la lotta all’evasione arriverà , prima di giugno, anche il redditometro: “Siamo in fase di collaudo” ha confermato il direttore dell’Agenzia delle Entrate che non ha voluto prendere posizione sul previsto aumento dell’Iva limitandosi a dire che si tratta di “una decisione che dovrà prendere il governo, ma l’agenzia farà il possibile con la lotta all’evasione fiscale”.
Anche perchè l’Eurispes stima che l’economia sommersa in Italia nel 2010 abbia generato almeno 529 miliardi di euro e per il 2011 il volume stimato del sommerso è di 540 miliardi, pari a circa il 35% del Pil ufficiale.
Lo scorso anno, il riscosso complessivo dal Fisco si è diviso tra i 4,5 miliardi da ruoli e 8,2 da versamenti diretti, in aumento del 24,2% sul 2010 (6,6 miliardi).
E’ migliorata la fedeltà fiscale in materia di iva, con un divario tra entrate potenziali ed effettive che si riduce dal 31,6% del 2008 al 27,7% del 2010 (media europea al 14-15%).
Il direttore accertamento Luigi Magistro ha quindi spiegato che “i controlli sono sempre più mirati grazie ad analisi del rischio molto approfondite: il numero di accertamenti cala dell’1,2% (da 706mila a 697mila), ma la maggiore imposta accertata sale del 9,3%, a 30,4 miliardi contro i 27,8 del 2010”.
Nel dettaglio: 36.400 accertamenti sintetici (+20%), 11mila indagini finanziarie, 580 verifiche e accessi mirati da parte degli uffici antifrode.
Tutte le tipologie di contribuenti sono state interessate dal recupero: i big per il 31%, le piccole imprese e gli autonomi per il 25%, le persone per il 27%.
Befera ha anche scherzato sul caso Maradona: “Se viene a sanare le sue pendenze col fisco italiano, ben venga. Sono suo tifoso”.
Nel frattempo, la settimana prossima si aprirà il processo a carico dell’ex calciatore argentino per reati fiscali a Napoli.
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
LA DEPUTATA SI TRASFORMA IN PIOVRA E ABBRACCIA SIA BERLUSCONI CHE ALTRI DUE CANDIDATI CONTEMPORANEAMENTE
Sarà forse uno dei tanti miracoli promessi da Silvio Berlusconi agli italiani, sta di fatto che la deputata “pasionaria” Michaela Biancofiore si è trasformata in una specie di piovra per promuovere il primo congresso del Pdl in Alto Adige, previsto il prossimo 14 aprile.
Eccola infatti con la bellezza di tre mani, nei manifesti che ha fatto affiggere in queste ore a Bolzano per sostenere la propria corrente.
Nel poster in questione, l’ex premier sembra quasi un manichino: la foto non deve essere proprio recente. Biancofiore posa la mano sinistra sulla sua spalla, mentre la mano destra è su uno dei due candidati della sua corrente, Bruno Borin.
Il fatto è che le mani sono tre; ne spunta una anche sulla spalla sinistra del secondo candidato, Maurizio Vezzali.
“La nostra coordinatrice pare proprio come la dea Kalì che tutto avvolge con le sue molteplici braccia”, ha subito ironizzato l’altro coordinatore altoatesino del Pdl — e suo acerrimo rivale — Alberto Sigismondi, sostenuto dai deputati azzurri Giorgio Holzmann e Maurizio Gasparri, con cui Biancofiore ha avuto in passato scontri accesissimi.
Il poster “trimane” non è che l’ultimo coupe de thèà¢tre fotografico della serie.
In occasione delle elezioni comunali di due anni fa a Bolzano, la deputata portò ad Arcore il suo candidato a sindaco, l’ex hockeysta Bob Oberrauch: un “armadio” di quasi due metri.
Bene, nella foto (a mezzobusto, qui sta il trucco) scattata con l’allora premier, la differenza in altezza tra i due era… alquanto sospetta.
Sgabelli o Photoshop a parte, non era stata certo ritoccata la foto che, nel maggio del 2005, fece il giro d’Italia: quel dito medio mostrato da Berlusconi durante un comizio pre-elettorale a Bolzano, a corollario di una storiella delle sue.
Questa: «A mia madre ho detto che c’è metà Italia che mi odia, che quando passo per strada mi fa così».
E mostra il dito medio. «Mia madre mi ha risposto: e allora? Vuol dire che sei il numero uno, l’unico».
Paolo Cagnan
(da “L’Espresso”)
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Marzo 29th, 2012 Riccardo Fucile
IL PREMIER NON INTENDE FARE PASSI INDIETRO SULLA RIFORMA DEL LAVORO…E NEI PARTITI INIZIANO LE PRESE DI DISTANZA
Il primo gancio l’avevano assorbito, anche se dopo la citazione andreottiana i leader della
«strana maggioranza» si erano interrogati sulle reali intenzioni di Monti.
E durante il vertice per le riforme, l’altro ieri, erano nate due scuole di pensiero.
C’era chi sosteneva che il premier avesse voluto mandare un avvertimento ai partiti, che avesse voluto cioè solo spronarli per farli riallineare alla linea del governo.
E c’era invece chi riteneva che il Professore – con l’approssimarsi della fase economica più difficile per gli italiani – avesse iniziato a scaricare le tensioni sulle forze politiche. Tutti comunque immaginavano che Monti non sarebbe andato oltre, nessuno pensava all’uno-due.
Perciò l’uppercut di ieri li ha colti di sorpresa.
Ma c’è un motivo se l’Abc della politica ha reagito in modo diverso all’affondo del premier contro i partiti, se l’ex ministro Brunetta – incontrando Alfano – l’ha consigliato a tenere il Pdl fuori dal ring della polemica: «Tanto Monti non ce l’ha con noi ma con il Pd».
È il provvedimento sul mercato del lavoro al centro dello scontro, e il Professore – che si è sentito politicamente e istituzionalmente «abbandonato» – non intende cedere nè fare passi indietro rispetto all’impianto della riforma.
E poco importa se le tensioni provocate hanno incrinato anche i rapporti con il Colle. Il premier ne fa una questione di principio e una di merito.
Intanto non accetta di esser stato chiamato a far «l’aggiustatore» per poi essere scaricato alla bisogna.
L’idea poi di venir additato come una sorta di dittatore al soldo dei mercati e di mancare di rispetto alle prerogative del Parlamento, lo rende meno sobrio anche nel linguaggio.
È pronto infatti alla mediazione sull’articolo 18, nel senso che è pronto a discutere una diversa formulazione della norma, ed è disposto – come è successo già per altri provvedimenti – ad accettare una «soluzione alternativa che sia confacente».
Se così non fosse, però, presenterebbe il testo redatto dal governo, lo sigillerebbe con il voto di fiducia, e a quel punto «ognuno ne trarrebbe le conseguenze».
Il progetto è chiaro, e per Monti anche obbligato.
Il fatto è che il suo percorso entra in rotta di collisione con il Pd, dove il profilo del Professore inizia ad assomigliare a quello del Cavaliere, e non perchè il premier cita i sondaggi per tenersi a debita distanza dal giudizio che i cittadini hanno nei riguardi dei partiti.
Bersani non intende cedere perchè altrimenti vedrebbe minacciati gli «interessi della ditta».
Ed è in quel nome che non desiste, anzi rilancia: nelle parole del presidente del Consiglio scorge una «minaccia», «così si aprono dei varchi pericolosi all’anti-politica».
Di pensierini andreottiani ne fanno anche al quartier generale dei Democrat, dove c’è chi immagina addirittura una manovra internazionale tesa a impedire che il Pd possa andare a palazzo Chigi.
Non è dato sapere se il segretario condivida questa analisi, è certo che Bersani non accetta di fare il cireneo e di venire anche flagellato: «Ci è stato detto che l’emergenza economica imponeva di non disturbare più di tanto il manovratore. Ma poi la gente ferma me per strada…».
Ed è questo il punto.
Dopo quattro mesi di governo, i provvedimenti lacrime e sangue varati da Monti iniziano ad impattare sul Paese: in questi giorni l’addizionale regionale Irpef sta alleggerendo le buste paga dei lavoratori; prima dell’estate l’Imu appesantirà le dichiarazioni dei redditi dei possessori di case; in autunno il secondo aumento dell’Iva farà galoppare ancor di più i prezzi…
Il rischio per i partiti è che si realizzi la profezia di Bossi, quel «finchè la gente non s’incazza» che è vissuto come un incubo da chi oggi sostiene l’esecutivo tecnico.
Il rischio aggiuntivo per Bersani è che «l’opinione pubblica possa iniziare a pensare come si stava bene prima», cioè con Berlusconi…
Così nella «strana maggioranza» è iniziata una manovra degna di un equilibrista: stare con il Professore e tenersene però a distanza, appoggiare il governo senza tuttavia assecondarlo.
Il gioco si è disvelato al crocevia della riforma sul mercato del lavoro ed è così che gli equilibri sono saltati.
Persino Casini – che si era sempre schierato dalla parte del premier «senza se e senza ma» – nei giorni dello scontro tra palazzo Chigi e i sindacati si è defilato, prima dicendo che «ad una nuova legge noi preferiamo un buon accordo», poi avvisando che «il Parlamento non sarà un passacarte».
E ieri, dopo le parole pronunciate da Monti in Estremo Oriente, ha criticato il linguaggio del Professore, definendolo un «errore di comunicazione».
Non si era mai visto in effetti un capo di governo che attacca così la propria maggioranza, per quanto «strana».
Il fallo di reazione è stato commesso da chi si è reso conto di non avere più nemmeno la totale copertura del Colle.
Il problema è che anche Napolitano ora ha pochi margini di manovra, dato che il Quirinale si è trasformato a sua volta in un parafulmini.
Nel braccio di ferro tra il premier e il Pd, viene lambita infatti anche la figura del capo dello Stato, che ieri aveva invitato a rinviare il giudizio sulla riforma del mercato del lavoro «quando sarà presentato il testo».
Bersani invece il giudizio l’ha dato, eccome, ravvisando «elementi di incostituzionalità » nel provvedimento.
Il leader democratico ha ripreso la tesi sostenuta in Consiglio dei ministri dal titolare della Salute, Balduzzi, e definita dal Pdl «un’interpretazione sovietica del diritto».
Si attende il rientro di Monti per cercare un compromesso tra le ragioni dei tecnici e quelle dei politici.
Nel frattempo ieri lo spread è risalito a quota 327.
Francesco Verderami
(da “Il Corriere della Sera“)
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