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CONTRORDINE PADAGNI: ORA SALVINI PRENDE LE DISTANZE DA MARINE LE PEN

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

GLI PREFERISCE SILVIO E FA IL MODERATO… “SU FEDERALISMO, LAICITA’ E LIBERISMO SIAMO DIVERSI DAL FN”… E ANCHE IL NO EURO VA IN SOFFITTA

Via dal vento. Il vento lepenista c’è, ma non gonfia le bandiere della Lega. Per scelta, non per caso.
A tre giorni dal trionfo di Marine in Francia, proprio Matteo Salvini, lo skipper padano che un anno fa bollava l’euro come una moneta criminale, che invocava il ritorno alla lira in difesa della sovranità , proprio lui che teorizzava il Front National italiano, si presenta in versione moderata: “Viva i francesi — dice – che hanno dato la sveglia a un’Europa un po’ sonnolenta, chiedendo cose normali: un po’ più di lavoro e un po’ più di sicurezza, niente miracoli”. Tutto qui, senza enfasi alcuna.
Anzi, è solo l’inizio di un ragionamento da cui emerge l’opposto di quello che ti aspetti.
Il leader leghista presenta, alla Stampa Estera, il libro Il metodo Salvini. “Condivido tutto”: risponde così a Lucia Annunziata, che come domanda gli sottopone un brano Alain de Benoist, fondatore della Nouvelle Droite, a proposito delle differenze, rilevanti, tra Front National e Lega. Questo:
Il FN, come la maggior parte dei partiti politici francesi, è di orientamento estremamente giacobino: è ostile ai regionalismi, alle autonomie delle regioni, agli insediamenti delle lingue regionali. Poi un altro tema essenziale per il FN è la difesa intransigente della laicità . Infine sul piano economico e sociale il FN è molto più a sinistra della Lega Nord che fino ad ora non ha condannato il capitalismo liberale con la stessa fermezza.
“Condivido tutto” dice Salvini, lo stesso che qualche mese batteva l’Italia con l’idea di costruire un Front National, e fa concluse la sua manifestazione in piazza del Popolo con Casa Pound.
Ora rimarca le differenze.
Primo: “Sì, io adoro le autonomie, non il centralismo, ma la lingua, i profumi, le cucine, i campanili, le cento patrie”.
Secondo, adora il presepe: “Marine è a favore della laicità , penso che un mondo senza fede sia un non mondo”.
In fondo adora pure il capitalismo: “Datemi un modello di sviluppo diverso, io ancora non lo vedo”.
E pure l’euro, come moneta, si può tenere: “Non saremo noi — dice — a uscire dall’euro ma l’euro a uscire da noi, perchè una moneta senza banca e senza popolo si smonta da sola”.
E così, a tre giorni dal voto francese, ti accorgi che Salvini, quello del “basta euro”, “basta Renzi” e “basta Berlusconi”, più che il vento francese cerca il vecchio ponentino berlusconiano.
Timoroso che una linea lepenista faccia saltare la ritrovata alleanza di centrodestra. Lo ammette, senza neanche tanti giri di parole: “La via solitaria sarebbe più lineare e semplice ma essendo un realista ho scelto l’alleanza”.
Confidando nel mutamento dei rapporti di forza: “Nei 20 anni passati ci siamo alleati da secondi, ora da primi”.
Nel frattempo sono ricominciati i vertici a palazzo Grazioli, le foto in tribuna d’onore a San Siro e pure i lunghi, fumosi e noiosi tavoli per le alleanze e le candidature, dove Salvini si è subito adeguato alle usanze della casa, ammainando la bandiera delle primarie e quelle frasi che tanto gli piacevano tipo “i candidati li scelgono i cittadini”. Quella vecchia volpe di Silvio Berlusconi, uno che è capace di grandi trovate comunicative sui pastrocchi politici, ha già  capito come venderla: “In Italia io e Salvini siamo molto più avanti della Francia perchè lì Sarkò e la Le Pen non si parlano”.
Proprio la grande impasse sulle amministrative spiega tutto, a partire dalla prudenza di Salvini, impegnato nella ricerca di nomi e accordi col Cavaliere.
Anche se, al momento, è tutto in alto mare.
A Milano si è proposto Corrado Passera, ma Berlusconi non è convinto e Salvini è contrario perchè un conto è fare i moderati un conto è “l’uomo delle banche”, su Sallusti la Lega ci starebbe pure, ma non si riesce a chiudere dentro Forza Italia. Berlusconi aveva pure pensato a Paolo Scaroni, ex ad di Eni, ma l’interessato è in ottimi rapporti con Sala e non ha intenzione di sfidarlo.
A Roma l’unica certezza è il no a Marchini, voluto più dalla Meloni che da Salvini.
E a febbraio nuova foto di gruppo a piazza del Popolo: Salvini, Meloni e Berlusconi.
Via dal vento.

(da “Huffingtonpost“)

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IL FRONT NATIONAL ITALIANO E ‘ IL M5S, NON LA LEGA

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

MARINE LE PEN GUIDA UN PARTITO CHE E’ RIMASTO FUORI DAL POTERE, LA LEGA NE FA PARTE INTEGRANTE DA 20 ANNI, NON E’ CREDIBILE

L’Italia non è la Francia. E Matteo Salvini non è Marine Le Pen.
Sembra una cosa scontata e invece pare che lo si debba rammentare.
L’uno è il leader di un partito che si chiama Lega Nord per l’indipendenza della Padania.
L’altra guida un partito che si chiama Front National.
Come si fa a pensare che siano la stessa cosa? È vero che Salvini cerca di far dimenticare le origini del suo partito non parlando più di Padania e omettendo sempre più di frequente il riferimento al Nord, ma è un espediente che funziona poco.
La Lega di Salvini non è un partito nazionale. Il suo elettorato si concentra prevalentemente nelle regioni del Nord dove alle ultime europee ha preso il 12% dei voti contro l’1% nelle regioni del Sud.
E non è nemmeno un partito nazionalista perchè non è l’Italia, ma la Padania il suo riferimento ideale e il suo obiettivo politico.
Nel suo statuto si parla esplicitamente di indipendenza della Padania e del suo riconoscimento internazionale quale “Repubblica federale indipendente e sovrana”. Tutto il contrario del partito di Marine Le Pen che invece ha fatto della identità  nazionale il nocciolo duro del suo programma.
Nè è credibile l’idea che Salvini possa convocare in un prossimo futuro un congresso straordinario per trasformare la Lega Nord in Lega nazionale. La Lega è quella che è. E lo sarà  ancora a lungo. Ancorata a un passato che oggi sta stretto a Salvini, le cui ambizioni- queste sì – sono uguali a quelle di Marine Le Pen.
Anche se volesse il leader della Lega Nord non si può permettere cambiamenti radicali che distruggerebbero l’attuale Lega senza certezze sulla possibilità  di creare un partito di destra nazionale simile a quello francese.
In questi casi l’ambiguità  è una soluzione obbligata. Ed è questa la strategia oggi.
In fondo la Lega Nord di Salvini è un po’ come il vecchio Pci. L’obiettivo del superamento del capitalismo era sempre lì, ma non se ne parlava mai. Così è per l’indipendenza della Padania.
Ma Salvini ha ereditato una Lega Nord ridotta ai minimi termini e ne ha fatto il maggior partito del centro-destra italiano. Non è poco, ma non basta a farne il Fronte italiano.
Una cosa accomuna Lega Nord e Front National: la loro posizione fortemente critica su Europa e immigrazione.
Queste sono questioni che oggi pagano sul piano elettorale. Ma non bastano a Salvini per far dimenticare agli elettori del centro-sud che il suo è un partito del Nord. L’espediente di attrarre questi elettori con una lista diversa da quella della Lega Nord, una lista incentrata sul suo nome, non ha funzionato alle ultime elezioni regionali ed è molto improbabile che possa funzionare alle prossime.
In Puglia la lista Noi con Salvini ha preso il 2% dei voti. In Campania non si è nemmeno presentata.
L’Italia non è la Francia per un altro motivo che nuoce a Salvini.
In Francia il Front National è la vera alternativa ai partiti tradizionali. Come tale raccoglie non solo i voti di coloro che vogliono meno Europa, meno immigrazione e più sicurezza, ma anche di quelli che puntano a un cambiamento radicale di classe dirigente.
È il partito anti-establishment della Quinta Repubblica. Un partito tenuto ai margini per decenni da un sistema istituzionale ed elettorale che lo ha penalizzato.
Ancora oggi dentro l’assemblea nazionale ci sono solo due deputati del Fronte su 577, pur avendo ottenuto quasi il 14% dei voti alle ultime elezioni politiche nel 2012.
Ma questa emarginazione è diventata ora un vantaggio perchè consente al partito di Marine Le Pen di apparire come diverso dagli altri e quindi di capitalizzare la voglia di cambiamento cui i partiti tradizionali non riescono a rispondere.
La Lega di Salvini non ha questo vantaggio. È un partito che è stato a lungo al governo. E oggi si presenta ancora come alleato di un partito come Forza Italia che è membro del partito popolare europeo.
È come se Sarkozy e Le Pen andassero a braccetto.
Da molti punti di vista, ma non tutti, è il M5s ad essere molto più simile al Front National.
È questo il partito percepito da tanti elettori italiani, in tutte le zone del paese e in tutti i ceti sociali, come la vera alternativa alla casta.
Le sue posizioni sulla immigrazione non sono quelle del Fronte di Marine Le Pen, nonostante gli ammiccamenti di Grillo verso gli elettori leghisti.
Su questo tema il M5s non può permettersi di rincorrere la Lega Nord. La sua componente di sinistra si ribellerebbe.
Ma sull’Europa invece è molto vicino alle posizioni del Front National e questo gli consente di togliere spazio a Salvini.
Inoltre come il Front National beneficia della crisi economica e delle paure a essa associate. Insomma, il quadro politico italiano è molto più complesso e frammentato di quello francese e questo rende difficile per Salvini imitare Marine Le Pen.
I due sistemi partitici sono semplicemente troppo diversi. Le vicende politiche francesi non avranno un effetto politico duraturo da noi, anche se i problemi che sollevano ci toccano da vicino.
Oggi in Italia esiste certamente uno spazio politico per un partito come il Front National, ma è occupato da troppe formazioni in competizione tra loro.
In ogni caso solo domenica si vedrà  cosa succederà  veramente in Francia.
Il primo turno ha fotografato le prime preferenze degli elettori e il Front National è arrivato primo, così come aveva già  fatto alle ultime europee.
Ma la sinistra e la destra hanno preso complessivamente più voti.
La prima 7.806.562 e la seconda 6.884.785 contro i 6.052.733 del partito di Le Pen. Trattandosi di un sistema maggioritario non sono questi totali a decidere la partita, ma la distribuzione dei voti nelle varie regioni.
Ma questi voti dicono che destra e sinistra rappresentano insieme ancora due terzi degli elettori francesi.
Dipenderà  da loro il risultato finale. Dipenderà  soprattutto dal comportamento degli elettori dei partiti di sinistra esclusi dal secondo turno.
Il bello dei secondi turni è che gli elettori, sia quelli dei partiti esclusi dal secondo turno sia quelli dei partiti presenti, sono davanti ad una scelta chiara.
Dal loro voto dipende chi governa, e lo sanno. Di fronte a questa responsabilità  molte cose possono cambiare, o nulla.
Nell’un caso o nell’altro all’indomani del voto ne sapremo molto di più su quello che bolle all’interno della società  francese.

Roberto D’Alimonte
(da “il Sole24 ore”)

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IL MOTORE DEL FRONT NATIONAL E’ LA CRISI ECONOMICA, NON IL TERRORISMO

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

I VOTI DELLA LE PEN LADDOVE E’ PIU’ ALTO IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

La Libertè è rimasta sepolta sotto i cadaveri del Bataclan. La Fraternitè l’ha fatta a pezzi la globalizzazione, in Francia come nel resto d’Europa.
Ma quanto ha pesato l’Egalitè nell’enorme vittoria di Marine Le Pen al primo turno delle elezioni amministrative?
Se le stragi avessero fatto la differenza, il risultato del Front National a Parigi avrebbe dovuto essere eclatante. E invece se si esclude la Bretagna, lì registra il peggior risultato con uno striminzito 9,7 per cento dei consensi.
Il flop a Parigi
Nel decimo arrondissement, il cuore sanguinante della Capitale, la percentuale scende al 7,3 per cento. Può sembrare solo una questione di censo. L’elettore lì è aperto, laico, cosmopolita, niente a che vedere con chi vive nelle periferie che hanno allevato una generazione di terroristi. Ma quello è anzitutto un francese ricco.
Se giri per le strade e chiedi dove stia il grande malato d’Europa, qui non sanno di che parli.
Bloomberg ha confrontato il risultato di domenica del Front National con il tasso di disoccupazione regione per regione: quanto più è alta la percentuale dei senza lavoro, tanto più forte è il successo dell’estrema destra.
Vero è che le dodici grandi aree nate dalla nuova divisione amministrativa sono grandi e complesse, eppure il risultato migliore la Le Pen lo incassa nel Nord-Pas-de-Calais, poi in Provenza, in Alsazia e Lorena, nel Languedoc, zone in gran parte rurali, dove la disoccupazione supera il dieci per cento e non sempre note per le tensioni etniche.
Insomma, nella vittoria della Le Pen c’è anzitutto la sofferenza di una nazione che punisce i due grandi partiti che in questi anni l’hanno governata con scarsi risultati: i socialisti e l’ex Ump di Nicolas Sarkozy.
Tasse alle stelle
La pressione fiscale in Francia resta oltre il 44 per cento, la più alta d’Europa dopo la Danimarca, la crescita è debole (+1,1 per cento la previsione alla fine dell’anno) appena migliore di ciò che spera di ottenere Matteo Renzi.
Ma la spesa pubblica è al 57,2 per cento del Pil, ben oltre il 51,1% dell’Italia e il 49,3% della Grecia.
La disoccupazione è di sette decimali sotto a quella italiana (10,8 contro l’11,5 per cento) e però calmierata da un esercito di dipendenti pubblici nell’amministrazione centrale e locale.
Mentre a queste latitudini si tagliava, oltralpe si assumeva.
Immigrazione, identità , eclissi dei partiti tradizionali: nella crisi della politica continentale c’è certamente molto di questo.
Eppure il prosaico «It’s the economy stupid» coniato nel 1992 dallo stratega di Bill Clinton James Carville si conferma decisivo.
Per recuperare consensi il premier spagnolo Mariano Rajoy si è spinto a pelar verdure in un programma televisivo.
Risalire la china del 44 per cento incassato quattro anni fa è impossibile, ma nonostante questo i sondaggi lo danno saldamente in testa con oltre il 28 per cento, almeno sette punti sopra il minimo storico, il Psoe, i liberisti di Ciudadanos, almeno dieci punti sopra Podemos di Pablo Iglesias.
Al netto della reazione patriottica alle ambizioni autonomiste della Catalogna, il recupero di Rajoy è speculare al trionfo della Le Pen: l’economia spagnola viaggia ad una velocità  quattro volte quella dell’Italia, tre volte più veloce della Francia.
La disoccupazione è ancora altissima al 21,6 per cento, eppure in rapido calo.
Più che nei grandi centri urbani, Rajoy recupera consenso nelle zone più povere, quelle che avevano pagato il dazio più alto alla crisi iniziata nel 2011 e culminata con il salvataggio europeo delle banche.
Si vota domenica 20 dicembre, un paio di giorni prima le aziende spagnole distribuiranno la tredicesima a lungo sospesa.
A Madrid dicono che la scelta della data non è a caso.
It’s the economy, stupid.

Alessandro Barbera
(da “La Stampa”)

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“I MIEI GIORNALI SONO PRONTI A MASSACRARVI”: LE MINACCE DI BERLUSCONI A MARONI E L’ACCORDO SI FA

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

ECCO LE INTERCETTAZIONI TRA LA VOTINO, BERLUSCONI E MARONI

L’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria contiene intercettazioni telefoniche e ambientali condotte dal Centro operativo della Dia di Reggio Calabria. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo.
A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perchè i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato.
C’erano le minacce di Berlusconi di usare i giornali del centrodestra contro la Lega dietro le trattative dell’accordo che ha deciso le sorti del Paese negli ultimi anni.
Se oggi abbiamo Renzi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale. Se è esistito un governo Letta ed esiste il Nuovo Centro Destra di Alfano, se insomma ci troviamo a questo punto, tutto dipende da quell’accordo politico tra Lega Nord di Maroni e Pdl di Berlusconi annunciato il 7 gennaio 2013.
Senza l’accordo e i relativi premi di maggioranza regionali alla destra, Bersani avrebbe avuto la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con l’appoggio di Monti al Senato. Sarebbe stato lui il premier e Renzi sarebbe ancora il sindaco di Firenze.
Maroni pensava inizialmente di andare da solo alla sfida per la Regione Lombardia e alle nazionali. Berlusconi sarebbe stato fatto fuori dai giochi. Niente Napolitano bis, niente patto del Nazareno, niente di niente.
A gestire la partita decisiva troviamo Isabella Votino. Le intercettazioni dell’indagine “Breakfast” della Dia di Reggio Calabria svelano il suo ruolo.
La persona giusta al posto giusto, visto che i due leader la apprezzano entrambi come professionista e come donna. Votino non era allora solo la storica portavoce di Roberto Maroni, ma era anche ben retribuita dal Milan di Berlusconi.
Isabella: niente lista, grazie
Per esempio è Maroni, il 30 ottobre 2012, a riferirle che Berlusconi vorrebbe candidarla in una lista di giovani per le elezioni del 2013.
Lei richiama il presidente del Milan: “Bobo mi ha detto poi, magari, quando vuoi ci vediamo… quella storia lì, della lista… mah, non lo so, al momento non mi sembra propizio. No, adesso io vorrei capire cosa succede qui in Regione Lombardia. Io ti dico la verità , vorrei che lui (Maroni, ndr) facesse il presidente della Regione. Quindi io spingerò in tal senso, secondo me lui deve osare e, dopodichè, fatto questo, fate l’accordo anche per le Politiche”.
Il suo disegno si realizzerà . Quattro giorni prima Berlusconi era stato condannato a 4 anni per la frode fiscale sui diritti Mediaset. All’orizzonte si addensavano minacciosi i processi Ruby; intercettazione Fassino sul caso Unipol e corruzione dei senatori a Napoli. Berlusconi è terrorizzato.
Maroni lo sa e il 5 novembre 2012, dice testualmente cosa può offrire in cambio della Regione: “Se si fa l’operazione in Lombardia noi gli diamo una mano anche sulle sue questioni personali… ci siamo intesi!”.
Qualcuno zittisca i leghisti
Il mercanteggiamento prosegue tra alti e bassi. Il 30 dicembre 2012, Berlusconi chiama Votino. È infuriato per le continue dichiarazioni scettiche sul suo ruolo di leader del centrodestra da parte di Salvini e mette sul piatto la vera posta: la sua elezione al Quirinale.
“Andiamo malissimo, eh! Chiedere a me di non essere presidente del Consiglio… lo sanno bene che non lo sarò mai perchè, se perdiamo è inutile dirlo, il presidente del Consiglio sarà  uno di sinistra. Se vinciamo, io ho sempre detto che non faccio il presidente del Consiglio ma non lo posso dire alla gente. E, se vinciamo, io pretendo che mi nominino a presidente della Repubblica. Dove non starò sette anni. Starò tre mesi, non ne ho nessuna voglia ma, almeno concludiamo una carriera per quel che mi riguarda”.
Oggi sembra assurdo pensare Berlusconi sul Colle. Eppure sarebbe bastato che un partitino come il Cd di Tabacci fosse passato nel 2013 con il suo 0,5 per cento da sinistra a destra per far vincere il premio di maggioranza alla Camera al centrodestra. In quel caso Berlusconi sarebbe stato eletto davvero presidente.
Salvini sguaiato, come avesse bevuto
“Poi, Isabella, scusa eh! Ma noi abbiamo contro di noi le dichiarazioni di questo eee… ubriaco di Salvini. le dichiarazioni sgradevoli continuative di questo Tosi che tutta la sua città  sa che (….). Questa è una cosa che dirò (…) un certo momento non è che possiamo sempre stare lì a prenderle, no? (…) Cioè, tieni presente che, se non si fa l’accordo lui (Maroni) è finito perchè è chiaro che noi scaricheremo, contro di lui e contro i due (Salvini e Tosi, Ndr) questo trio di sciagurati, tutta la nostra forza critica, con i nostri giornali”. Poi Berlusconi cambia tono: “Ma io sono disperato, non penso di fare queste cose”.
Isabella Votino cerca di farlo ragionare: “Sono intervenute delle novità , nel frattempo, come la discesa, di fatto, in campo di Monti. Ma a te, poichè lo sai benissimo che non vinci le elezioni, no, che cazzo te ne frega, pure a te, di fare il premier? Quello che dico io, tanto non lo farai comunque, allora, manda avanti Angelino Alfano, come ti aveva chiesto lui”.
E Berlusconi: “Scusami, se la gente non pensa che il Premier sarò io, perdo più dei voti che mi porta la Lega. Perchè siamo andati su di 10 punti in 15 giorni senza mai avere avuto un ‘prime time’ (…) il Premier non lo farò mai perchè, se vinciamo, pretendo di essere io Presidente della Repubblica per tre mesi . Per tre mesi!”.
E Isabella Votino: “Okay, okay (…) sì, però non ho capito come si fa a realizzare questa condizione, scusami”.
E lui: “Come, come si fa a realizzare? Io dico che sono il capo della coalizione, punto. (…) nessuno è candidato Premier!! Se si vince, io vado a fare il Presidente della Repubblica e quindi il Premier sarà  un altro, no?”.
Quando Votino gli riferisce la tentazione di Maroni — “se vado da solo, è vero che posso perdere però, per lo meno, ho fatto la battaglia e perderò con onore!” — , Berlusconi risfodera il bastone mediatico: “Gli ho già  fatto vedere come so scatenare i nostri due giornali (uno è certamente Il Giornale e l’altro potrebbe essere o Panorama o Libero, del senatore del Pdl Tonino Angelucci, Ndr) contro Albertini. Albertini è un uomo fragilissimo. Se sa di avere perso a un certo momento possiamo anche pensare che si ritiri in corso di campagna e io ho parlato durissimo con Albertini il quale ad un certo momento si è messo a piangere e mi ha detto ‘ma come faccio, non posso tradire tutti quelli che adesso mi… mi han dato soldi…’ … di qui e di là  ma ha già  capito: CL (Comunione e Liberazione, Ndr) si è messa contro di lui e lui al massimo può farci perdere la Lombardia se si prende troppi voti. Adesso noi abbiamo incaricato la signora (Alessandra Ghisleri, probabilmente, Ndr) lì di vedere cosa succede con Albertini in campo, senza sostegno nostro, e con Albertini che diventa un nostro avversario su cui spariamo quotidianamente. I primi risultati che sono venuti fuori: la Lombardia è vostra. Cioè, vince Maroni”.
In questo modo è finito lui, e siamo finiti tutti
Dopo la carota riecco il bastone. Stavolta sulla testa di Maroni: “È un irresponsabile se fa questo ragionamento perchè: punto primo, perdiamo nazionalmente; punto secondo, perdiamo la Lombardia; punto terzo, a cascata perdiamo il Piemonte; quarto, perdiamo il Veneto; quinto, si disfanno tutte le cento amministrazioni che abbiamo insieme in Lombardia e nel Nord… è finita… è finita, lui avrà  contro tutto, avrà  contro all’interno anche Bossi, Castelli, Giorgetti… quindi lui è finito, l’Italia è finita, io, naturalmente, sono finito, mi metteranno in galera, mi faranno fallire e mi metteranno in galera e siamo al disastro più totale”.
Quello si è messo pure a piangere
Berlusconi sembra tornato quello che confidava i suoi incubi a Enzo Biagi e Indro Montanelli prima della discesa in campo del 1994 che poi li scacciò.
Alla fine della telefonata riassume a Isabella i punti da riferire a Maroni: “Punto primo, io ho accettato di dire che sono (solo, Ndr) il capo della coalizione come Monti e Bersani. Non si parla, perciò, di candidatura alla Presidenza del Consiglio; secondo, per quanto riguarda Albertini, ci impegniamo a fargli una lotta contro, totale, con i due giornali in campo e con Formigoni e Cl in campo. Albertini è molto fragile e quindi (…) dalla parte della soluzione del divorzio c’è il disastro totale dall’altra parte non diamo l’Italia ai comunisti e Maroni diventa presidente della Lombardia, è indubitabile! Va bene, dai, Isabella, metticela tutta, per favore”.
Lei chiama Maroni il 30 dicembre del 2012 e lo lavora ai fianchi:
V (Isabella Votino): “Bobo, tu c’hai le idee un po’ confuse e te l’ho già  detto, qui bisogna… cioè, io non ho ancora capito qual è la tua strategia e soprattutto qual è, diciamo, l’obiettivo… ovviamente mi ha chiamato Berlusconi stamattina, avvilito, mi ha tenuto un’ora al telefono…”
M (Roberto Maroni): “Ma, scusa, due condizioni, nessuna delle due si è realizzata e allora vaffanculo! Gli ho detto, fai ritirare Albertini e tu non ti candidi Premier… non ha fatto ritirare Albertini, vuole candidarsi Premier, come faccio a sostenerlo?”
I: “Va boh, io ti dico quello che mi ha detto… ‘ovviamente — ha detto — lui sa benissimo che non farò il Premier e questo lo sa lui, lo sai tu, lo sappiamo tutti, e anche vero’ — ha detto — ‘che i sondaggi te li ha fatti vedere e comunque ce li hai pure tu, che se si candida Alfano il Partito piglia il 10 per cento e se lui ha qualche possibilità  è perchè la gente vota lui’”.
M: “Ho capito, io non posso reggere questa cosa! (…) Perchè lui non dice chi è il candidato premier? Chi è? Non lo dice perchè? Perchè dirà , ‘si, per adesso non lo diciamo, tanto sarò io!’. No, e quindi anche questa cosa qui io non riesco a sopportarla. Quando si decide si decide e poi ognuno subirà  le conseguenze della sua decisione”.
Poi di fronte alle insistenze di Isabella, Maroni cede: “Voglio fare un ultimo tentativo ad incontrare Berlusconi, però io e lui senza le telecamere”.
Sempre il 30 dicembre Votino chiama Berlusconi: “Se sarà  un matrimonio o una separazione questo io non lo so, però, quello che posso fare nell’interesse di tutti… voi vi incontrate tu e lui da soli, cioè, nel senso senza nessuno, in un posto dove nessuno lo può sapere, vi dite tutto quello che vi dovete dire e dopo di che eeee… decidete che cosa fare… io (…) al più tardi il 2 mattina, voi vi vedete (…) tu lo sai io sono sempre stata fuori dai vostri incontri proprio perchè non voglio nè essere tirata dentro, nè voglio che poi utilizzano me per mettere in difficoltà  lui, quindi, questa volta lo faccio proprio perchè è fondamentale, anche perchè, voglio dire, siamo … voglio dire, dobbiamo comunque chiudere perchè se no è ridicolo, quindi lo sappiamo in tre”.
No, Giannino no: non dire sciocchezze
Tutto rischia di saltare quando dalla Lega sparano su Berlusconi leader della coalizione e lui chiama la Votino
B: “Io volevo fare una telefonata a Roberto (Maroni, Ndr) per dirgli, “Roberto, adesso però basta, i tuoi di qui, i tuoi di là … cazzo, sei un leader… per il leader, ad un certo momento, decide lui e gli altri lo seguono!” (…) lui deve fare il leader anche… si interrompe brevemente la linea … e con i Tosi… si fa così… (…) Hai mandato via Bossi? Sei tu il leader? E fai il leader”.
Il 4 gennaio riemerge il Berlusconi minaccioso. Quando Isabella Votino gli dice “è venuto Oscar Giannino da noi, che tu sai bene che lui adesso è rimasto fuori da tutto, li hai visti anche tu i sondaggi, che lui è dato tra il 3 e il 4, tu considera che noi siamo al 26 contro Ambrosoli che è al 28. Se Giannino, che ovviamente dice che lui viene con noi se non c’è il Pdl, tu considera che, come opzione c’è anche questa per cui noi, alla fine, rischiamo di vincere anche senza il Pdl in Lombardia!!”.
Berlusconi, quando si sente paragonato a Giannino come possibile partner nel valzer delle alleanze leghiste, sbotta: “Ma non dire sciocchezze, scusami Isabella!”. Isabella Votino si fa piccola piccola e balbetta: “Ma tu considera … tu considera… tu considera”.
Il leader del Pdl è un fiume in piena: “Ma ti facciamo un attacco alla Lega che li mettiamo nudi. Facciamo Forza Nord… alla Lega … con coso la Lega svanisce e ti do la mia parola… la Lega non fa il 4 per cento con il mio attacco. eh! Perchè siamo stufi di essere presi… ”
Subito Votino riferisce a Maroni: “Si è innervosito un po’ quando gli ho detto il fatto di Giannino, ha fatto, ‘Ah, basta! Non mi devi … pure tu non mi prendere in giro, non è così, perchè se non si fa l’accordo io scateno tutti contro la Lega, altro che 26 per cento’. Maroni risponde un “Siiii?” sarcastico. Però anche lui vuole chiudere.
Chiede solo una dichiarazione: “Lui non vuole dirlo che lui non è il candidato Premier perchè è una cosa sua personale, psicologica, no, non c’entra un cazzo i sondaggi e queste cose qua. A me, infatti, mi ha detto, “ah, tu vuoi mettermi in soffitta come Bossi!”, ma vaffanculo, gli ho detto!!! Sei il capo della coalizione, miiiinchia!!”.
Il sette gennaio alle 8 di mattina Isabella Votino scrive alla sua amica, avvocato di Berlusconi, Cristina Rossello, un sms: “Ce l’abbiamo fatta!!! Ce l’abbiamo fatta!!!”. E la professionista replica: “Evviva Brava”. Isabella se lo merita.

Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano”)

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RIENTRO CAPITALI, AL FISCO SOLO 3,8 MILIARDI: CHI SI E’ AUTODENUNCIATO HA PAGATO SOLO IL 6%

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

VOLUNTARY DISCLOSURE: 129.565 DOMANDE PRESENTATE PER UNA BASE IMPONIBILE DI 59,6 MILIARDI…ABBUONATE LE IRREGOLARITA’ PRECEDENTI AL 2009-2010

L’operazione di rientro dei capitali nascosti al fisco varata un anno fa dal governo Renzi ha fruttato alle casse dell’Erario 3,8 miliardi di euro di gettito tra tasse non pagate e sanzioni. A prima vista un successo, ma, a conti fatti, si scopre che i 129.565 contribuenti che si sono autodenunciati hanno versato solo il 6% delle cifre regolarizzate, che ammontano a quasi 60 miliardi.
La percentuale di recupero è ben inferiore rispetto a quelle a doppia cifra paventate dai commercialisti.
Forse perchè nel frattempo il governo, proprio con l’obiettivo di far decollare la voluntary disclosure, ha incentivato l’adesione consentendo a chi ha sanato irregolarità  fiscali commesse prima del 2009-2010 di farlo senza pagare nulla.
Tornando ai numeri diffusi dal Tesoro, 127.348 istanze hanno riguardato soldi occultati all’estero e le altre 2.217 capitali detenuti in Italia ma non dichiarati.
La base imponibile emersa è di 59,6 miliardi, di cui 41,5 erano in Svizzera, 4,6 miliardi nel principato di Monaco, 2,2 alle Bahamas e 1,3 a Singapore.
Seguono Lussemburgo e San Marino.
Fabrizia Lapecorella, capo del dipartimento finanze del Tesoro, ha detto che circa 16 miliardi sono rientrati in Italia. Alla stima “prudenziale” dei 3,8 miliardi di gettito si arriva sommando imposte sui redditi per oltre 704 milioni, imposte sostitutive per circa 1,2 miliardi, Iva per più di 54 milioni, Irap per 34 milioni, ritenute per oltre 15 milioni e contributi per 96 milioni.
A questi importi si aggiungono sanzioni relative a violazioni della normativa sul monitoraggio fiscale per 1,38 miliardi altre sanzioni per 322 milioni.
Va ricordato che una parte della somma recuperata è già  impegnata: 1,4 miliardi Palazzo Chigi ha deciso di usarli per sterilizzare la clausola di salvaguardia sulla reverse charge, che altrimenti avrebbe fatto aumentare le accise sulla benzina fino a totalizzare 728 milioni di euro, e gli oneri (671 milioni) legati all’abolizione dell’Imu decisa nel 2013 da Enrico Letta.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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PD, BASSA FEDELTA’ E POCHE TESSERE, MA FA IL PIENO DI VOTI

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

LA PARTECIPAZIONE CONTINUA A CALARE, MA IL 10% DEGLI ELETTORI DI RENZI E’ DI DESTRA

Il weekend passato ha visto due giorni di “orgoglio Pd”: secondo gli organizzatori sono stati allestiti 2113 banchetti, con la partecipazione di oltre 30mila volontari e 5 milioni di volantini distribuiti.
Ciò implicherebbe un banchetto ogni tre circoli del partito (erano circa 6.500 a inizio anno), un militante in piazza ogni dodici iscritti, e circa 2.400 volantini a postazione. Ma questo cosa ci dice dello stato di salute del partito di Renzi?
La mobilitazione crolla in tutta Europa
Se i circoli erano 7.221 nel 2009 ai tempi della fondazione, e sono ormai diminuiti di oltre mille unità , chi anima questi luoghi di partito?
Abbiamo raccolto i dati degli iscritti ai Ds e Margherita, e poi dal 2009 i dati inerenti al Pd.
I dati testimoniano un andamento ormai consolidato: un calo degli iscritti.
Dagli 831.042 comunicati dal Pd nel 2009 ai 366.641 del 2014, la diminuzione è del 55%. Un leggero aumento (più 80.000 unità ) si è avuto solo con il congresso 2013, secondo un trend tipico della Margherita, con l’aumento dei tesserati prima degli eventi della democrazia interna.
Questo delle tessere è comunque solo uno degli aspetti, e vede peraltro i democratici in buona compagnia: sul fronte della sinistra europea l’Spd tedesca l’anno scorso registrava 459.902 iscritti, il Labour inglese è intorno a 200.000 dal 2010, mentre il Partito Socialista francese ha 133.000 tesserati.
Da Berlinguer a Rignano
Restando in Italia, le cifre disponibili raccontano di poco più di 100.000 iscritti a Forza Italia, con la Lega a 122.000 mentre il Movimento 5 Stelle a giugno 2014 ne contava 87.654.
La dinamica generale sembra aver a che fare, più che con le leadership contingenti, con un più radicato fenomeno di dissoluzione dei partiti come “corpi intermedi” in atto almeno da vent’anni.
Il Pci, per esempio, non riuscì a eguagliare mai il picco di 2 milioni di iscritti raggiunto nel ’56 neanche ai tempi di Enrico Berlinguer(dati Istituto Cattaneo).
Negli ultimi anni, poi, il livello di fiducia eidentificazione con i partiti è andato precipitando. Insomma: le scelte di voto, specie a livello nazionale, hanno sempre meno a che fare con l’appartenenza e l’adesione. Sembra passato anche il tempo della “fedeltà  leggera”, quando la mobilità  del voto esisteva, ma si esprimeva all’interno di uno stesso schieramento.
È anche per questo che, come evidenzia il grafico, l’andamento degli iscritti al Pd e il suo consenso elettorale sembrano rispondere atrend completamente differenti. D’altra parte, è vero che il Pd è diventato, specie negli ultimi anni, un soggetto con un bacino elettorale molto fluido.
La trasformazione dei “pigliatutto”
Su 100 elettori del Pd di Veltroni 23 si definivano di sinistra, 42 si definivano di centrosinistra e ben 31 di centro; ai tempi di Bersani, alle Politiche 2013, il quadro era cambiato, con 33 su 100 che si collocavano a sinistra, 51 a centrosinistra e appena 14 di centro (dati Itanes).
Nel 2014, quando Renzi sale a Palazzo Chigi, Demos misura ben il 10% degli elettori Pd che si dichiarano di centrodestra o destra (erano il 2% con Bersani), più un 11% di “esterni”, che rifiutano cioè di prendere posizione sul tradizionale asse sinistra-destra. Dato confermato dal sondaggio pubblicato in questi giorni dal Cise, che fotografa un 9,2% di elettori Pd di destra.
A queste evoluzioni sul profilo “ideologico” dell’elettore democratico si accompagnano cambiamenti anche dell’identikit sociale e demografico.
Alle Europee del maggio 2014, quelle del trionfo renziano con il 40,8% dei voti, il Pd riesce a raccogliere — secondo l’analisi di Emg — il 31% dei consensi fra i lavoratori autonomi e il 42% fra le casalinghe.
Due segmenti che avevano sempre premiato il centrodestra e in particolare Berlusconi.
I dati di Ipsos di un anno fa confermavano l’appeal del Pd a guida Matteo Renzi presso gli imprenditori e i liberi professionisti, un tratto tutto all’opposto del Pd di Pier Luigi Bersani che, secondo le stime Lapolis, doveva molto del suo consenso ai pensionati e ai dipendenti pubblici.
Le comunali della Nazione
Questo parziale spostamento verso destra dell’elettorato Pd è confermato dagli studi del Cise di maggio 2015: il governo riscuote l’apprezzamento del 33,2% degli elettori che si definiscono di centro, e del 26,9% di quelli di destra.
Per le riforme del Jobs Actl’apprezzamento sale al 37,8% per il centro e al 39,2% per la destra. In attesa di capire se davvero il Pd stia diventando il Partito della Nazione, il test delle Comunali di maggio ci dirà  molto sulla capacità  dei democratici di trovare candidati competitivi sul territorio e di mantenere una struttura organizzativa solida.

Andrea Piazza e Lorenzo Pregliasco
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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SPARA A FIDANZATI IN AUTO SCAMBIANDOLI PER LADRI: EVVAI CON I PISTOLERI PSICOLABILI

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

E’ L’EFFETTO DI CHI SPECULA SULLA INSICUREZZA E INVOCA LA GIUSTIZIA FAI DA TE

Scambia due fidanzati per ladri e spara sulla loro auto: sfiorata la tragedia a San Giorgio a Pertiche, nel padovano.
Un ventenne e la sua compagna sono finiti all’ospedale per le ferite riportate a seguito del colpo sparato da un uomo del posto.
La prognosi per il giovanissimo è di 40 giorni, fortunatamente il malcapitato non è in pericolo di vita; la ragazza dovrà  rimanere a riposo invece per 7 giorni a causa dello shock subito.
I carabinieri hanno denunciato l’uomo per lesioni personali aggravate, danneggiamento, esplosioni pericolose e porto abusivo di armi.
Lo sparatore, 53 anni, stava tornando insieme a due amici da una battuta di caccia alle nutrie.
Ha notato l’auto ferma in un luogo appartato, ha bussato sul finestrino per chiedere spiegazioni. Il ragazzo, spaventato, ha rimesso in moto l’auto.
Il cacciatore ha risposto sparando e sfracellando il lunotto posteriore.
Sul fatto di San Giorgio delle Pertiche esplode il dibattito sulla legittima difesa e l’utilizzo delle armi.

(da “il Mattino di Padova”)

argomento: denuncia | Commenta »

“BERLUSCONI RICATTAVA MARONI”: “O VI ALLEATE O LUI E SALVINI SONO FINITI, CI PENSERANNO I MIEI GIORNALI A FAR CONOSCERE CHI SONO”

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

LE INTERCETTAZIONI TRA ISABELLA VOTINO E IL CAVALIERE: “SALVINI E’ UBRIACO”

«Berlusconi minacciò Maroni». A riportarlo è il Fatto quotidiano, in un articolo di Marco Lillo nel quale si spiega come, dietro l’intesa tra Forza Italia e Carroccio delle elezioni 2013, ci sarebbe l’ “avvertimento” del Cav di scagliare i giornali di famiglia contro la Lega se questa non si fosse alleata con Fi.
Scrive il quotidiano diretto da Marco Travaglio:
«Se oggi abbiamo Renzi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale. Se è esistito un governo Letta ed esiste il Nuovo Centro Destra di Alfano, se insomma ci troviamo a questo punto, tutto dipende da quell’accordo politico tra Lega Nord di Maroni e Pdl di Berlusconi annunciato il 7 gennaio 2013. Senza l’accordo e i relativi premi di maggioranza regionali alla destra, Bersani avrebbe avuto la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con l’appoggio di Monti al Senato. Sarebbe stato lui il premier e Renzi sarebbe ancora il sindaco di Firenze. Maroni pensava inizialmente di andare da solo alla sfida per la Regione Lombardia e alle nazionali. Berlusconi sarebbe stato fatto fuori dai giochi. Niente Napolitano bis, niente patto del Nazareno, niente di niente. A gestire la partita decisiva troviamo Isabella Votino. Le intercettazioni dell’indagine “Breakfast” della Dia di Reggio Calabria svelano il suo ruolo. La persona giusta al posto giusto, visto che i due leader la apprezzano entrambi come professionista e come donna. Votino non era allora solo la storica portavoce di Roberto Maroni, ma era anche ben retribuita dal Milan di Berlusconi».
BERLUSCONI, LA LEGA E IL RUOLO DI ISABELLA VOTINO  
Il Fatto riporta come il 30 ottobre 2012 Maroni riferì alla portavoce Votino l’idea di Berlusconi di volerla candidare in una lista di giovani per le elezioni del 2013.
Fu lei a richiamare il Cav, mostrando le sue perplessità :
«No, adesso io vorrei capire cosa succede qui in Regione Lombardia. Io ti dico la verità , vorrei che lui (Maroni, ndr) facesse il presidente della Regione. Quindi io spingerò in tal senso, secondo me lui deve osare e, dopodichè, fatto questo, fate l’accordo anche per le Politiche», si legge sul quotidiano diretto da Travaglio.
Poi le sue volontà  diventeranno realtà .
Tutto mentre il Cav veniva “sommerso” dai problemi di natura giudiziaria (tra condanna sul caso Mediaset, caso Ruby e il processo sulla corruzione dei senatori, ndr). Maroni, in cambio dell’appoggio azzurro alle Regionali, promette una mano, secondo quanto riporta il Fatto: «Se si fa l’operazione in Lombardia noi gli diamo una mano anche sulle sue questioni personali… ci siamo intesi!».
BERLUSCONI E IL QUIRINALE: «SE VINCIAMO VADO AL COLLE TRE MESI». E LE ACCUSE A SALVINI
Nelle telefonate e nelle conversazioni riportate dal Fatto emerge anche un retroscena sul Qurinale con il Cav protagonista, oltre alle accuse dello stesso Berlusconi a Salvini, l’attuale leader leghista con il quale il presidente azzurro si è alleato.
«Andiamo malissimo, eh! Chiedere a me di non essere presidente del Consiglio… lo sanno bene che non lo sarò mai perchè, se perdiamo è inutile dirlo, il presidente del Consiglio sarà  uno di sinistra. Se vinciamo, io ho sempre detto che non faccio il presidente del Consiglio ma non lo posso dire alla gente. E, se vinciamo, io pretendo che mi nominino a presidente della Repubblica. Dove non starò sette anni. Starò tre mesi, non ne ho nessuna voglia ma, almeno concludiamo una carriera per quel che mi riguarda”. Oggi sembra assurdo pensare Berlusconi sul Colle.
Eppure sarebbe bastato che un partitino come il Cd di Tabacci fosse passato nel 2013 con il suo 0,5 per cento da sinistra a destra per far vincere il premio di maggioranza alla Camera al centrodestra. In quel caso Berlusconi sarebbe stato eletto davvero presidente.
Nelle telefonate di tre anni fa Berlusconi insultava l’esuberante Matteo Salvini che oggi deve digerire come suo leader», si legge sul Fatto.
E ancora:   «Poi, Isabella, scusa eh! Ma noi abbiamo contro di noi le dichiarazioni di questo eee… ubriaco di Salvini. le dichiarazioni sgradevoli continuative di questo Tosi che tutta la sua città  sa che (….). Questa è una cosa che dirò (…) un certo momento non è che possiamo sempre stare lì a prenderle, no? (…). Cioè, tieni presente che, se non si fa l’accordo lui (Maroni) è finito perchè è chiaro che noi scaricheremo, contro di lui e contro i due (Salvini e Tosi, Ndr) questo trio di sciagurati, tutta la nostra forza critica, con i nostri giornali».

(da “Giornalettismo”)

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ANGELA MERKEL E’ LA PERSONA DELL’ANNO PER IL TIME: “CANCELLIERA DEL MONDO LIBERO”

Dicembre 9th, 2015 Riccardo Fucile

E’ LA PRIMA DONNA DAL 1986 A VINCERE LA CLASSIFICA: UN RICONOSCIMENTO A CHI HA RESPINTO LA XENOFOBIA

Angela Merkel è stata nominata “personaggio dell’anno” secondo il Time che le ha dedicato la copertina: è la prima donna ad arrivare in testa alla classifica della rivista americana dal 1986 e la quarta da quando è stata istituita.
Al secondo posto tra le persone più influenti c’è il califfo e leader dell’Isis Abu Bakr Al-Baghdadi e al terzo il candidato Usa alle presidenziali Donald Trump, al centro delle polemiche negli ultimi giorni per aver proposto di vietare l’ingresso nel Paese ai musulmani.
A seguire, il presidente dell’Iran Hassan Rohani, il movimento per i diritti civili negli Usa “Black lives matter” e il ceo di Uber Travis Kalanick.
In prima pagina, a fianco del ritratto della leader tedesca, si legge: “Cancelliera di un mondo libero“, in riferimento alla sua decisione di aprire le frontiere ai profughi. Il riconoscimento è andato alla Merkel per, si legge, “la sua leadership nell’aver promosso e mantenuto un’Europa aperta e senza confini di fronte alla crisi economica e a quella dei profughi. Ecco il viaggio di Angela Merkel da figlia di un pastore luterano nella Germania dell’est a leader de facto di un continente”.
Il titolo viene assegnato annualmente a persone, gruppi o idee che “nel bene o nel male” hanno operato per influire sugli eventi dell’anno.
Nel 2014 il titolo era andato ai ‘combattenti dell’Ebola’, mentre nel 2013 era stata la volta di papa Francesco.
Nel 2012 la scelta era ricaduta su Barack Obama (che era già  stato persona dell’anno nel 2008) e nel 2011 era stato selezionato ‘il manifestante’, come simbolo delle Primavere arabe.

(da agenzie)

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