Destra di Popolo.net

RENZI SI IMPOSSESSA DI “IDENTITA’ E VALORI”: STRAPPO CULTURALE O INVASIONE DI CAMPO PER CATTURARE VOTI A DESTRA?

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

NELLA CONFERENZA DI FINE ANNO IL PREMIER GIOCA LA CARTA DELLA SCALTREZZA PER METTERE ALL’ANGOLO LA DESTRA CHE GIOCA SULLA PAURA

“Valori e identità  contro il nichilismo imperante”, dice Matteo Renzi, ed è lì, nel passaggio della conferenza di fine anno dedicato all’emergenza terrorismo, che si compie lo strappo culturale più interessante della giornata.
Perchè mai, da sinistra e soprattutto dal Pd, si era sentito un ragionamento imperniato sulle parole “valori” e “identità ”, pane quotidiano della destra.
E mai la categoria nicciana del nichilismo era stata usata con tanta disinvoltura ai tavoli degli eredi del Pci.
La domanda a cui Renzi ha risposto riguardava l’atteggiamento dell’Italia riguardo alla crisi nord-africana e mediorientale. Il premier poteva cavarsela con una risposta di routine ed ha voluto invece sottolineare la necessità , anche “come segretario pro tempore del partito più grande della sinistra europea”, di rettificare l’antica linea del progressismo e abbandonare la tradizionale analisi sociologica che lega il terrorismo all’emarginazione e l’emarginazione a dati di tipo economico. Si deve cambiare, ha detto. Approdare a un’interpretazione di tipo culturale.
“Per anni abbiamo sostenuto che l’identità  era una parolaccia” e l’abbiamo giudicata come “il contrario dell’integrazione” — ha spiegato Renzi — mentre è vero l’esatto contrario, “l’identità  è la condizione dell’integrazione”.
Sono parole che pesano perchè conducono a lidi molto distanti dalla tradizione del Pd.
In Italia come in Francia, in Gran Bretagna e in gran parte d’Europa, il linguaggio dell’identità  è quello delle destre vecchie e nuove, ideologicamente agli antipodi dell’internazionalismo e dell’universalismo, patrimonio della tradizione socialista.
Ora sorprende che ne adotti il linguaggio di riferimento in una circostanza così importante, e che lo faccia (come ha specificato) da “segretario del Pd” più che da presidente del Consiglio. «Identità  è una parola pericolosissima», avverte Sofia Ventura, docente di Scienze Politiche a Bologna, «perchè è in qualche modo ambigua. Qual è l’identità  italiana a cui ci si riferisce? Un’identità  dinamica fondata sui diritti universali? O un recinto simile a quello che immaginano le destre reazionarie?».
Per Alessandro Campi, politologo, un altro che le dinamiche delle destre le conosce bene, non è ancora chiaro se Renzi “stia furbescamente appropriandosi di temi funzionali al progetto di Partito della Nazione”, oppure stia operando “un progetto di revisione profonda della tradizione culturale della sinistra”.
Ma alla fine l’una cosa potrebbe determinare l’altra, perchè non è raro nella storia che un’idea scaltra partorita per vedere l’effetto che fa abbia successo, produca consenso, e diventi strategia di lungo periodo.
Certo è che Renzi sembra aver annusato la tendenza e fatto tesoro dei risultati delle ultime tornate elettorali europee, con la loro richiesta emotiva di certezze fondata proprio su quella vecchia parolaccia, “identità “.
Se riuscirà  ad appropriarsi pure quella, oltre all’immaginabile sconcerto di una parte dei suoi, c’è da mettere nel conto pure qualche guaio per la destra italiana.
Già  scavalcata sul terreno delle riforme del lavoro, dei rapporti con la piccola impresa, della rappresentanza del mondo economico, dell’abolizione della tassa sulla casa, si era ritirata nella nicchia dei “valori italiani” immaginando che almeno lì non avrebbe avuto nè concorrenti nè fastidi.
Da quell’ultima trincea aveva lanciato la sua strategia della paura – emergenza sbarchi, emergenza invasione, emergenza burqa, emergenza crocifissi, emergenza canti natalizi a scuola — e ricostruito percentuali di consenso accettabili.
Ora corre il rischio di ritrovarsi il nemico in casa pure lì, e potrebbe essere un bel guaio.

Flavia Perina
(da “Huffingtonpost”)

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BLOCCHI E TARGHE ALTERNE NON FUNZIONANO: PM10 SALGONO A ROMA E MILANO

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

FALLIMENTO DELLE MISURE PRESE PER CONTENERE L’IMPATTO AMBIENTALE DELLE POLVERI SOTTILI

Flop del blocco delle auto e delle targhe alterne, a Roma e Milano è stato comunque superato il limite delle poleveri sottili.
Secondo i dati forniti dall’Arpa Lazio a fronte di un limite di legge per le pm10 di 50 ug/m3, si sono registrati valori nettamente superiori.
Oggi secondo giorno di blocco a Milano e a Roma ferme le targhe pari ma nella capitale ben 11 centraline di rilevamento su 13 hanno registrato il superamento del livello consentito di polveri sottili: Preneste (67 microgrammi per metro cubo), Francia (58), Magna Grecia (56), Cinecittà  (92), Villa ada (53), Cavaliere (66), Fermi (51), Bufalotta (59), Cipro (57), Tiburtina (76) e Arenula (58).
Nella centralina di Milano Pascal il livello è salito da 57 microgrammi al metro cubo a 67, a Senato il livello è passato da 63 a 66 mentre è rimasto stabile a 60 a Verziere.
L’assenza di pioggia peggiora la situazione e secondo gli esperti potrebbe non arrivare prima degli inizi di gennaio.
Le misure di contenimento prese fino ad ora erano a discrezione delle singole amministrazioni. Ora il governo e l’Anci stanno studiando interventi   coordinati e di maggiore efficacia.
Previsto per mercoledì l’incontro del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti con presidenti di Regioni, sindaci di grandi città  e capo della Protezione civile.
Necessario un piano nazionale contro lo smog di medio e lungo termine, visto che   i cambiamenti climatici provocheranno stagioni sempre più calde e con meno piogge.
Nell’ Annuario statistico italiano 2015 l’Istat informa che l’automobile è il mezzo di trasporto privato più utilizzato per recarsi al lavoro e a scuola.
Nel 2015 la usano quasi sette occupati su dieci (68,9%) come conducenti, e poco più di un terzo (39,2%) degli studenti come passeggeri.
Diminuisce invece l’utilizzo della bicicletta, usata per gli spostamenti dal 2,4% degli studenti (3% nel 2014) e dal 3,5% degli occupati (4,3% un anno fa).
Significativi anche i dati relativi all’utilizzo del trasporto pubblico: nel 2015, infatti, usa i mezzi pubblici urbani meno di una persona over14 su quattro (24%), il 16,2% si sposta con i mezzi extra-urbani mentre il 31,3% ha preso il treno almeno una volta.
La percentuale di utenti dei mezzi urbani che si dichiarano soddisfatti, inoltre, è generalmente più bassa di quella degli utenti del trasporto ferroviario o di pullman e corriere.
Questa tendenza si conferma anche nel 2015: scende infatti la soddisfazione per la frequenza delle corse (da 56,6 del 2014 a 55,9%) e la puntualità  dei mezzi urbani (da 54,7 a 54,3%) mentre aumenta per la puntualità  di pullman e corriere (da 66,0 a 68,1%).
Nel frattempo non si spengono le polemiche dei giorni scorsi in materia di smog nel mondo politico e i Verdi invocano ora un decreto nazionale “per uniformare le decisioni dei sindaci in caso di superamento della soglia di 50 microgrammi di polveri sottili per metro cubo”.

(da agenzie)

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LIVORNO: PRESIDENTE CASE POPOLARI SI TRIPLICA STIPENDIO DOPO UN MESE

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

E’ STATA SCELTA DAI CINQUESTELLE E IL BANDO PARLAVA DI 12.000 EURO… IMBARAZZO DI NOGARIN

Un mese fa il caso rifiuti (tutt’altro che risolto), ora la questione case popolari.
Al centro ancora il sindaco Filippo Nogarin (M5s) che a Livorno si ritrova a gestire un’altra piccola “crisi”.
Oggetto della questione, in particolare, lo stipendio della presidente della Casalp, la società  pubblica che gestisce il patrimonio degli alloggi popolari che al 74 per cento è partecipata dal Comune di Livorno.
L’architetto Vanessa Soriani, infatti, guadagna 36mila euro annui lordi più eventuali 7mila come premio di risultato. Niente di strano, il predecessore (nominato dalla giunta Pd) ne guadagnava in tutto 43mila.
Il punto è che il bando presentato per far partecipare al concorso di chi ambiva a diventare presidente di Casalp parlava di uno stipendio da 12mila e l’aumento a 36mila è avvenuto un mese dopo la sua nomina, ufficializzata nel febbraio scorso.
Per giunta il taglio del 20 per cento alle retribuzioni degli amministratori delle società  controllate era stato uno dei punti fermi del programma del Movimento 5 Stelle.
L’aumento di stipendio della Soriani è stato deliberato dal cda dopo il via libera unanime arrivato dall’assemblea dei soci, ossia i rappresentanti dei 20 Comuni della provincia livornese.
Ma la delibera — che è del 17 marzo — è venuta alla luce solo dopo che è stata pubblicata dal Tirreno nei giorni scorsi. Decisione presa anche in virtù del fatto che in quel momento la figura del direttore generale risultava vacante.
Il cda — si legge nella delibera dello scorso 17 marzo — decide di attribuire alla presidente “poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione” in relazione alla “gestione tecnico-amministrativa del patrimonio Erp” e alla “realizzazione di nuovi alloggi Erp”.
“Stipendio congruo e meritato” dichiara Soriani, precisando che Nogarin era a conoscenza dell’aumento: “L’analisi dei costi è stata sempre sottoposta al sindaco”.
Sulle prime il Movimento 5 Stelle, sindaco compreso, ha replicato dicendo che l’amministratore precedente guadagnava 120mila euro all’anno, cifra che però non risulta nei documenti a disposizione.
Poi il primo cittadino ha precisato che “in ogni caso vi è una riduzione dei costi rispetto al passato. La riduzione dei costi del cda dalla gestione Taddia è del 23,7% attualmente e sarà  del 36% a regime”.
Nogarin sostiene che adesso per presidente, cda e direttore generale si spendono 128mila euro mentre in epoca Pd intorno ai 200mila, per un risparmio di 72mila euro. Il sindaco precisa anche che la decisione sul compenso è stata presa all’unanimità  dai soci di Casalp: “Non sono stato io a compiere questo aumento”.
E così tra Pd e M5S si è rinnovato il duello, questa volta sul campo della trasparenza. Il sindaco sapeva o no dell’aumento? E perchè non se n’è saputo nulla per 9 mesi?
Da una parte la maggior parte dei Comuni livornesi (a guida centrosinistra) sostiene di aver dato sì il via libera all’aumento dello stipendio ma di non esser poi stata successivamente informata della cifra decisa dal consiglio d’amministrazione.
Tesi contrastata dall’assessore al Sociale del Comune di Livorno Ina Dhimgjini secondo la quale i sindaci “lo sapevano già  prima che il cda deliberasse e comunque la delibera è pubblica”.
Quanto alla trasparenza la presidente Soriani ha spiegato che la delibera non era visibile per un problema tecnico del sito internet.
Ma un nuovo cambio di scenario è avvenuto nelle ultime ore, perchè l’assemblea dei soci ha chiesto agli organi amministrativi di ritoccare di nuovo l’entità  del compenso della presidente Soriani — questa volta al ribasso — perchè lo scorso settembre è stato nominato il nuovo direttore generale Paolo Vicini (85mila euro lordi annui la retribuzione massima prevista): il fatto che questo ruolo fosse vacante era stato alla base della decisione del cda di ridefinire le deleghe e aumentare lo stipendio della presidente.

David Evangelisti
(da “il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA AL GIURISTA DEZZANI: “FORZATURA IMPEDIRE AI TRUFFATI LA RIVALSA SU GOOD BANK”

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

“TROPPA FRETTA NEL LIQUIDARE I CREDITI DETERIORATI, COSI’ IL GOVERNO HA SOTTRATTO AI RISPARMIATORI IL FATTORE TEMPO”

“Non credo che possa essere impedito a obbligazionisti raggirati di rivalersi anche   nei confronti delle good bank nate dalle ristrutturazione delle 4 banche”.
E’ quanto sostiene Luca Dezzani, avvocato dello studio Grimaldi che in passato si è occupato dei crack della banca olandese SNS e di alcuni istituti irlandesi,   secondo cui lo stop alle rivalse nei confronti delle nuove banche rappresenterebbe una forzatura del diritto con elementi di incostituzionalità .
L’inattaccabilità  è stata prospettata il 24 dicembre scorso dal presidente delle nuove banche Roberto Nicastro.
L’orientamento del governo sembra però più morbido ammettendo la possibilità  per i risparmiatori truffati di agire in giudizio   e senza che il ricorso al fondo di solidarietà  pregiudichi questa possibilità .
Avvocato Dezzani, quali sono le condizioni perchè un risparmiatori possa tentare di rivalersi anche nei confronti delle banche “sane” nate dallo scorporo?
Nel caso ci siano state vendite allo sportello truffaldine in cui è stata nascosto o sminuito il livello del rischio delle obbligazioni ci sono tutte le premesse per rivolgersi al giudice e pretendere i risarcimenti anche dalle quattro “good banks”.   Non vedo in base a quale principio o regola possa essere negata questa possibilità . Così come hanno incorporato gli sportelli,   le nuove banche hanno automaticamente assorbito anche le responsabilità  delle azioni che qui sono state attuate.
La possibilità  di rivalersi vale anche per gli azionisti?
Direi di no, la posizione degli azionisti è molto più debole e temo che ormai ci sia poco da fare, salvo rivalersi contro amministratori, sindaci e revisori, che fossero ritenuti responsabili del dissesto o che abbiano omesso di vigilare.
I   proventi della vendita della cessione delle nuove banche devono però essere destinati a ripagare le altre banche che hanno versato i soldi per la ricapitalizzazione e la copertura delle perdite…
Sono due cose diverse che non si sovrappongono. La priorità  della destinazione delle risorse non può certo essere contrapposto a quanto deciso con una sentenza.
Che strategia consiglierebbe a un obbligazionista che si è visto azzerare il valore dei suoi titoli?
Di percorrere tutte le strade. Come primo passo di tentare di ottenere i rimborsi previsti dal Fondo di solidarietà  che vengono decisi attraverso un arbitrato. Se questa opzione non va a buon fine di intraprendere un’azione legale sia nei confronti delle “bad” che delle “good” bank o, eventualmente,   anche di altri soggetti come sindaci e revisori.   A decidere se e su chi è giusto rivalersi sarà  poi il giudice indipendentemente da quello che possono dire il governo o i vertici delle nuove banche.
Come mai secondo Lei tutta l’operazione è stata in modo così veloce?
La rapidità  è una buona cosa nel momento in cui si effettua lo scorporo e si da vita a due nuovi soggetti. Quello che davvero non capisco è invece tutta questa fretta nel liquidare i crediti deteriorati. In questo modo il governo ha sottratto ai risparmiatori il fattore tempo che avrebbe probabilmente consentito di vendere i   ‘non performing loans’ a condizioni più favorevoli con la possibilità  di recuperare qualcosa anche per gli obbligazionisti.
Anche perchè la svalutazione del valore dei crediti da 100 al 17% del loro valore nominale è stata drastica…
Assolutamente si. Si è trattato di un taglio sproporzionato dettato più che altro dalla volontà  di rendere questi crediti immediatamente rivendibili. In questo modo però tutti i vantaggi vanno ai soggetti specializzati nella gestione di non performing loans che li possono acquistare a prezzi davvero da saldo e poi rivendere con valutazioni più convenienti che potrebbero arrivare al 40% o oltre.   I risparmiatori invece rimangono con il cerino in mano. Voglio anche ricordare che nei report che queste banche periodicamente inviavano alle varie autorità  di controllo veniva sempre indicato un patrimonio positivo seppur di poco. Significa che almeno in teoria le attività  erano sufficienti per coprire le passività , compresi i debiti verso gli obbligazionisti. E’ stato solo dopo la drastica sforbiciata sul valore dei crediti deteriorati che le banche sono finite, come si usa dire, sott’acqua.

Mauro Del Corno
(da “il Fatto Quotidiano”)

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BANCHE, PROFILI MODIFICATI E RENDIMENTI ABBASSATI: TUTTI I TRUCCHI PER RIFILARE PRODOTTI RISCHIOSI AI CLIENTI A LORO INSAPUTA

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

BANCA ETRURIA OFFRIVA OBBLIGAZIONI AL 3,5%… FALSATI I RISULTATI DEL QUESTIONARIO MIFID

“Non è vero che la nuova banca non risponde per quanto accaduto nel vecchio istituto di credito, perchè c’è continuità  nei rapporti fra il passato e il futuro”.
Lucio Golino, avvocato specializzato nei temi della tutela del risparmio e vicepresidente dell’Adusbef, smonta così la tesi secondo cui le “good bank” subentrate a Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti non possano essere oggetto delle pretese dei precedenti soci e obbligazionisti subordinati, come vorrebbe il presidente Roberto Nicastro.
“Se nella nuova realtà  si trasferiscono i rapporti attivi come conti correnti o i contratti di deposito titoli, allora succedono anche gli obblighi contrattuali e quindi anche gli inadempimenti”, precisa l’avvocato dell’associazione dei consumatori, in prima linea nella battaglia a difesa dei risparmiatori truffati.
Con queste premesse, si annuncia un duro braccio di ferro per i sottoscrittori di prodotti subordinati che, in conseguenza della linea intrapresa dall’esecutivo e da Nicastro, dovrebbero contare solo sul fondo ad hoc che ha una dotazione di appena cento milioni. Intanto più passa il tempo dal decreto Salva-banche, più si allunga la lista degli espedienti messi in atto dagli istituti di credito per truffare migliaia di risparmiatori.
Complice anche la fiducia dei clienti nelle banche e nei loro impiegati, soprattutto nelle realtà  di provincia dove il legame con il territorio è più intenso e fa abbassare la guardia al compratore.
Per i piccoli risparmiatori danno e beffa: rendimento più basso per “camuffare” il rischio. Qualche esempio concreto? Da uno studio di Bankitalia sulle 29 emissioni di bond subordinati delle quattro banche salvate per decreto emerge che i titoli piazzati tra i piccoli risparmiatori erano stati studiati ad hoc per non dare nell’occhio.
Banca Etruria, per esempio, offriva obbligazioni subordinate a tasso fisso per 5 anni con un rendimento contenuto: il 3,5 per cento. Che indirettamente indicava una bassa rischiosità  del titolo, visto che il rendimento è appunto il “premio al rischio” che l’investitore si assume.
A uno sguardo superficiale, dunque, quei prodotti apparivano sicuri, al punto di essere paragonabili a Btp di pari durata.
Ma in realtà  con i buoni del Tesoro non avevano nulla in comune.
Come se non bastasse, poi, la banca usava due pesi e due misure nella vendita dello stesso strumento: agli investitori istituzionali, consapevoli dei rischi, l’istituto offriva rendimenti più elevati.
Ai piccoli risparmiatori, invece, andavano ritorni più bassi probabilmente proprio per non destare sospetti e dubbi. E Banca Etruria non era affatto un’eccezione.
Lo conferma il fatto che a giugno 2013 anche Banca Marche ha emesso titoli subordinati con un rendimento a 10 anni del 12,5%, contro il 4,52% del Btp di pari durata, finiti tutti nei portafogli degli istituzionali, mentre solo sei mesi prima era stato collocato al pubblico retail, cioè le famiglie, un subordinato analogo ma con un rendimento del 6 per cento. Molto più basso di titoli analoghi di altri istituti più solidi.
I profili modificati da Banca Etruria all’insaputa di un centinaio di clienti
Ma le magagne per mantenere in piedi gruppi decotti a causa di prestiti allegri e mala gestione non si fermano certo a questo. Dall’indagine sul suicidio del pensionato Luigi D’Angelo in corso ad Arezzo stanno emergendo ogni giorno nuovi tasselli: la Popolare dell’Etruria, ad esempio, avrebbe anche modificato i “profili” di un centinaio di risparmiatori di Civitavecchia redatti ai sensi della direttiva europea Mifid per renderli compatibili con investimenti ad alto rischio. In questo modo i clienti, che non hanno dato alcuna autorizzazione alla modifica e non hanno mai dichiarato di essere pronti a rischiare i loro soldi in vista di un potenziale guadagno, risultano responsabili della scelta azzardata.
Come sia stato possibile lo suggerisce il racconto fatto al Corriere della Sera dal figlio di una cliente della provincia di Arezzo: la madre, casalinga novantenne, è stata chiamata al telefono da un impiegato della banca che le ha proposto di acquistare 75mila di obbligazioni subordinate.
E, visto che la signora era malata, i “fogli” sono stati firmati dall’altro figlio, disabile al 100% e come lei non in grado di capire che il capitale avrebbe potuto evaporare, come poi è accaduto.
Anche un’altra risparmiatrice, stavolta di Chiusi, ha riferito di aver ricevuto una telefonata dal direttore della filiale che le consigliava di “mettere in obbligazioni” i 26mila euro ricavati dalla vendita della “casetta del babbo”. Con la rassicurazione che “in ogni momento avrebbe potuto prenderli”. Fino a quando “mi ha chiamato e ha detto: quei titoli sono azzerati“.
Consob ha consentito la vendita ai “piccoli” di bond adatti agli istituzionali
Per il ministro Pier Carlo Padoan siamo di fronte a chiari casi di “asimmetria informativa”: la banca cioè sa bene che cosa vende ed è in conflitto d’interesse quando piazza le sue obbligazioni al parco buoi, mentre il risparmiatore acquista senza conoscere i limiti del prodotto. “Le autorità  devono aiutare (…) gli investitori retail, cioè i cittadini normali, a riequilibrare un po’ il terreno di gioco accrescendo la propria conoscenza finanziaria”, ha aggiunto il ministro. I fatti però dimostrano che le autorità  di vigilanza agiscono tardi e male.
Con il risultato che la corretta informazione resta una chimera.
Tornando a Banca Etruria, per esempio, nel 2013 l’istituto ha confezionato e piazzato obbligazioni subordinate per 110 milioni di euro con l’approvazione di Palazzo Koch, che però nella lettera in cui dava il via libera all’emissione specificava che “erano titoli adatti agli investitori istituzionali”.
Le cose sono andate diversamente anche grazie alla Consob: l’autorità  guidata da Giuseppe Vegas ha autorizzato il prospetto sulla base del quale la banca ha poi venduto i titoli ai piccoli risparmiatori.
Magari al posto di bond senior (più sicuri) che nel frattempo stavano andando in scadenza, come testimonia una email scritta il 4 giugno 2013 dal responsabile Private del gruppo e pubblicata dal Sole 24 Ore: “Vi ricordo che per il collocamento di questa obbligazione (…) avete a disposizione tutte le scadenze di obbligazioni/time depo di questi giorni, tutti i titoli in plusvalenza, tutti i titoli obbligazionari della banca (specialmente se a bassa cedola e scadenza breve) presenti nei portafogli dei clienti che reputiate opportuno vendere anticipatamente per sostituirli con la subordinata”, vi si legge.
Per questi motivi la procura di Arezzo ha aperto un’indagine per truffa sull’intera filiera di emissione di obbligazioni subordinate acquisendo il prospetto depositato in Consob il 22 aprile 2013 e approvato dall’autorità  di vigilanza.
Così come il primo supplemento, diffuso a giugno: i piccoli risparmiatori che avessero letto dall’inizio alla fine quelle 35 pagine avrebbero appreso, tra l’altro, che ben il 29% dei crediti erogati dalla banca (ben più della media italiana) risultava “deteriorato”, cioè difficile o impossibile da riscuotere.
La mission impossible del risparmiatore: 48 ore per vendere i titoli a rischio. Sotto Natale
Purtroppo per i piccoli risparmiatori, non è stato l’unico caso in cui le autorità  non hanno vigilato e migliorato la comunicazione ai cittadini come nell’auspicio del ministro Padoan.
Alla fine dello stesso anno è arrivato un altro “pacco di Natale” per i piccoli investitori. Venerdì 20 dicembre 2013 la Consob ha infatti pubblicato sul proprio il sito il supplemento al prospetto informativo dei bond emessi in primavera e venduti a risparmiatori inconsapevoli del rischio.
La pubblicazione di un supplemento, in base alla normativa Ue, fa sì che chi ha in portafoglio quegli strumenti abbia almeno due giorni di tempo per la “revoca integrale“, cioè per venderli. I due giorni sono il minimo di legge, che l’autorità  di vigilanza può estendere se necessario.
In quell’occasione la commissione presieduta da Vegas non l’ha fatto: i clienti della banca, ammesso che avessero letto il supplemento, hanno avuto quindi a disposizione per esercitare il loro diritto di revoca solo due giorni a cavallo delle festività . In pratica un’operazione impossibile. Per di più l’istituto ha continuato a suggerire alla clientela di mantenere i titoli in portafoglio in attesa di tempi migliori.
La lettera di Bankitalia nascosta ai risparmiatori
Occorre aggiungere che solo poche settimane prima, il 3 dicembre 2013, Bankitalia aveva scritto al consiglio di amministrazione dell’Etruria una lettera in cui evidenziava il “progressivo degrado della situazione aziendale” e sentenziava che la banca era “ormai condizionata in modo irreversibile da vincoli economici, finanziari e patrimoniali che ne hanno di fatto ‘ingessato’ l’operatività ”, tanto da renderla “non più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento”.
Un’informazione certo non secondaria per chi aveva comprato titoli passibili di trasformarsi in carta straccia in caso di crac dell’istituto.
Il comunicato diffuso il 13 dicembre dai vertici dell’istituto, però, non vi faceva cenno, limitandosi a riportare che via Nazionale aveva chiesto “ulteriori rettifiche su crediti”, che “non assumono un’entità  tale da pregiudicare il mantenimento dei requisiti prudenziali”. Quanto alla Consob, sostiene di non essere stata messa a conoscenza dei risultati dell’ispezione di Palazzo Koch, anche se l’ex ispettore di Bankitalia Giuseppe Scattone, nella consulenza tecnica per la procura di Arezzo, scrive che l’ente presieduto da Ignazio Visco il 6 dicembre 2013 ha informato per lettera la vigilanza dei mercati “delle iniziative assunte dopo gli accertamenti ispettivi”.
Davanti a questo quadro fa specie che, sul tema delle quattro banche salvate, il ministro Padoan parli di problemi “culturali” dei piccoli investitori e di una “scarsa educazione finanziaria, su cui l’Italia come paese deve lavorare”. Un tema caldo in un periodo in cui anche le Poste, i cui utenti tradizionalmente hanno una bassa cultura finanziaria, stanno vendendo prodotti finanziari sempre più complessi.
In attesa della nuova direttiva Ue c’è il nodo delle commissioni
Intanto, al momento, ai risparmiatori italiani non resta che confidare nell’Unione europea, che già  da tempo ha approvato la Mifid 2. Cioè una nuova direttiva a tutela del risparmio, che dovrebbe impedire il ripetersi di casi simili.
Il testo è stato licenziato da Strasburgo nell’aprile 2014 e prevede limiti alla vendita di obbligazioni rischiose, oltre a garantire una maggiore trasparenza per i clienti e regole severe sui margini che le banche ottengono su ciascuna vendita.
Le nuove regole sarebbero dovute entrare in vigore nel 2017, ma la lobby bancaria è riuscita a farle slittare di un anno per poter continuare a fare profitti sulla pelle dei piccoli risparmiatori e in barba al conflitto d’interessi.
Non a caso la norma più discussa riguarda i vincoli ai margini su prodotti complessi (dai fondi alle obbligazioni) dalla cui vendita gli istituto di credito intascano una commissione.
Su queste vendite, come nel caso dei quattro istituti italiani, le banche sono protagoniste di conflitto d’interesse latente che si manifesta apertamente solo quando le cose precipitano. Ecco perchè in alcuni Paesi, dove la cultura finanziaria è ben più evoluta rispetto all’Italia, queste commissioni, dette “diritto di retrocessione”, sono vietate. In Italia, invece, questa pratica è consentita e ampiamente diffusa.
Se davvero il governo vuole far crescere l’educazione finanziaria del Paese, quale migliore occasione di introdurre il divieto su queste commissioni allineandosi a quanto viene già  fatto in paesi come la Gran Bretagna, l’Olanda e l’Australia.
Basta poco per dare un segnale importante ai piccoli risparmiatori italiani. Sempre che la lobby bancaria del Paese non si opponga.

Fiorina Capozzi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LA DESTRA NON TROVA DI MEGLIO CHE LITIGARE ANCHE SUI MARO’

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

ALEMANNO CONTRO LA MELONI: “IO CI METTO LA FACCIA, NON LE STATUINE DEL PRESEPE”…MA QUALCUNO OGNI TANTO NON POTREBBE ORGANIZZARE AIUTI PER GLI INDIGENTI E GLI SFRATTATI, MANIFESTARE CONTRO GLI EVASORI FISCALI O PER LA TUTELA L’AMBIENTE?… MAGARI DEVOLVENDO IL 30% DEL LORO STIPENDIO DI PARLAMENTARI E SENZA ATTINGERE DAI SOLDI DELLA FONDAZIONE AN?

La destra litiga anche sui maro’. L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ha organizzato il flash mob di Azione Nazionale davanti all’ambasciata indiana a Roma per chiedere il rilascio dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre.
Poco meno di un centinaio di persone, militanti del movimento nato qualche settimana fa dalle sigle della destra diffusa, si è recato in via XX Settembre con un grande striscione con la scritta “Marò subito liberi”.
E sei di loro, per protesta, si sono incatenati fuori la sede diplomatica di Nuova Delhi.
Su twitter Alemanno lancia una frecciata al leader di Fratelli d’Italia: “Per #marosubitoliberi c’è chi mette due statuine nel presepe e chi invece ci mette la faccia #AzioneNazionale”.
Il riferimento è a Giorgia Meloni che nella serata di martedì scorso ha voluto presentare “il presepe partecipato” davanti la sede del partito, con tanto di centurioni in carne ed ossa.
Nel presepe della sede di Fratelli d’Italia la Meloni ha anche aggiunto due statuine dei due fucilieri di Marina.
Ma l’iniziativa del leader di Fratelli d’Italia non deve essere piaciuta ad Alemanno che ha colto l’occasione per sottolineare la poca incisività  della collega.
“Tre anni di vergogna, il governo Renzi li ha cancellati dall’agenda del governo”, hanno gridato i manifestanti all’esterno dell’ambasciata indiana, intonando anche l’inno di Mameli.
Tra i presenti l’ex An Roberto Menia, l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno e il portavoce di Azione Nazionale Fausto Orsomarso, che avverte: “ritorneremo in centinaia, migliaia, finchè i due marò non saranno liberati. La diplomazia indiana non è gradita finchè non torneranno in Italia”.
“Da oggi ricomincia una lotta senza quartiere per riaverli in Italia”, rilancia Alemanno laddove Marco Cerreto, membro del consiglio direttivo di Azione Nazionale, accusa: “abbiamo un governo italiano che ha dimenticato due servitori dello Stato e un governo indiano che gioca sulla loro vita”.
Lotta continua: tra presepi e maro’, i problemi dell’Italia sono quelli.

(da “Huffingtonpost“)

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PERCHE’ SU RENZI GLI INTELLETTUALI STANNO ZITTI?

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

IN PRIMA LINEA CONTRO IL BERLUSCONISMO, ORA TACCIONO IMBARAZZATI E LASCIANO LE CRITICHE AI “VECCHI”

“Parlo all’Italia riformista. Perchè stiamo perdonando a Matteo Renzi quello che non perdonavamo a Silvio Berlusconi? Che cosa ci sta portando a fermarci?». La voce di Roberto Saviano su repubblica.it risuonava su smartphone e tablet nel pomeriggio di venerdì 11 dicembre a Firenze nella grande ex stazione Leopolda che si preparava ad accogliere il popolo renziano per il raduno annuale.
Lo scrittore attaccava «una struttura politica che ha compiuto l’ennesimo atto autoritario», il «conflitto di interessi» del ministro Maria Elena Boschi, figlia dell’ex vice-presidente della Banca Etruria oggetto di un decreto del governo.
Un crescendo che, il giorno dopo, arrivava a definire la Leopolda «un’accolita che difende i malversatori».
Ma esaurita l’indignazione di giornata del cerchio magico del premier contro le parole dello scrittore, bisogna riprendere il j’accuse di Saviano che va ben al di là  della singola questione, chiama in causa il diritto di critica, «che non può essere considerato un impiccio», e il rapporto degli intellettuali con il nuovo principe venuto da Rignano.
Ma quanto si chiacchiera di politica nel mondo dello spettacolo
Nell’Italia di Matteo Renzi il ruolo di teste pensanti della sinistra sembra passato dai topi di biblioteca ad attori e teatranti
Scrittori, registi, sceneggiatori, opinionisti solitamente impegnati. In prima fila nella firma di appelli e manifesti.
Pronti a ingaggiare il corpo a corpo delle idee. Sul palco, in piazza, sui giornali.
Con parole e opere: romanzi, film, canzoni, articoli.
E ora, invece, stretti tra due accuse.
Quella di Renzi e dei suoi laudatori, secondo cui le voci di dissenso sarebbero in blocco «professoroni, gufi, professionisti della rassegnazione».
«Un giorno si parlerà  finalmente delle responsabilità  delle èlite culturali nella crisi italiana: professori, editorialisti, opinionisti non sono senza colpe», disse il premier a “Repubblica” dopo pochi mesi di governo, il 4 agosto 2014.
«Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche», ha replicato, senza nominarlo, a Saviano dal palco della Leopolda.
E c’è, sul versante opposto, la seconda accusa, non meno bruciante, quella avanzata dall’autore di “Gomorra”.
La timidezza verso il nuovo potere renziano nell’ambiente culturale «riformista».
Gli intellettuali di sinistra che furono in prima fila negli anni del berlusconismo. E che ora appaiono svogliati. Ritrosi a schierarsi. Ritirati nei propri quartieri. Taciturni. In silenzio. Forse imbarazzati, di certo confusi. Per loro stessa ammissione.
«Renzi è di sinistra? Diciamo che, come Margherita dice in “Mia madre”, anch’io sono confuso in questa fase e preferisco tacere, piuttosto che dire cose generiche o banali… Sono contento se il governo è di centrosinistra, facendo però davvero riforme di centrosinistra. Ma ripeto: in questo periodo sono confuso e preferisco non dire cose a caso».
Nanni Moretti ha interrotto di recente con un’intervista a “Oggi” e poi a “Le Monde” la sua distanza dalla politica.
Per testimoniare, però, che in questa fase è meglio restare zitti piuttosto che parlare per non dire nulla.
Eppure per decenni Moretti ha portato sul grande schermo la crisi del Pci e della sinistra, da “Palombella Rossa” a “Aprile”, gli psicodrammi di militanti, dirigenti, semplici elettori, con le lettere mai spedite ai leader di partito.
L’interpretazione del ministro socialista Botero in “Il portaborse” di Daniele Luchetti all’inizio degli anni ’90 anticipò Tangentopoli.
E poi “Il Caimano” (2006) su Berlusconi e il conformismo di stampa e televisioni.
E soprattutto la stagione dei girotondi, tra il 2002 e il 2003, quando il regista accettò di guidare un movimento e finì per assumere la leadership dell’anti-berlusconismo in un momento di debolezza politica dei partiti di centro-sinistra.
Ora è un altro momento. Di confusione. E perfino, per i cinquantenni-sessantenni coetanei di Moretti, di un sottile senso di colpa.
«A me Renzi sta antipatico, non mi sento contiguo alla Leopolda, ma mi sono supremamente rotto le scatole di quello che ha fatto la mia generazione in politica», ha detto la settimana scorsa Michele Serra in tv a “Otto e mezzo”.
In continuità  con quanto l’ex direttore di “Cuore” aveva scritto su “l’Espresso” (11 maggio 2015): «Non esisterebbe Renzi se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza. Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società  italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica c’è il sospetto inevitabile della conservazione. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua».
De te fabula narratur: non è colpa di Matteo, e forse neppure del tutto merito suo, se con facilità  impressionante ha conquistato il potere, scalato la sinistra, polverizzato i riferimenti culturali del passato, sgretolato il pantheon dei miti fondativi.
Colpa di chi l’ha preceduto, dei dirigenti antichi e inamovibili, dei padri nobili che in ogni cambiamento hanno avvertito, sospettosi, l’ombra della fuoriuscita dal patto costituzionale su cui si è costruita la Repubblica e sono cresciute le culture politiche dei partiti, più forti e resistenti delle ideologie.
Il grande silenzio, come si intitolava il libro-intervista sugli intellettuali di Alberto Asor Rosa con Simonetta Fiori (Laterza, 2010), sembra essere la reazione di una certa generazione e di una certa cultura: quella che ha combattuto da sinistra negli anni Ottanta la modernizzazione di Bettino Craxi, il rampantismo socialista e poi, naturalmente, il berlusconismo trionfante.
E che ora, dopo tante battaglie e molte sconfitte, non se la sente più di intrecciare un conflitto anche con il premier rottamatore. Anche perchè, come dice Serra, «Renzi non è come Berlusconi».
C’è chi questo passaggio l’ha fatto con agilità  e senza farsi troppi problemi: ad esempio Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti, con “Il desiderio di essere come tutti” (Einaudi, 2013), vincitore del premio Strega, uscito nei mesi in cui Renzi dava l’assalto al vertice del Pd e poi a Palazzo Chigi, aveva già  ben rappresentato la felicità  di un intellettuale di sinistra pronto a tuffarsi nella nuova epoca.
Sul versante opposto, quello della critica, si schierano intellettuali di altre generazioni e di altri filoni culturali, più azionisti che ex Pci.
Sono loro i «famigerati professoroni». Giuristi come Stefano Rodotà  o come Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, che denuncia nel suo ultimo libro “Moscacieca” (Laterza, 2015) «l’allergia per il pensiero non allineato» e si spinge a comporre l’elogio del pessimismo contro la «leggera, fatua, insulsa allegrezza che fluttua qua e là  senza alcun costante e maturo impegno per un’opera degna della parola politica».
Professori come Asor Rosa che attacca «la mutazione genetica» del Pd. E storici come Marco Revelli: erano in tanti il 3 dicembre a discutere nella sede romana della casa editrice Laterza il suo ultimo libro “Dentro e contro”, una delle più compiute requisitorie contro il sistema renziano.
Seminario ad alta tensione, con uno scontro senza ipocrisie tra l’autore e il giurista Sabino Cassese, ex giudice della Corte costituzionale, difensore delle riforme del governo Renzi.
Perchè in questi mondi l’atteggiamento da tenere nei confronti del premier spacca, divide. Renzi, nelle pagine di Revelli, è descritto come Callicle, piccolo filosofo ateniese del V secolo a.C., «archetipo di quel disprezzo per la conoscenza e per i sapienti che ritornerà  infinite volte nelle zone grigie della storia».
Un modello di potere post-democratico nell’Europa attraversata dai populisti: «L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridare di accelerare».
Tutti chi? Inutile cercare pensatori vecchio stile tra gli intervenuti all’ultima edizione della Leopolda.
Nelle precedenti kermesse aveva colpito e affascinato la platea lo scrittore Alessandro Baricco, con la sua narrazione popolata di spazi bianchi da riempire, pezzi sulla scacchiera da muovere per primi, navi da bruciare alle spalle.
Ma questa volta non si è fatto vedere, nè lui nè altri artigiani dell’immaginario. E non si trovano citazione di contemporanei nel discorso finale di Renzi, con l’eccezione di Paolo Sorrentino, fresco vincitore degli Efa di Berlino, l’Oscar europeo, il regista prediletto dal premier. Forse perchè almeno gli ultimi due titoli, “La Grande Bellezza” e “Youth – La giovinezza”, sono involontariamente, inconsciamente renziani. O forse perchè, semplicemente,
Sorrentino è un outsider che vince, come sempre si rappresenta l’ex ragazzo di Rignano.
Nell’ultima edizione è stato lanciato il think tank che avrà  il compito di formare la classe dirigente di domani.
A dirigere “Volta” sarà  Giuliano Da Empoli, presidente del Gabinetto Viesseux, già  assessore alla Cultura con Renzi sindaco, ritornato nell’orbita di Matteo dopo qualche dissidio.
Il suo “La prova del potere” (Mondadori, 2015) è il manifesto dei nati tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso, «vaso di coccio tra due generazioni di ferro, i nativi dell’ideologia e i nativi della tecnologia», i quarantenni che traggono da questa debolezza la loro forza: i Sorrentino, i Renzi e i Saviano, e già , c’è anche lui, l’irregolare scrittore diventato il nemico del popolo nel raduno dell’ex stazione fiorentina.
La generazione Renzi raccolta da Christian Rocca, direttore di “IL”, il mensile del “Sole 24-Ore” in “Non si può tornare indietro” (Marsilio, 2015), in cui si ritrovano toni forse perfino più renziani dell’originale che ha in odio qualsiasi ideologia, compresa eventualmente la sua.
C’è anche questo, la difficoltà  per gli intellettuali di professione di interloquire con un leader pragmatico, compiutamente post, impossibile da incasellare in una definizione. Che per di più si agita su un terreno di gioco, il confine della politica nazionale, con sempre minore significato.
In Francia gli intellettuali litigano e si dividono tra mondialisti e identitari.
In Italia il balcone è vuoto, come nell’ultima scena di “Habemus papam”. Forse per questo Moretti è confuso.
E anche gli altri non stanno tanto bene.

Marco Damilano
(da “L’Espresso”)

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CONFINDUSTRIA ACCUSA IL FISCO: “LE VERIFICHE FATTE SOLO SU DI NOI”

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

MA IL 98% RISULTA IRREGOLARE

Sessantatre provvedimenti di legge in materia fiscale in dieci anni, finalizzati a far pagare le tasse a tutti: con l’unico risultato che l’evasione è aumentata.
Il j’accuse di Confindustria contro l’“inefficienza” del sistema parte da qui, e mette nel mirino sia i legislatori, sia le autorità  fiscali, Agenzia delle Entrate in primo luogo: incapaci di fare il loro lavoro, ma avidi del sangue dei (grandi) contribuenti.
Miliardi evasi, ma si sentono tartassati
Nel dossier curato dal Centro studi di Viale dell’Astronomia, dal titolo “L’evasione blocca lo sviluppo. Le misure per debellarla”, sotto accusa c’e’, innanzi tutto, la gestione dei controlli fiscali da parte dell’Agenzia Entrate: “La selezione dei contribuenti da accertare — si legge — è finalizzata a fare cassa e non alla deterrenza”. Nel biennio 2013-2014, rivela il dossier, è stato sottoposto a controllo fiscale il 94% dei grandi contribuenti con oltre 100 milioni di volume d’affari, contro il 25% delle imprese medie e il 3% appena delle piccole.
Ma il vero problema è un altro: “Sui grandi contribuenti si registrano percentuali di irregolarità  superiori al 96% in entrambi gli anni”.
La prova che sono tutti evasori? Al contrario, per Confindustria è la prova regina che il sistema non funziona: “Il dato è anomalo — afferma il rapporto — se i controlli avessero un effetto deterrente, un contribuente irregolare nel 2013 non dovrebbe esserlo l’anno successivo, avendo la certezza di essere ricontrollato. Dai dati sembrerebbe invece che i grandi contribuenti siano incapaci di adempiere agli obblighi richiesti”.
In effetti, scorrendo l’elenco dei big che negli ultimi anni sono stati costretti dai controlli delle Entrate a riversare miliardi di tasse nelle casse dello Stato, si evince che quasi tutti sono incappati in accuse di evasione, elusione, abuso di diritto, derivate da accertamenti.
Invece, accusa il dossier, il fisco è molto più distratto su imprese minori e professionisti, che “rischiano un controllo rispettivamente ogni 33 e 50 anni”. In sintesi: “oltre 6 milioni di contribuenti non saranno controllati mai nell’arco temporale della loro attività ”.
Una bella fortuna, certo.
Ma poichè “la propensione all’evasione varia in funzione della probabilità  di controllo e sanzione” (ma come? non erano inutili i controlli?) proprio qui si cela, secondo Confindustria, la vera evasione: “Nelle piccole imprese, caratterizzate da una più elevata numerosità  che diminuisce la probabilità  di finire nelle maglie dei controlli”.
Altro punto dolente, sul quale il dossier chiede di intervenire, è il sistema di incentivi agli ispettori del fisco: “Sono necessarie norme che favoriscano la trasparenza sulla definizione degli obiettivi e incentivi del personale dell’Agenzia delle Entrate”, in quanto “possono condizionare l’operato del personale” e infatti spesso “hanno dato adito a dubbi sospetti “.
Ma l’Agenzia guidata da Rossella Orlandi è nel mirino anche per un eccesso di autonomia nell’applicazione delle norme: “Motivo di forte criticità  è nella compresenza, in seno all’amministrazione deputata al controllo dei contribuenti, anche della funzione interpretativa”.
Poichè “la politica tributaria è competenza del Mef”, per Confindustria “è opportuno affidare a questi il compito di fornire la cornice interpretativa della normativa”.
La proposta è che “ogni norma fiscale sia accompagnata da una circolare quadro del ministero” che ne fissi l’interpretazione. L’Agenzia dovrà  adeguarsi.
Quanto alla politica, Confindustria accusa un’inefficienza bipartisan: la “produzione normativa è bulimica e compulsiva”, manca “una strategia chiara e lineare”’, e le retromarce del legislatore sono state “frequenti”: “Prima convinto di introdurre una norma, poi restio nell’attuarle o infine persuaso ad abrogarle, perchè inefficaci o poco opportune”.
L’unità  specializzata per Paperoni
Insomma: “Bisogna cambiare radicalmente approccio nell’analisi e nel contrasto dell’evasione, prendendo atto che quanto realizzato fin qui si è dimostrato largamente insufficiente”.
La proposta di Viale dell’Astronomia è di porre fine ai “controlli ex post”, per passare alla “collaborazione preventiva” tra fisco e contribuente. In tre mosse.
La prima: assegnare a ciascun grande contribuente un unico funzionario come riferimento fisso nel “dialogo” con l’amministrazione, in modo da poter contare su un soggetto “comprensivo” che ne capisca le esigenze: “È importante che l’amministrazione compia maggiori sforzi per conoscere meglio le necessità  e il funzionamento delle imprese, che rappresentano la categorie di contribuenti con più spiccate peculiarità ”. La seconda: istituire nuclei specializzati per il transfer pricing, altro tasto dolente su cui sono nate infinite querelle tra fisco e imprese.
Infine, per Confindustria andrebbe colmata una terza incredibile lacuna, e cioè la mancanza di un’ “unità  specializzata” del fisco per i super ricchi, tecnicamente High Net Worth Individual, “persone fisiche ad alta capacità  contributiva”.
Lacuna davvero inspiegabile, poichè il nostro paese in materia di patrimoni non ha nulla da invidiare al resto del mondo: l’Italia — sottolinea il dossier — è infatti “decima nella classifica mondiale della popolazione Hnwi, con circa 220 mila super-ricchi a titolo personale, con reddito annuo superiore a un milione di euro, aumentati l’anno scorso del 12,6% rispetto al 2013”.
E vuoi che non ci sia un fisco su misura anche per loro?

Nunzia Penelope
(da “il Fatto Quotidiano”)

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PENSIONI, DAL 2016 LE DONNE DOVRANNO LAVORARE 22 MESI IN PIU’

Dicembre 29th, 2015 Riccardo Fucile

SCATTANO GLI SCAGLIONI CHE PENALIZZERANNO LE NATE NEL 1953

Ventidue mesi di lavoro in più per le donne impiegate nel settore privato, per agguantare la sospirata pensione di vecchiaia.
Quattro mesi in più per tutti, come adeguamento alla speranza di vita: si vive più a lungo e allora bisogna anche lavorare più a lungo.
E poi, arriva la revisione dei coefficienti necessari per determinare la quota contributiva della pensione: quello che si apre fra pochi giorni è un anno di novità  non esattamente piacevoli per quanto riguarda il ritiro dal lavoro.
Per tradurre in esempi la fredda contabilità  delle leggi, lo scalino in più che, in base alla legge Fornero, scatterà  dal 2016 per le donne lavoratrici del privato, fa sì che potranno lasciare il lavoro per vecchiaia a 65 anni e sette mesi (63 anni e nove mesi sono stati sufficienti nel 2015); per le autonome non prima di 66 anni e un mese, mentre sono già  equiparate agli uomini le dipendenti pubbliche.
Cioè all’età  di 66 anni e sette mesi: gli uomini potranno altrimenti andare in pensione anticipata se hanno versato 42 anni e dieci mesi di contributi; 41 anni e dieci mesi le donne.
Chi sarà  particolarmente penalizzato dal meccanismo messo in piedi dalla legge sono le signore nate nel 1953: nel 2018, quando avranno raggiunto il traguardo dei 65 anni e sette mesi, sarà  scattato un nuovo scaglione per spostare in avanti l’età  pensionabile (salvo revisioni della legge) e nel 2019 l’asticella dell’età  sarà  spostata ancora più in alto da un nuovo adeguamento alle aspettative di vita. Morale, queste lavoratrici rischiano di potersi mettere a riposo solo nel 2020.
Ma questo 2016 è anche l’anno scelto per far scattare i nuovi coefficienti di trasformazione, ossia quelli che servono per trasformare i contributi versati in assegno: nemmeno questa è una notizia allegra, se si considera che tra 2009 e 2016 l’importo calcolato col contributivo, prendendo a riferimento come età  di uscita i 65 anni, è diminuito del 13 per cento. E nel 2016, secondo i calcoli di Antonietta Mundo, già  coordinatore generale statistico attuariale dell’Inps, riportati dall’Ansa, gli uomini perderanno sulla quota contributiva circa l’1 per cento.
E se queste sono le (fosche) previsioni per le pensioni nel 2016, a tracciare un bilancio degli anni passati, per quanto riguarda invece il lavoro e la crisi, ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro, partendo da dati Istat: 656.911 sono i posti persi nel periodo 2008-2015, di cui 486mila andati in fumo al sud e nelle isole e 249mila a nord, mentre il centro ha fatto segnare un sorprendente più 78mila, tanto che il Lazio è, insieme al Trentino Alto Adige, l’unica regione che ha visto in questi anni di crisi aumentare gli occupati.
Una crisi che, però, secondo la ricerca di ImpresaLavoro, sta forse finalmente allentando la presa: nel terzo trimestre del 2015, sottolinea, c’è stato un aumento di 154mila occupati su base annua.
Nello stesso periodo, 2008-2014, rivela uno studio dell’Istat diffuso ieri, tra gli stranieri, che per il 57 per cento arrivano in Italia per cercare un impiego e per il 29,9 per cento ritengono di svolgere mansioni poco qualificate rispetto al proprio titolo di studio, il tasso di occupazione ha subito un calo molto più accentuato rispetto agli italiani (6,3 punti contro 3,3).
E la disoccupazione tra loro è quasi raddoppiata in quei sei anni, facendo registrare un più 7,1 contro il più 5,2 degli italiani.

Francesca Schianchi
(da “La Stampa”)

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