Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
LA MISSIONE MOTIVATA DALL’ESIGENZA DI PROTEGGERE I LAVORI APPALTATI ALLA DITTA ITALIANA TREVI
L’Italia invia 450 uomini in una delle aree più calde dell’Iraq: la diga di Mosul, in piena area contesa dall’Is.
Lo ha annunciato il premier Matteo Renzi durante il programma tv Porta a Porta: “L’Italia sarà non sarà solo in Afghanistan, Libia, Kosovo, Iraq ma anche con una operazione importante nella diga di Mosul, nel cuore di un’area pericolosa, che rischia il crollo con la distruzione di Bagdad. Una azienda di Cesena ha vinto questa gara e non metteremo 450 uomini e metteremo la diga a posto”.
La ditta è la Trevi, già in passato attiva in Iraq.
Ieri il presidente americano Obama aveva citato l’Italia tra i paesi che si stanno impegnando nella lotta comune contro l’Is.
Dall’area si sono appena ritirate centinaia di truppe turche, dopo le proteste del governo di Bagdad all’Onu.
Il compito della missione – spiegano fonti qualificate citate dall’agenzia ansa – sarà di evitare che la diga di Mosul possa entrare nel mirino di terroristi e far sì che i lavori di risistemazione di questa infrastruttura vitale per l’Iraq – a cura della ditta italiana che ha vinto l’appalto – possano partire.
I 450 militari si aggiungeranno così ai 750 che partecipano all’operazione ‘Prima Parthica’, sempre nell’ambito della coalizione contro lo Stato Islamico.
La diga, viene spiegato, è pericolante e rischia di crollare. C’è bisogno di vigilanza armata per proteggerla da attacchi terroristici e l’Italia si è presa questo incarico, cui parteciperanno anche militari di altri Paesi.
Con il contingente a tutela si potranno far partire i lavori di questa grande infrastruttura, importantissima per il Paese.
I tempi tecnici per l’invio dei militari richiederanno qualche settimana. Si tratta di un salto di qualità nella missione italiana, perchè Mosul è una delle roccaforti dell’Is.
Ora il grosso del contingente nazionale è impiegato tra Erbil (Kurdistan iracheno) e Bagdad, con funzioni prevalentemente di addestramento.
Il “rapporto” fra Trevi e Iraq parte da lontano. Nel 2008, con Drillmec siglò un accordo con Iraqi Drilling Company per la fornitura di 6 impianti per la perforazione, per un valore di oltre 100 milioni di dollari. E nell’autunno del 2011, la società di Cesena era stata molto vicina alla conquista dell’appalto della diga di Mosul, che però secondo alcune indiscrezioni di stampa sarebbe poi sfumato.
Nel novembre di quell’anno, Trevi spiegò in una nota che “una aggiudicazione legalmente valida e definitiva da parte degli organi governativi iracheni competenti non è ancora avvenuta” con il processo di negoziazione “da ritenersi ancora in atto”.
E’ solo quattro anni dopo che il nome di Trevi rispunta nel contesto iracheno, quando gli Usa fanno sapere il loro apprezzamento per la disponibilità manifestata dal gruppo di Cesena per il consolidamento della diga di Mosul, attualmente pericolante e a costante rischio di crolli.
La diga di Mosul è strategicamente fondamentale per gli approvvigionamenti energetici del paese.
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
E’ STATO PARACADUTISTA, ESPONENTE DI PUNTA DEL SERVIZIO D’ORDINE DEL PARTITO E MERCENARIO IN AFRICA… AVREBBE CEDUTO UN FUCILE D’ASSALTO E QUATTRO PISTOLE TOKAREV A UNO DEGLI AUTORI DEGLI ATTI TERRORISTICI DEL 7 GENNAIO
Sembra quasi la trama di un noir, di un romanzo inverosimile: un militante dell’estrema destra francese che rifornisce di armi uno dei jihadisti all’azione a Parigi nel gennaio scorso.
E, invece, la procura di Lilla ci crede, eccome: Claude Hermant, 52 anni, e la compagna sono stati incriminati e si trovano ora sotto serrato interrogatorio, perchè accusati di essere all’origine di alcune armi utilizzate da Amèdy Coulibaly.
Si tratta di uno degli attentatori, che uccise una poliziotta municipale a Montrouge, nella periferia sud di Parigi, e che poi attaccò l’Hyper Cacher, dove venne ucciso dalle forze dell’ordine.
Coulibaly e i fratelli Kouachi, che assalirono la redazione di Charlie Hebdo, causarono la morte di 17 persone in pochi giorni.
Alcune armi rinvenute nel supermercato kosher e nell’appartamento dove il jihadista risiedette per qualche giorno prima degli attentati, a Gentilly (per la precisione, un fucile d’assalto e quattro pistole Tokarev), sarebbero passate attraverso una società della compagna di Hermant.
Lui, intanto, è già agli arresti dall’inizio dell’anno per un affare distinto ma sempre relativo al traffico d’armi. La coppia è originaria di Lilla.
Ma chi sono? Hermant, uomo dalle diverse vite, è stato paracadutista, esponente di punta del servizio d’ordine del Front National e mercenario in Africa.
E dire che all’origine era figlio di un minatore, iscritto al Partito comunista. Dopo aver lasciato i paracadutisti (dove era diventato sergente) nel 1982, si era più tardi arruolato come volontario nelle legioni croate durante la guerra nell’ex Yugoslavia.
Alla fine degli anni Novanta, dopo aver militato nel Fn (dal quale oggi prende le distanze), partì per la Repubblica del Congo (a Brazzaville finirà addirittura in carcere) e poi in Angola, mercenario e (forse) anche spia per i francesi.
Tra le sue varie vite, è stato perfino pugile, di un buon livello.
Politicamente rifiuta l’etichetta dell’estrema destra, preferisce quella di “anarchico di destra”.
Fra il 2008 e il 2012 ha gestito la Casa del popolo fiammingo, a Lambersart, vicino a Lilla, dove si ritrovavano giovani skinheads, accomunati da un miscuglio di “odio del sistema”, xenofobia e rivendicazioni regionalistiche fiamminghe.
Al momento di essere arrestato, lavorava occasionalmente in una friggitoria, proprietà della compagna, e gestiva un terreno di paintball, il “campo Ares”, divinità greca della guerra, con stage contraddistinti da improvvise levatacce notturne, marce forzate, tecniche di sopravvivenza, ma anche la possibilità di assistere a una messa, per chi lo volesse. Per i suoi avvocati, “erano come dei campi scout ma più virili”.
Se, comunque, Hermant si trova già in prigione, è per un altro motivo: avrebbe organizzato tra il Belgio e la Francia un traffico d’armi provenienti dall’Europa dell’Est.
Alcune sarebbero finite tra le mani di Coulibaly.
Secondo fonti di polizia, citate dal quotidiano La Voix du Nord, “esiste una porosità tra il mondo dell’integralismo islamico e il banditismo. Lo stiamo verificando”.
Leonardo Martinelli
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
A COMINCIARE DA UN MANAGER DEL MILAN
La lista è lunga e variegata. A scorrerla, a tutto si pensa fuorchè alla politica.
Al massimo a un happening televisivo o alla lista degli ospiti di un evento mondano.
D’altra parte, sono anni che Silvio Berlusconi dice di voler rivoluzionare Forza Italia (e ancora prima il Pdl) con l’innesto di un “esterno”, una personalità della società civile (o più spesso delle sue aziende).
Un nutrito elenco di Papi stranieri, nomi spesso messi in circolo ad arte dall’ex premier per vedere l’effetto che fa e che, per lo più, alla fine, come nel più classico dei conclavi, si sono ritrovati a essere semplici cardinali.
L’ultima indiscrezione, pubblicata dal Corriere della Sera, vede in pole position per questo ruolo Alfonso Cefaliello, componente del consiglio di amministrazione del Milan (che in questo periodo non è esattamente un modello vincente).
Ha un passato in Fininvest e recentemente si è occupato del progetto dello stadio rossonero. Insomma, un uomo-azienda.
Dallo staff del Cavaliere negano che vi sia alcunchè di concreto, ma forse a dimostrare che si tratta di poco più che una suggestione è la reazione – di fatto inesistente – dei parlamentari azzurri, che al contrario, solitamente, vanno in fibrillazione anche per molto meno.
È vero che il percorso dall’azienda al partito è stato un grande classico della nascita di Forza Italia (basti pensare all’attuale capogruppo del Senato, Paolo Romani) e che anche in tempi recenti alla fine il serbatoio è stato sempre lo stesso.
Un nome su tutti: Giovanni Toti, strappato alla direzione dei tg di casa, prima nominato consigliere politico di Berlusconi con l’obiettivo di smuovere le acque ma poi “relegato” alla Regione Liguria.
Negli ultimi anni l’ex premier ha corteggiato ora questo ora quello, ottenendo però scarsi risultati.
Non più di qualche mese fa era infatti tornato nuovamente alla carica con Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, rimasto poi coinvolto nell’inchiesta sulla cosiddetta cricca. Il quale, però, ha declinato l’invito.
A cercare di rivoluzionare Forza Italia nel 2013 è però arrivato il suo ex braccio destro, Marcello Fiori. Messo a capo della struttura “parallela” dei Club, sembrava destinato ad essere il nuovo uomo della provvidenza.
Memorabile resta poi il caso di Maurizio Scelli. Il Cavaliere si infatuò di lui: era il commissario della Croce rossa ed ebbe un ruolo nella liberazione delle due Simone in Iraq. Ma prese uno scivolone clamoroso: organizzò a Firenze una convention con Berlusconi che avrebbe dovuto consacrare il suo passaggio alla politica ma che si rivelò un autentico fallimento.
Ma di potenziali papi stranieri ce ne sono stati molti altri, i più durati il tempo di un battito di ciglia (o di un articolo di giornale).
Sempre dal bacino delle aziende nel 2013 emerse il nome di Giuliano Adreani, amministratore delegato di Mediaset fino all’aprile di quest’anno, quando quel ruolo è stato assunto da Pier Silvio.
Dal cilindro rossonero proveniva invece il nome dell’ex dirigente Ariedo Braida, ora in forze al Barcellona. Per non dire di quando si vociferava degli innesti di due campioni del Milan di Arrigo Sacchi: Paolo Maldini e Franco Baresi.
Alla disperata ricerca di volti nuovi per la politica, a un certo punto Silvio Berlusconi è rimasto affascinato anche da Guido Martinetti, detto Mr.Grom, che lo aveva molto colpito per la sua giovane età , la bella faccia e la capacità di parlare in televisione.
La televisione, appunto. Per il leader azzurro è stato e resta l’habitat più naturale. E allora perchè stupirsi se nel 2012 il nome che circolava come salvatore dell’allora Pdl era quello di Gerry Scotti?
Al punto che il noto conduttore Mediaset fu costretto a chiarire su Twitter: “Ai buoni intenditori: non commento una notizia che non esiste. Coraggio a chi ne ha bisogno, ossia a tutti”.
Per poi aggiungere: “Ofelè fa el to mestè”. Tradotto dal milanese: a ognuno il suo mestiere.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
AVVIATA LA PROCEDURA: LA LETTERA INVIATA DALLA TESORIERA DEL PARTITO
Al via il licenziamento collettivo dei dipendenti di Forza Italia. Ad annunciarlo è la tesoriera e amministratrice unica del partito, Maria Rosaria Rossi, in una lettera inviata a tutti gli eletti e gli iscritti di Forza Italia e pubblicata sul sito del partito di Berlusconi. “Cari amici, con profondo rammarico vi comunico di essere stata costretta a dare avvio alla procedura di licenziamento collettivo dei nostri dipendenti, notificandola al ministero del Lavoro e alle rappresentanze sindacali”.
Da tempo la sede di Fi in piazza Sal Lorenzo in Lucina, aperta in pompa magna nel settemre 2103 dall’ex Cavaliere, era come la “casa dei fantasmi”.
E i dipendenti in cassa integrazione.
Cade il mito del super imprenditore, sotto Natale.
Cade il mito del super imprenditore e del leader politico che in mezzo secolo di “onorata carriera” non aveva mai messo alla porta un solo dipendente.
Il 14 dicembre del 2014 erano stati fatti fuori in un solo colpo 55 dipendenti su un organico complessivo di 86 lavoratori a tempo indeterminato occupati da Forza Italia nelle sedi di Roma, Arcore e Milano.
Con una tempistica incredibile, il provvedimento del 2014 e quello di quest’anno cadono quasi nello stesso giorno, a metà dicembre. A ridosso di Natale.
Colpa dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
“Questa decisione – si legge nella lettera – è diretta conseguenza del D. legge 149/2013 convertito in legge del 21 febbraio 2014 n. 13, che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti ed ha, (art. 10), posto un tetto di 100.000 euro per persona al finanziamento da parte dei privati. Tutti sanno che Forza Italia, nata nel 1994, è diventata il primo Partito italiano grazie al suo fondatore e presidente Silvio Berlusconi che, oltre ad esserne la guida, si è fatto carico personalmente della sua sostenibilità economica e finanziaria. La vita politica di Forza Italia naturalmente continua, perchè faremo di necessità virtù. Rilanceremo il nostro Movimento che deve diventare flessibile, modulabile e quindi sostenibile. Daremo vita ad un utilizzo innovativo ed efficace di tutti i mezzi di comunicazione e per le funzioni organizzative ci avvarremo dell’aiuto volontario di tutti voi, dell’impegno generoso di tanti militanti e dei gruppi parlamentari”.
“Coinvolgeremo – scrive ancora Rossi – anche quei milioni di cittadini che continuano e continueranno a credere nei nostri programmi e nei nostri valori di democrazia e di libertà . È grande, naturalmente, l’afflizione di dover licenziare i nostri leali e qualificati collaboratori. Abbiamo provato di tutto in questi ultimi dodici mesi per evitarlo.
Inutilmente, parchè l’apertura della procedura di licenziamento si è posta come atto dovuto. Potrà essere modificata in futuro soltanto e se, con la collaborazione delle organizzazioni sindacali, si dovessero trovare soluzioni alternative oggi non ipotizzabili”.
(da agenzie)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
“NON MI SEMBRAVA CORRETTO CHE I CONSIGLIERI SI FOSSERO CONCESSI CREDITI DA 185 MILIONI”
Rossano Soldini, 71 anni, aretino, signore della scarpa made in Italy a capo di un calzaturificio di tradizione, è stato per poco più di due anni, tra metà 2007 e ottobre 2009, membro del consiglio di amministrazione di Banca Etruria. Si dimise sbattendo la porta.
Perchè?
«Quando entrai nel cda, per me fu un onore, una soddisfazione, motivo di orgoglio. Quella era la banca della nostra terra, delle nostre imprese, quella che sosteneva l’economia sana dell’aretino. Entrai con spirito di collaborazione. E invece fu una grande delusione».
Cosa non le piacque?
«Pensavo di poter dare un contributo con la mia esperienza di imprenditore, invece ero solo un passacarte. Io e la gran parte degli altri consiglieri di amministrazione. Comandava il comitato di presidenza, formato da presidente, due vice, direttore generale, un paio di consiglieri di amministrazione e il potente segretario. Ci portavano il verbale della seduta precedente, sessanta pagine di documenti, e dopo cinque minuti pretendevano di metterlo ai voti. Non sapevamo cosa deliberavano, non ci permettevano di capire. Chiedevi informazioni, non te le davano. Facevi domande, non ti rispondevano. Conduzione non lineare. Cominciai a litigare col segretario del cda e da allora litigai anche con altri. È no, così non poteva andare avanti».
E poi c’era la questione degli affidamenti di credito ai membri del cda, che nel periodo in cui lei rimase in carica i consiglieri si “auto concessero” per 185 milioni di euro, potevano averne fino a 20 milioni a testa.
«No, non mi sembrò una cosa corretta. Quando entrai nel cda, affidamenti ne avevo anch’io, ma mi guardai bene dal chiederne altri, semmai ridussi quelli che avevo. E mi sarebbe sembrato logico che tutti si fossero comportati allo stesso modo. Non era così».
Cos’altro non le andò a genio?
«Quella non era più la banca nata per aiutare gli imprenditori del territorio, aveva amministratori che venivano da lontano e guardava oltre il territorio di origine».
Chi guidava la banca allora?
«Nel primo periodo presidente era Faralli, nel secondo Fornasari, ma per poco tra giugno e ottobre 2009 quando io mi dimisi».
E allora cosa fece?
«Il 23 ottobre 2009, tre giorni prima dell’assemblea dei soci di Banca Etruria, andai in Banca d’Italia e volli verbalizzare tutto quanto avevo visto sui comportamenti disinvolti di chi guidava la Banca. Poi tornai ad Arezzo e pubblicai a pagamento sui giornali locali una lettera di spiegazioni alla città ».
Degli ultimi tempi che cosa sa?
«Nulla. I giornalisti mi chiedono di Boschi, ma io non so nulla. Posso solo dire che alcuni consiglieri, magari ignari, saranno chiamati a pagare. Ma è giusto che ci siano le azioni di responsabilità e che gli amministratori sciagurati rispondano della tragedia umana che loro hanno creato e che noi tocchiamo con mano. Anche se forse le autorità centrali potevano evitarci un epilogo tanto drammatico come hanno concesso in altri casi. E anche se Banca d’Italia poteva fare di più».
Perchè dice di toccare con mano la tragedia umana?
«È diffusa. In azienda, dove ho 200 dipendenti, ce ne sono quattro che hanno perso tutti i loro risparmi investiti in Banca Etruria. Sono alla canna del gas. Fuori da qui conosco un’anziana che ha un figlio down e che non sa più come andare avanti».
Di tutto ciò che le rimane?
«Amarezza. E la massima di mio padre Gustavo, fondatore dell’azienda: “Se i disonesti sapessero quanto è utile essere onesti, molti lo diventerebbero per specularci”».
Maurizio Bologni
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
“DOVEVAMO INFORMARLI MA NON LO FACEVAMO, MOLTI NON SAPEVANO NEANCHE COSA STAVANO FIRMANDO”
«Ho cercato di salvare quanti più correntisti ho potuto, invitavo i miei clienti a rivolgersi ad associazioni di consumatori per saperne di più. Non potevo dire loro la verità , avrei rischiato il posto di lavoro, ma che le obbligazioni subordinate fossero un prodotto che avrebbe rovinato solo e soltanto i clienti lo sapevamo tutti». A parlare è un direttore di banca Etruria di una filiale del centro Italia che incontriamo a Perugia e che, sotto garanzia dell’anonimato, ci spiega i meccanismi che portavano alla collocazione di bond a rischio.
Emerge che c’erano pressioni per vendere questi bond. È così?
«Sì. I dipendenti ricevevano premi in soldi sul rendimento settimanale. È iniziata una caccia all’uomo spietata: correntisti (soprattutto anziani) venivano raggiunti in case di cura o ospedali, incontrati casualmente fuori da scuola e invitati ad andare in banca, o chiamati uno per uno».
Come proponevate questi prodotti?
«Con correntisti e piccole e medie imprese operavamo così: proponevamo le obbligazioni subordinate a tutti dichiarando un rischio zero. A chi invece ci chiedeva un mutuo lo concedevamo maggiorato con l’obbligo di acquistare questi titoli. Oggi le piccole e medie imprese a fronte del mutuo a garanzia con quei titoli hanno perso tutto».
Il questionario Mifid lo sottoponevate al cliente?
«No. Nel 95% dei casi veniva compilato dagli impiegati di banca. Partiamo da un presupposto: i risparmiatori interessati non lo vedevano neanche. Si trattava soprattutto di persone con una scolarità finanziaria pari allo zero a cui noi professionisti del settore eravamo obbligati a spiegare tutto. Invece questo non avveniva. Moltissimi di loro non sapevano neanche cosa stavano firmando».
Quando si è raggiunto il picco di vendita di subordinate?
«Tra la fine del 2012 inizio 2013 in poi. Le sollecitazioni di funzionari di banca Etruria nei confronti dei risparmiatori si sono fatte più insistenti per l’acquisto di obbligazioni subordinate e azioni. In quel periodo c’erano le ispezioni di Banca d’Italia e la situazione di dissesto erano già note agli organi della banca e agli operatori del settore».
Il 10 febbraio 2015 la banca dell’Etruria viene commissariata. Da quella data avete smesso di vendere bond subordinati?
«No. Dopo l’ispezione e le lettere inviate dai commissari della banca ai correntisti è successo qualcosa di ancora più vergognoso ».
Può spiegarci di quale lettera parla e cosa è accaduto di “vergognoso”?
«Verso giugno 2015 i commissari di Etruria si accorsero dei Mifid taroccati, mandarono lettere ai clienti di questo tenore». (Il direttore mostra la lettera datata 30 giugno 2015). «Gentile cliente, con la presente vogliamo comunicarle che, sulla base delle informazioni da lei fornite nel questionario Mifid il suo portafoglio risulta non adeguato al suo livello di conoscenza ed esperienza finanziaria. La invitiamo a mettersi in contatto con la sua filiale e il suo gestore per verificare la coerenza delle informazioni rese per valutare eventuali interventi al suo portafoglio».
E quando il risparmiatore che ha ricevuto questa lettera veniva in banca?
«Nella stragrande maggioranza dei casi è successo che i dipendenti dicessero che era una pura formalità e facevano rifirmare lo stesso prodotto, però con la dicitura “alto rischio”, senza che il cliente sapesse nulla. È stato allora che ho detto a molti dei miei clienti di rivolgersi ad una associazione di consumatori seria prima che fosse troppo tardi».
Federica Angeli
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
IL FILO ROSSO CHE LEGA LA FAMIGLIA RENZI ALL’AFFARE THE MAIL, UN OUTLET DI REGGELLO IN CUI ENTRO’ ANCHE ROSI, EX PRESIDENTE DI BANCA ETRURIA
Per capire come mai Tiziano Renzi, il padre del premier, si sia trovato a fare il consulente di grandi affari immobiliari di società amministrate da Lorenzo Rosi, l’ex presidente della Banca Etruria, ora nel mirino di risparmiatori e magistratura, bisogna andare a Leccio.
Una frazione del Comune di Reggello di 800 anime della provincia di Firenze a soli nove minuti di auto da Rignano sull’Arno, il borgo dove i Renzi hanno casa e dove Tiziano è stato per anni segretario del partito.
Qui a partire dal 2009 si è lavorato sodo per raddoppiare un outlet, il The Mall nato sotto le insegne di Gucci, che oggi fattura 17 milioni di euro l’anno.
Un super affare immobiliare a cui gli sviluppatori, con la consulenza di Tiziano Renzi, ne vogliono ora far seguire degli altri a Sanremo e a Fasano in provincia di Brindisi.
Il business è ricco e per questo ha attirato imprenditori di ogni tipo.
A Reggello sono stati della partita Andrea Bacci, finanziatore della fondazione Big Bang e poi nominato da Matteo alla testa di alcune partecipate fiorentine, Andrea Moretti un imprenditore di Arezzo imparentato con un ex socio di Licio Gelli, e Ilaria Niccolai, un’immobiliarista da circa un anno socia del padre e della madre di Renzi nella Party srl.
Tutti loro devono la loro fortuna non solo all’abilità imprenditoriale, ma alle scelte della politica. Si perchè a Reggello la svolta è arrivata con il contributo fondamentale del sindaco, un renziano della prima ora. Si chiama Sergio Benedetti, di mestiere fa il mobiliere e ha retto il Comune dal 2002 al 2012, poi sarà nominato dalla Provincia nel cda del Maggio Fiorentino.
Durante la sua sindacatura arrivano le convenzioni che apriranno la strada all’espansione di The Mall. Su aree che in parte sono di proprietà dello stesso sindaco. Oltre a Bacci, Rosi e Moretti, c’è anche l’immobiliarista Ilaria Niccolai con il suo compagno, Luigi Dagostino, abile rappresentante delle numerose società estere che ruotano intorno all’affare.
Una compagnia piuttosto variegata che tra il 2010 e il 2015 si è destreggiata abilmente tra società estere, compravendite di terreni, piani regolatori e varianti urbanistiche. Rosi, che pure aveva avuto almeno uno dei protagonisti, Moretti, tra i suoi azionisti in Banca Etruria, entra ufficialmente in partita solo dopo l’uscita dall’istituto.
Lo stesso si deve dire di Renzi senior, che pure nella zona è di casa.
L’affare fiorentino della socia di Renzi senior
Il padre del premier e l’ex presidente dell’istituto salito all’onore delle cronache per i legami con la famiglia Boschi prima e poi per gli effetti del Salva banche sui risparmiatori truffati, sono accomunati da una persona e una società : Ilaria Niccolai e la sua Nikila Invest, che è socia di entrambi in aziende diverse.
Quelle in cui Rosi è coinvolto dalla scorsa primavera fanno capo alla Syntagma srl, da cui si diramano varie società inclusa Egnazia Shopping Mall (in cui compaiono anche due società panamensi), cui fa capo il progetto di espansione degli outlet in Puglia, a Fasano.
Quella che ha portato Tiziano Renzi sulla scena di Reggello Reggello è invece Party srl. La società immobiliare di Rignano e amministrata da Laura Bovoli, madre del premier, viene fondata nell’ottobre del 2014 dalla costruttrice Niccolai e dal padre del premier.
Il tutto avviene con grande riserbo tanto che, come notato da Libero, i Renzi si “dimenticano” di segnalarlo nell’aggiornamento annuale della loro situazione patrimoniale depositata a Palazzo Chigi.
Molto più clamorosa, invece, l’operazione che la scorsa estate ha visto la Niccolai rilevare per 25 milioni il teatro Comunale di Firenze, storica sede del Maggio Fiorentino, dalla Cassa Depositi e Prestiti che un anno e mezzo prima l’aveva comprata per 23 milioni direttamente dal Comune con le casse esangui: per cedere l’immobile ottocentesco al gruppo pubblico si è accontentato di quasi la metà dei 44,5 milioni della base della prima asta, nel 2009.
Magro affare anche per la Cdp fresca di passaggio nelle mani del fido Claudio Costamagna, che pure parla di un “buon risultato”alla luce del contesto e sottolinea che “in generale se il prezzo è basso è perchè evidentemente non c’erano poi tanti colpo all’ombra di Reggello.
Tornando a Reggello e all’affare del Mall, l’anno cruciale è stato il 2012, quando per il sindaco renziano Sergio Benedetti si avvicina la fine del secondo mandato.
Per il primo cittadino la nascita dell’outlet nel suo territorio si è rivelata un’opportunità non da poco. Prima ha rilanciato l’area stringendo intese con gli sviluppatori.
Poi, lasciata la poltrona, ha fatto lui stesso l’affare: nel marzo 2014 ha venduto parte dei terreni del suo mobilificio adiacente all’outlet alla Mall Re Investments che all’epoca faceva capo a Bacci, l’amico e finanziatore di Renzi, e alla Nikila della futura socia di Tiziano Renzi, mentre oggi è controllata dalla Staridea Investments di Cipro.
L’affare ha permesso all’ex sindaco piddino di incassare 2,88 milioni. Ed è stato preceduto da una serie di atti formali dove i dettagli contano non poco.
Il piano di espansione gestito dalle Isole Vergini Benedetti diventa sindaco di Reggello nel 2002 e viene rieletto nel 2007.
È sotto il suo secondo mandato, nel 2009, che viene dato un importante via libera all’ampliamento di The Mall grazie a una convenzione tra il Comune e Sammezzano outlet.
La società all’epoca era intestata a Excalibur ltd, delle Isole Vergini Britanniche e portava avanti un ambizioso piano di espansione che nel giro di 5 anni avrebbe più che raddoppiato la superficie originaria del centro commerciale occupando un’importante fetta del paese. Incluse le zone G, quelle che andrebbero destinate ai servizi pubblici.
La proprietà di Sammezzano cambia proprio mentre il sindaco sta per lasciare la poltrona e il piano si sta concretizzando attraverso una vorticosa serie di compravendite e affitti dei terreni alle case di moda con tanto di spinte a costruttori della partita o di onorari extra a consulenti che spesso sono schermati dietro società estere.
È tra aprile e agosto 2012 che in testa all’importante interlocutore del Comune fanno capolino dei nomi veri: la Niccolai, Dagostino e Jacopo Focardi, Focardi, oggi terzo socio di Tiziano Renzi nella Party srl.
Le compravendite con i nipoti dei soci di Gelli A febbraio dello stesso anno era comparso sulla scena anche Andrea Moretti, figlio della nipote degli ex soci di Licio Gelli, i Lebole, da cui sono state ereditate le attività nel ramo tessile, accanto al vino della Tenuta Setteponti che si trova nell’evocativa località di Castiglion Fibocchi (Ar). Mentre quello di soci della Popolare dell’Etruria è solo un trascorso come per tante famiglie del luogo.
È il giovane Moretti, in tempi più recenti seguito dalla madre in questa avventura, che attraverso una società controllata da Cipro guida le prime compravendite di terreni sui quali sorgerà il nuovo Mall che vengono affittati a Gucci-Kering a 845mila euro l’anno.
Un’operazione fortunata anche per Dagostino, che incassa dalle parti ben 1,2 milioni per l’assistenza alla stipula del contratto d’affitto. Ma la girandola di compravendite è solo all’inizio ed è ancora in corso E il sindaco si assicurò il profitto “futuribile” Quanto al sindaco, a marzo 2012, proprio alla fine del suo impegno in Comune, Benedetti decide di cedere gratuitamente all’ente alcune particelle della sua proprietà per destinarle a verde pubblico e contestualmente si impegna a cederne altre in futuro. Non solo.
A 15 giorni dalle amministrative il Comune concede al sindaco il permesso di costruire su alcuni suoi terreni adiacenti all’outlet. Il motivo lo si capirà dopo qualche mese.
A maggio viene eletto sindaco il vice di Bendetti, Cristiano Benucci (Pd). E tra i primi atti licenzia una variante che permette di costruire una strada che circonda la nuova area dell’outlet e con lei il terreno dell’ex sindaco.
Un anno e mezzo dopo si consuma la compravendita, dove Benedetti mantiene un diritto di servitù di passo sui terreni ceduti, in modo da collegarli con la sua fabbrica di mobili.
A pensar male sembra una mossa “futuribile”. Il motivo? Basta guardare dall’alto l’area in questione. Ciò che resta del mobilificio Benedetti, è circondato dall’outlet ed è ormai l’unica porzione di terreno dell’area edificabile.
E così se un giorno il The Mall vorrà ancora ampliarsi non potrà che bussare alla porta dell’ex sindaco.
Nel frattempo Benedetti ha trovato notorietà a dicembre 2012, quando la Provincia di Firenze lo candida per il cda del Maggio Fiorentino senza comunicare la decisione al consiglio provinciale.
Polemiche, veleni, sospetti. L’operazione alla fine non va in porto: a gennaio la Fondazione viene commissariata per la disastrosa situazione economica.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
RITIRATO L’EMENDAMENTO SULLO SCALO DI FIRENZE GESTITO DA CARRAI
Dietrofront sull’emendamento alla legge di stabilità , presentato dai relatori Paolo Tancredi (Ap) e Fabio Melilli (Pd), che le opposizioni avevano già ribattezzato ‘salva-Carrai’ perchè escludeva l’obbligo della valutazione d’impatto ambientale per i piani di sviluppo degli aeroporti di interesse nazionale, quindi anche per quello di Firenze, contestatissimo progetto che si sta sviluppando sotto l’egida di Marco Carrai, presidente di Toscana Aeroporti e braccio destro di Matteo Renzi.
Un emendamento ufficialmente depositato dai relatori in commissione Bilancio alla Camera, dove è in corso l’esame della manovra, ma che per le opposizioni nasconde la manina del Governo.
Di fatto molti degli emendamenti che sono presentati solitamente dai relatori alla legge di stabilità nascono da un input dell’esecutivo.
Prevedeva, verbo al passato, perchè i relatori, dopo il coro di polemiche che si è sollevato dalle opposizioni, da Alternativa Libera-Possibile a Forza Italia, hanno alzato bandiera bianca e ritirato l’emendamento questa mattina all’alba. Per alcuni minuti, come racconta un deputato presente ai lavori, la commissione si è trasformata in una “trincea” nella notte per bloccare l’emendamento.
La proposta, in effetti, spianava di fatto la strada al progetto di Carrai prevedendo che i piani di sviluppo aeroportuale “finanziati o cofinanziati dallo Stato” e “considerati di interesse nazionale” sono “redatti e approvati al di fuori del provvedimento di Valutazione di impatto ambientale non oltre l’inizio dei lavori”.
Il richiamo esplicito a Firenze non c’è, ma il riferimento allo scalo fiorentino è evidente nell’ultimo comma dell’emendamento, dove si legge che le disposizioni previste si applicano anche alle procedura di valutazione di impatto ambientale e ai piani di sviluppo “in corso di approvazione”.
Di fatto l’emendamento prevedeva che il piano di sviluppo non tenesse conto della valutazione d’impatto ambientale, che ad oggi costituisce l’ostacolo numero uno all’ampliamento dello scalo fiorentino, dove, nei piani di Carrai, dovrebbe nascere una nuova pista.
A Firenze, infatti, per arrivare al via libera da parte del ministero dell’Ambiente, attraverso la valutazione di impatto ambientale, bisognerà attendere un bel po’.
I dubbi e i rilievi dei tecnici della Regione Toscana e la protesta dei comitati locali dei cittadini hanno rallentato questa procedura, che ora viene di fatto superata con l’emendamento previsto nella manovra.
Secondo la proposta di modifica, inoltre, il parere favorevole delle Regioni interessate sui piani regolatori e di sviluppo degli aeroporti, avrebbe compreso e assorbito a tutti gli effetti la verifica di conformità urbanistica e paesaggistica.
Esultano le opposizioni. Stefania Prestigiacomo, in quota Forza Italia, sottolinea che le misure previste dall’emendamento erano “in palese contrasto con l’Unione europea e le direttive comunitarie” e che si sarebbe andati incontro a un serio rischio di un’apertura di procedura di infrazione da parte di Bruxelles.
Il Governo potrebbe tentare la carta dell’aula, riproponendo cioè l’emendamento durante l’esame della manovra nell’emiciclo di Montecitorio, ma i deputati di Alternativa Libera, gli ex grillini che si sono uniti a Pippo Civati, già promettono battaglia: “Se pensa di ripresentarlo, magari blindandolo con la fiducia, metta in conto di dover farci portare via di peso dall’emiciclo di palazzo Montecitorio perchè combatteremo con tutte le nostre forze per evitare questo scempio”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 15th, 2015 Riccardo Fucile
TRE MESI FA NASCEVA IL “BOLLINO ETICO”, MA SOLO 207 AZIENDE LO HANNO OTTENUTO, UNA SU MILLE
Ricordate in estate, puntuale come il solleone, la tragedia dei morti nei campi e la polemica sul caporalato?
«Piaga sociale che deve essere eradicata definitivamente», ha ammonito il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Quest’anno poi, a fare più scalpore era stato il caso di Paola Clemente, la bracciante pugliese di 49 anni, morta mentre nelle campagne di Andria era impegnata nell’acinellatura dell’uva.
Lo sfruttamento della manodopera, che secondo le stime tocca 400 mila lavoratori e spesso è gestito dalla criminalità organizzata, si estendeva dunque agli italiani.
Si mobilitarono tutti: sindacati, governo, associazioni imprenditoriali.
Venne così lanciata l’idea del bollino etico per le aziende, un sistema di certificazione che attestasse l’essere in regola con le leggi e i contratti di lavoro, dando attuazione a quanto previsto dal decreto legge competitività del 2014.
Una garanzia insomma di trovarsi di fronte a un’impresa non sospettabile di utilizzare manodopera in nero o clandestina e tantomeno di ricorrere ai caporali che la forniscono. Un’azienda pulita.
Ma dopo tre mesi il risultato è deludente, almeno se commisurato alle attese e alla mobilitazione iniziale.
Al 3 dicembre, solo 669 aziende hanno chiesto la certificazione e appena 207 l’hanno ottenuta
«Per la prima volta in Italia – annunciava il 19 agosto il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina – si istituisce un sistema pubblico di certificazione etica del lavoro. Il certificato di qualità attesterà il percorso delle verifiche effettuate, individuando e valorizzando le aziende virtuose». Pochi giorni dopo l’Inps annunciava la nascita della «Rete del lavoro agricolo di qualità ».
Dal primo settembre, spiegava l’istituto di previdenza, «è possibile presentare le istanze di adesione alla Rete» accedendo al sito dello stesso Inps.
Nel modulo online bisogna dichiarare le generalità del titolare dell’impresa e attestare di non aver riportato condanne penali in materia di lavoro, legislazione sociale e di imposte; di non aver subito sanzioni amministrative negli ultimi tre anni e di essere in regola con i contributi Inps e Inail.
Le domande «saranno esaminate» e «deliberate entro 30 giorni». Verificato il possesso dei requisiti, l’azienda entra nella Rete e «riceve il certificato che ne attesta la qualità ».
Che cosa è successo dal primo settembre al 3 dicembre?
Secondo i dati dello stesso Inps, sono state presentate 669 domande.
Quelle ammesse sono 207, 12 quelle respinte, 399 quelle «in attesa di documentazione» e 51 quelle sottoposte ad «ulteriore valutazione».
A settembre sono state presentate 230 domande, a ottobre 233 a novembre 192 e 14 nei primi tre giorni di dicembre. Non c’è stata quindi la corsa al bollino anticaporalato.
Le imprese agricole in Italia sono quasi un milione e mezzo. Ma tenendo conto che la stragrande maggioranza sono piccolissime e che l’iniziativa è rivolta in particolare alle aziende produttrici (cioè le prime della filiera, quelle dove si coltiva e raccoglie), l’Inps stima una platea potenziale di 200mila imprese interessate alla Rete.
Al momento, dunque, appena una su mille vi è entrata.
Uno dei primi imprenditori ad aderire alla Rete è stato Giorgio Mercuri, a capo di una cooperativa agricola nel foggiano che, spiega, fattura 10 milioni, vendendo il 40% del prodotto (ortofrutta) in Italia e il 60% all’estero, e impiega più di 200 lavoratori stagionali.
Mercuri è anche presidente di Fedagri-Confcooperative, associazione che rappresenta 3.300 cooperative, con circa 430.000 soci e un fatturato complessivo di 28 miliardi. «Per me – dice – è stato naturale aderire. Ho sempre fatto tutto in regola e questo bollino di qualità mi è sembrato una grande idea».
Nessuna difficoltà burocratica, racconta Mercuri: «La domanda si fa online e poi l’Inps controlla. Mi chiedo solo se poi questi controlli verranno fatti tutti gli anni o no».
Ma questo dubbio sembra secondario, se le adesioni alla Rete resteranno così basse. Secondo Mercuri, le spiegazioni sono molte: «Come sempre, passato il clamore della cronaca, la spinta si è allentata. Comunque, il motivo principale è che se non c’è una richiesta da parte della distribuzione non se ne esce».
In che senso? «Le faccio un esempio. Quando noi vendiamo a imprese del Nord Europa o della Svizzera, queste non ritirano il prodotto se non dimostriamo che lavoriamo in regola e sono disposte a pagarlo per questo un po’ di più. Per me, quindi, il bollino di qualità è un biglietto da visita sull’estero. Da noi, invece, la grande distribuzione da una parte ha inviato una circolare ai fornitori invitandoli ad iscriversi alla Rete ma dall’altra continua ad acquistare il prodotto fresco a chi offre di meno. Insomma, se non c’è una domanda a monte, molti non hanno motivo di chiedere il bollino».
Basterebbe allora che dicessero ai fornitori «se non hai il bollino, non ritiro la tua merce»?.
«Certo, ma temo che perderebbero il 30% dei fornitori e dovrebbero pagare di più». Non resta che sperare nello schema di disegno di legge contro il caporalato approvato in Consiglio dei ministri il 13 novembre: 9 articoli che prevedono, tra l’altro, arresto in flagranza di reato, confisca dei beni e rafforzamento dei compiti di monitoraggio della Rete.
L’adesione alla stessa, però, precisa la relazione al ddl, resta «meramente facoltativa».
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)
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