Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
PASSERELLA A FIRENZE DI CAMPIONI DELLO SPORT PER CELEBRARE IL “DIVO MATTEO”
“Se un terzo dei circoli chiude e gli iscritti sono sempre di meno, un problema c’è”, fa notare un componente della segreteria del Pd.
E il problema si chiama “sfiducia” soprattutto dopo lo scandalo di Mafia Capitale che ha colpito e deluso la base dem riducendola come mai prima d’ora.
Alla crisi e all’emorragia interna, secondo Matteo Renzi, bisogna rispondere con uno stravolgimento: “In vista delle amministrative e del referendum sulle riforme abbiamo bisogno di un Pd più organizzato e più strutturato”, va dicendo il premier-segretario che sta pensando a cambiamenti radicali anche all’interno della segretaria stessa.
Intanto il cambio di stile sarà evidente già alla Leopolda sesta edizione.
La prima è stata quella all’insegna della rottamazione, del “largo ai giovani”, l’ultima è stata la Leopolda di governo.
La kermesse di quest’anno non sara nè l’una nè l’altra, sarà invece la “Leopolda dei campioni”, dei vincitori delle sfide nazionali, per un’iniezione generale di fiducia.
Niente tavoli di lavoro, che come voleva la tradizione animavano tutta la giornata del sabato, ma una sfilata di volti noti e meno noti, di quelli che, come li chiama Renzi, “ce l’hanno fatta”.
La manifestazione si chiamerà “La terra degli uomini”. Il richiamo è al libro di Antoine de Saint-Exupery, uno dei preferiti dal premier, che teneva sulla sua scrivania ai tempi delle primarie fiorentine del 2009.
La tre giorni, che partirà l’11 dicembre, sarà divisa in tre parti: ieri, oggi e domani.
Al passato sarà dedicato il primo giorno: Renzi aprirà i lavori ricordando da dove si è partiti.
Dell’oggi si parlerà sabato, quando saliranno sul palco “gli eroi del nostro tempo”.
Quindi si partirà con un’insegnante, ex precaria, che è stata assunta grazie alla riforma della scuola.
Poi sarà la volta di un giovane che ha firmato il contratto di lavoro grazie al Jobs Act. Una celebrazione, in pratica, del renzismo.
Spazio anche a tutti coloro che il premier ha omaggiato quest’anno.
Quindi, alle due tenniste finaliste agli Us Open, Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Ma anche all’astronauta Samantha Cristoforetti. Sarebbe stata contattata inoltre la campionessa di nuoto Federica Pellegrini.
Sarà presente, tra gli altri, ma non sarà la prima volta, il direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto.
Infine l’ultimo giorno si parlerà di “futuro”, quindi anche di referendum e di elezioni amministrative.
Queste ultime, come Renzi ma anche il sottosegretario Luca Lotti vanno dicendo mettendo un po’ le mani avanti, non saranno un banco di prova per il governo. Piuttosto lo sarà la consultazione sulle riforme costituzionali.
La Leopolda e i banchetti, mille in mille piazze, di questo week end serviranno comunque a spianare la strada e a iniziare nei fatti una campagna elettorale che ha come primo obiettivo quello di rivitalizzare la base e i territori.
Per questo, sul palco, non ci saranno i parlamentari ma amministratori locali, quindi sindaci e consiglieri.
Il tutto avverrà sotto la regia di Simona Ercolani, colei che già svolge una consulenza ufficiale per Palazzo Chigi e che lavora al fianco di Luca Lotti.
Ma soprattutto Ercolani era la preferita di Renzi per diventare presidente della Rai, salvo poi aver avuto lo stop da parte di Silvio Berlusconi.
Adesso l’autrice di “Sfide”, il format televisivo di successo ideato nel 1998, mette la firma sul neo-leopoldismo.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
SALA NON FORNISCE I DATI NEPPURE ALLA REGIONE LOMBARDIA
Niente da fare. A un mese dalla conclusione di Expo non è ancora possibile sapere quanto siano gli incassi realizzati grazie agli ingressi dei visitatori.
E di che tipologia siano i biglietti venduti.
Il dato è top secret: il commissario unico e probabile candidato sindaco del Pd a Milano Giuseppe Sala non l’ha voluto comunicare nemmeno a Regione Lombardia, nonostante questa sia azionista della società .
La giunta guidata da Roberto Maroni non ha potuto così rispondere a un’interrogazione del M5S: “Non è possibile dare una risposta semplice a una domanda semplice — ha detto in aula al Pirellone il sottosegretario ai Rapporti istituzionali nazionali Alessandro Fermi — Abbiamo fatto domanda alla società Expo, ma questi dati non sono ancora arrivati”.
Così dopo il mistero che per mesi ha coperto il reale numero dei visitatori, ora il mistero è calato sul tipo di biglietti venduti.
Non un dettaglio da poco, perchè è dal rapporto tra numero di biglietti a prezzo pieno e biglietti scontati, come quelli serali o per le scolaresche, che passa la tenuta dei conti in bilancio.
Come ricorda l’interrogazione dei Cinque stelle, prima firmataria Silvana Carcano, lo scorso aprile Sala dichiarava che per far fronte agli 800 milioni di costi, considerati i 300 milioni provenienti dagli sponsor, sarebbe stato necessario vendere 24 milioni di biglietti a 22 euro l’uno.
Una stima poi rivista a ribasso, visto che secondo il commissario unico un taglio dei costi avrebbe consentito il pareggio di bilancio con 20 milioni di paganti a 19 euro.
Una volta chiusi i padiglioni, Expo ha diffuso il dato di 21,5 milioni di visitatori, senza mai entrare nel dettaglio delle tipologie di biglietti venduti, del prezzo medio, e di quanto abbiano influito sull’afflusso ai tornelli le politiche di sconti decise dopo il primo periodo tutt’altro che felice in termini di presenze.
Informazioni che nemmeno la giunta lombarda è riuscita a ottenere, nonostante possa contare su un suo rappresentante all’interno del cda di Expo, l’avvocato di Maroni Domenico Aiello.
“Sono allibita — commenta Carcano —. I dati sui biglietti venduti sono ormai uno dei segreti di Fatima. Eppure si tratta della gestione di soldi pubblici da parte di una società pubblica. Evidentemente il candidato sindaco di Milano in pectore del Pd Sala ha un’idea di trasparenza tutta sua”.
Luigi Franco
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
SONO ALMENO 300 I KOSOVARI ANDATI IN SIRIA A COMBATTERE CON IL CALIFFATO
L’operazione dell’Antiterrorismo e della Digos di Brescia, che ha portato all’arresto di quattro sospetti terroristi kosovari legati all’Isis, è un campanello d’allarme che riaccende l’attenzione su fenomeno pericolosamente sottovalutato e per certi versi incomprensibile. Il protettorato euro-atlantico del Kosovo è diventato il principale vivaio dell’Isis in Europa, nonostante sul suo piccolo territorio siano presenti 500 soldati della missione Nato Kfor a guida italiana e 1.500 agenti della missione di polizia europea Eulex.
Secondo i dati del Ministero degli Interni di Pristina, sono almeno trecento i kosovari che sono andati in Siria a combattere con il Califfato e che fanno regolarmente avanti e indietro via Turchia e Macedonia, trasformando il Kosovo in una una pericolosa rampa di lancio per azioni terroristiche in Europa.
Questo dato fa del Kosovo, che ha solo un milione e 800 mila abitanti, il principale serbatoio europeo pro-capite di foreign fighter dello Stato Islamico.
Referente dei quattro kosovari arrestati dalla polizia italiana è il comandante della ‘brigata balcanica’ dell’Isis formata da kosovari, bosniaci, albanesi, macedoni e montenegrini: il sanguinario jihadista kosovaro Lavdrim Muhaxheri (nome di battaglia, Abu Abdullah al Kosova), originario di KaÄanik, ex roccaforte dell’Uck divenuta oggi principale centro di reclutamento dell’Isis in Kosovo — come racconta un recente servizio delle Iene.
Non solo KaÄanik si trova a pochi chilometri dalla mega-base militare americana di Camp Bondsteel, ma Muhaxheri in quella base ci aveva anche lavorato fino al 2010 — come altri futuri jihadisti kosovari, tra cui il giovane kamikaze Blerim Heta — per poi continuare a lavorare per la Nato in Afghanistan fino al 2012, subito prima di partire per la Siria.
Com’è possibile che tutto questo accada sotto gli occhi dell’apparato militare e di intelligence Nato e Ue che opera in Kosovo?
“KaÄanik e la storia di Muhaxheri sono solo la punta dell’iceberg — spiega a ilfattoquotidiano.it il generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo — perchè tutto il territorio kosovaro, penso alla vale di DreniÄa, pullula da anni di imam radicali che predicano la guerra santa e operano come reclutatori nelle centinaia di moschee finanziate dalle monarchie arabe. Questa situazione è potuta maturare nonostante le missioni internazionali presenti sul territorio, perchè da tempo l’Europa e la Nato si disinteressano al Kosovo, e ai Balcani in generale, nonostante questa evoluzione fosse chiara da anni”.
L’allarme, in effetti, lo aveva già lanciato in modo molto chiaro nel 2009 Antonio Evangelista, ex comandante de missione Unmik in Kosovo e tra i massimi esperti europei di antiterrorismo.
Nel suo libro Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa spiegava come gli orfani delle guerre balcaniche fossero preda, in Kosvo come in Bosnia, di una rete di caritatevoli predicatori wahabiti finanziata da organizzazioni pseudo-umanitarie di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait Qatar e Turchia, che li sottoponevano a un lavaggio del cervello trasformandoli in futuri martiri della jihad.
Oggi quei ragazzi sono diventati grandi, pronti a combattere per l’Isis in Siria ma anche a casa loro, in Europa.
Enrico Piovesana
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
LE PERSONE ACCUSATE A BRESCIA ERANO IN CONTATTO CON IL MILIZIANO DEL KOSOVO, PROTAGONISTA DI NUMEROSI ESECUZIONI PUBBLICHE
In Siria come in Kosovo è conosciuto come “il macellaio”, nome che si è guadagnato sul campo di battaglia al fianco del califfo nero al-Baghdadi per la sua ferocia e il disprezzo della vita umana.
Il nome di Lavdrim Muhaxheri è tornato di attualità oggi in seguito all’operazione Van Damme che fra Pristina, capitale della turbolenta ex provincia della Serbia, e Lombardia e Veneto ha visto finire in manette quattro persone accusate di terrorismo internazionale e legami con Daesh in Siria.
Secondo l’intelligence, Muhaxheri è uno dei comandanti più temibili delle milizie islamiche, capo e punto di riferimento della brigata balcanica dell’Isis.
E’ stato dato per morto in combattimento più di una volta, ma puntualmente il suo faccione è sempre risbucato nei macabri video nei quali lo Stato islamico mostra le esecuzioni di infedeli e prigionieri.
L’ultimo in ordine temporale è di questa estate e Muhaxheri, in splendida forma, processa sommariamente un militare dell’esercito di Assad legato a un albero, reo, secondo lui, di “aver ucciso con un bazooka due fratelli”.
A Daesh vige la legge del taglione, così il “giudice” si trasforma in comandante del plotone di esecuzione e imbracciato un Rpg, si allontana una ventina di metri e spara una granata. Mancandolo.
Poco importa perchè il malcapitato verrà finito subito dopo con alcuni colpi di kalashnikov.
“Avete visto che fine ha fatto questo cane? — minaccia il kosovaro in favore di telecamera — E’ la stessa che farete tutti voi”.
Muhaxheri è originario di Kacanik, un paese da 30mila anime nel Kosovo meridionale quasi al confine con la Macedonia. Le autorità di Pristina segnalano la cittadina come una delle centrali di arruolamento jihadista nel cuore dell’Europa.
Il luogo è stato al centro di un servizio delle Iene di qualche settimana fa, quando Luigi Pelazza e Osvaldo Verri si sono messi sulle tracce dei familiari del macellaio dei Balcani. E quello che i fratelli di Lavdrim raccontano ha dell’incredibile: “La polizia? Non è mai venuto a cercarlo a casa”.
Al bar del paese tutti lo conoscono e il suo nome incute un misto di rispetto e paura. “Fra 20 anni il suo nome verrà ricordato qui”, dice orgoglioso un compaesano.
Secondo fonti qualificate, Muhaxheri è solito ritornare in Kosovo perchè oltre al capo militare uno dei suoi compiti è il reclutatore e Kacanik è uno dei posti ideali per arruolare i giovani da portare in Siria e Iraq.
Ma anche il Lombardo-veneto, come ha dimostrato l’inchiesta Van Damme.
Lorenzo Galeazzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
LEI VEDEVA MOLTI POTENTI CHE ORA DICONO: “SOLO INCONTRI SPORADICI”
La Chaouqui del giorno dopo è “Francesca Immacolata chi?”
Disconosciuta, mal tollerata, incontrata appena, sì forse, ma di sfuggita, comunque non potevo mai pensare.
Il bel mondo, pezzi della politica e dell’imprenditoria con cui l’intraprendente pierre è entrata in contatto – stando al memoriale di monsignor Lucio Vallejo Balda pubblicato ieri da Repubblica – adesso la ricorda a malapena, ne ridimensiona la capacità di influenza. Eppure ancora pochi mesi fa sembrava oro quel che luccicava.
«Ecco, aspetti, aspetti, per fortuna annoto sempre tutto. Era il 17 settembre scorso, ecco, ha chiesto un appuntamento qui a Palazzo Grazioli e l’ho ricevuta », racconta puntuale la senatrice Mariarosaria Rossi, tesoriere e plenipotenziaria di Forza Italia. Difficile arrivare al capo bypassando la gran ciambellana della corte berlusconiana. «Ma la signora voleva incontrare me», continua.
Nel memoriale il monsignore scrive che «dietro Francesca c’è Berlusconi », che lei «assisteva in modo abituale alle feste di Palazzo Grazioli».
La Rossi stronca: «Ma quali feste? Quella mattina l’ho ricevuta per cortesia nel mio ufficio a Palazzo, aveva chiesto un appuntamento in segreteria, si è presentata come una persona molto inserita al Vaticano, imprenditrice, si è anche dichiarata nostra simpatizzante e aveva voglia di mettersi a disposizione per dare un contributo al bene del Paese. Mi ha detto proprio così».
E voi? «Il presidente Berlusconi non sapeva nemmeno chi fosse costei e non l’ha mai incontrata. Dopo quella occasione neanche io. Mi ha chiesto un secondo appuntamento che non ho mai concesso, mai più rivista».
L’approdo al mondo della politica resta il grande sogno della Chaouqui, ma per realizzarlo occorrono mediatori, ponti.
«È con Bisignani che aveva complicità » si legge ancora nel memoriale.
Ex giornalista, lobbista, transitato attraverso l’inchiesta P4 e altro ancora, contattato al telefono si schermisce col consueto sarcasmo: «Dovrei essere arrabbiato perchè non mi ha mai invitato su quelle terrazze o in quei convegni frequentati invece da altri vip che oggi fanno i pesci in barile – racconta il faccendiere – Me la presentò la mia amica contessa Marisa Pinto Olori del Poggio, ma quale complicità , quali servizi segreti. Lei e monsignor Balda, che all’epoca era una star Oltretevere, mi chiesero un incontro e li invitai a pranzo il 12 dicembre dell’anno scorso. Perchè? A lui stava a cuore una certa iniziativa benefica per i bimbi immigrati a Lampedusa, curata con un altro prelato. Ma vede, io mi occupo da 30 anni di Vaticano, qualche conoscenza ce l’ho, ho preso le mie informazioni. E mi dissero di lasciarlo perdere, perchè quello era un po’ fuori di testa. E così ho fatto. Ora mi tirano in ballo perchè ce l’hanno con me». Chi ce l’ha con lei, Bisignani?
«Sono stato il primo a svelare il ruolo di Balda scrivendone sul Tempo, il primo a denunciare il complotto ordito da centri di potere dell’Opus Dei contro Papa Bergoglio ».
Veleni, schizzi di fango e, ovviamente, complotti, orditi o millantati. Non manca nulla in questa storia
Il tentativo di tirare in ballo chiunque è il filo conduttore del dossier del monsignore. Viene citata anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin («Francesca ha una grande relazione con lei»). La responsabile della Sanità è entrata in contatto con lei, viene spiegato adesso, per una paio di iniziative benefiche in favore dei poveri delle periferie romane, come altre vengono curate in concorso col Vaticano.
La Chaouqui, con cui la Lorenzin ricorda di non avere alcun rapporto, ancora una volta si era accreditata come «ambasciatrice » d’Oltretevere.
Che la pr sia andata al matrimonio di Marco Carrai, amico del premier Renzi, è confermato dalla foto in cui appare al fianco del marito Corrado Lanino.
In un’altra sorride proprio al fianco dell’imprenditore. Era il 28 settembre 2014. Un’era fa.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
“LA CONTESSA PINTO TENEVA DUE PORPORATI AL GUINZAGLIO”
Il monsignore di Lèon, ancora oggi nelle carceri della Gendarmeria vaticana, ai due promotori di giustizia ha raccontato nel corso dei quattro interrogatori come abbia vissuto quotidianamente con la paura «del ricatto d’amore» dopo la notte trascorsa insieme a Francesca Chaouqui a Firenze, il 28 dicembre 2014, «quando ci siamo congiunti carnalmente ».
Il prelato ha iniziato a raccontare come in Vaticano questo fatto – i rapporti di alti religiosi con le donne – sia un problema serio.
Vallejo Balda ha messo a verbale come la sponsor in Vaticano di Francesca Chaouqui, che poi entrerà , unica donna, nella commissione di indagine sulle economie vaticane, la Cosea, sia stata la contessa Marisa Pinto Olori dal Poggio, oggi 76 anni,un pezzo importante dell’aristocrazia nera e cattolica romana.
La signora è tutt’oggi la presidente dei Messaggeri di pace in Italia, fondazione che ha riferimenti in tutto il mondo.
La contessa – rivela Balda – «da trent’anni è in rapporti stretti e affettuosi» con il cardinale Jean-Louis Pierre Tauran, lui 72 anni, oggi nella commissione di vigilanza dello Ior e lo scorso dicembre nominato dal papa camerlengo di Santa Romana chiesa. «La contessa Pinto lo teneva al guinzaglio come un cagnolino », ha raccontato ai pm vaticani, «ricordo quando lei mi disse: “Lo invito a un thè mezz’ora e lo strizzo come un limone”».
Alla contessa, Tauran non sapeva dire di no. «È stato il cardinale a convocarmi per segnalare la giovane Chaouqui, mi ha dato lui le buone referenze».
In un altro passaggio del memoriale Balda ha evidenziato come la contessa Pinto avesse avuto, «a lungo», rapporti confidenziali con il cardinale Giovanni Battista Re, punto di riferimento del clero conservatore.
«Molti cadono, come sono caduto io, in tentazione, e il rischio ricatto in Vaticano è diventato estremo».
Negli anni in cui era segretario della commissione Cosea monsignor Balda vedeva spesso il Papa. Ora, che non ha più possibilità di avvicinarsi a Santa Marta, vuole far arrivare queste informazioni a Francesco attraverso la gendarmeria.
«Quando il Papa mi ha messo nella commissione, i miei nemici» – e Balda indica sempre il cardinale Pell, il presidente dello Ior de Franssu, il finanziere maltese Zahara – «hanno cercato subito i miei punti deboli e, alla fine, mi hanno messo a fianco la Chaouqui».
Tra l’altro, di fronte alle considerazioni sulla sua omosessualità fatte ieri dall’ex collaboratrice Francesca Chaouqui, Balda ha voluto far sapere: «A me piacciono le donne e di Francesca mi ero innamorato. Oggi me ne pento profondamente».
Il processo, ieri alla seconda udienza, è slittato al 7 dicembre, vigilia dell’apertura del Giubileo, per consentire proprio alla Chaouqui – la richiesta è del suo avvocato – di preparare la difesa.
Il processo vaticano così, a sorpresa, entrerà dentro l’Anno Santo: il dibattimento procederà infatti nei primi giorni della festa cattolica. Le date che si dilatano offrono, finalmente, una possibilità di difesa per i cinque imputati accusati di divulgazione di notizie segrete, tra loro i giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi.
La pierre Francesca Chaouqui ora è indagata anche dalla Procura di Roma, insieme al marito Corrado Lanino, per la compravendita del castello di Narni da parte del vescovo Vincenzo Paglia.
I reati sono estorsione e intrusione informatica (in Vaticano). La Chaouqui dice: «Ho fatto molte telefonate a Paglia, ma solo per organizzare eventi di beneficenza ».
Corrado Zunino
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
CHI HA CONCORSO AD ARMARE LE FORMAZIONI TERRORISTICHE IN SIRIA
Nella lotta all’Isis tutto sembra chiaro: da una parte la civiltà moderna, dall’altra il terrore oscurantista. Nessuna via di mezzo.
Ma è veramente così? Per esempio ci si può fidare fino in fondo delle intenzioni di Turchia e Qatar?
E non è che gli stessi Stati Uniti abbiano in qualche modo concorso ad armare formazioni terroristiche in Siria?
Per ora nessuno si azzarda a fare queste domande ad alta voce. Ma i dubbi circolano. E per buone ragioni.
Da un’inchiesta del Sole 24 Ore risulta infatti evidente che Turchia e Qatar non solo hanno interessi in contrasto con chi vuole sconfiggere il terrorismo islamista, ma hanno probabilmente armato formazioni estremiste associate a quel terrorismo.
Sono inoltre emersi indizi che portano a pensare che anche gli Stati Uniti possano aver agevolato spedizioni di armi a militanti islamisti in Siria, la terra del Califfato
Da anni Washington teme che Ankara e Doha diano armi a formazioni islamiste sia in Libia sia in Siria. Ma a far pensare che gli stessi Stati Uniti li abbiano aiutati a farlo è una serie di voli di aerei da trasporto militare denunciata dal New York Times e oggetto di un’inchiesta dell’Onu.
Il sospetto che quegli aerei trasportassero armi non è finora stato suffragato da prove concrete, ma alcuni dati sono stati accertati.
Si sa per esempio che i C-17 utilizzati per la spedizione erano qatarini, che i destinatari dei carichi trasportati erano turchi e che a fornire pianificazione e logistica per quei voli sono stati degli americani.
Ma non americani qualsiasi, bensì funzionari di una società che tempo fa è stata chiamata dai media statunitensi «l’agente di viaggio della Cia».
La qual cosa porta ovviamente a dedurre che il carico di quegli aerei non consistesse in beni umanitari.
Per capire la fondatezza di questo scenario occorre conoscere meglio il ruolo, o i ruoli giocati da Ankara e Doha.
Formalmente Turchia e Qatar stanno dalla parte nostra. La prima è uno storico partner commerciale, il secondo investe da tempo un fiume di petrodollari negli Usa e in Europa, Italia inclusa. Ed entrambi continuano a consentire quello che nessun altro Paese musulmano consente: l’uso del proprio territorio alle forze armate occidentali. Della Nato per quel che riguarda la Turchia, degli Stati Uniti e Gran Bretagna per il Qatar.
Nella lotta al terrorismo Turchia e Qatar non sono però semplicemente negligenti. Hanno interessi opposti a quelli del mondo occidentale.
E lo stanno dimostrando concretamente in tre dei grandi punti caldi del momento: Israele-Gaza-West Bank, Libia e Siria.
Il tutto sotto gli occhi preoccupati ma anche accondiscendenti dell’intelligence americana. E qui è inquietante il parallelo con al Qaeda, l’organizzazione creata da alcuni dei militanti islamici che Washington aveva aiutato nel combattere l’invasore sovietico in Afghanistan negli anni ’80
Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo «il più basso della regione». Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen ha chiamato il Qatar «permissivo» in materia di finanziamento al terrorismo.
Nell’elenco dei «agevolatori finanziari del terrorismo» redatto dal dipartimento del Tesoro si trovano ben 16 qatarini, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar.
Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce «un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari».
E poi c’è Hamas, la formazione palestinese che Usa e Unione europea hanno incluso nell’elenco dei gruppi terroristici.
Nel 1999, quando il vertice di Hamas fu espulso da Amman su ordine del re giordano, il suo leader supremo, Khaled Meshaal, salì a bordo di un jet dell’Aeronautica militare del Qatar diretto a Doha, dove ha risieduto fino al 2001, quando si è trasferito a Damasco.
Nel 2012, subito prima che Hamas decidesse di schierarsi con i ribelli sunniti insorti contro Assad, Meshaal è tornato a Doha.
E nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdogan.
A dirigere la sede di Istanbul è Saleh al-Aruri, uno dei fondatori dell’ala militare dell’organizzazione palestinese.
Secondo i servizi di sicurezza israeliani, da Istanbul, al-Aruri avrebbe coordinato il rapimento e l’omicidio di tre giovani ebrei, pianificato la defenestrazione del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen e organizzato un piano terroristico che prevedeva un attacco allo stadio di Gerusalemme.
Veniamo a un altro punto caldo del momento, la Libia.
Nel rapporto consegnato nel marzo del 2013 al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dal cosiddetto “Gruppo di esperti” si legge che il Qatar ha giocato «un ruolo fondamentale» nelle forniture di materiale bellico — armi e munizioni — alle forze ribelli libiche.
E che nonostante le smentite delle autorità qatarine, «il Qatar ha violato l’embargo sui materiali militari».
La Turchia non sembra essere stata da meno, e secondo alcuni ha continuato ad armare le forze islamiste di Tripoli fino all’inizio di quest’anno. «La Turchia sta continuando a esportare armi in Libia», ha denunciato nel febbraio scorso Abdullah al-Thinni, allora primo ministro del Governo di Tobruk, quello riconosciuto a livello internazionale.
Il mese prima era stato il presidente del Parlamento di Tobruk a sostenere che «la Turchia ancora supporta le milizie terroristiche in Libia».
Non è facile stabilire se dalla Turchia continuino ad arrivare armi in Libia in violazione dell’embargo previsto dalla Risoluzione 1970, approvata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il 26 febbraio 2011. Ci sono però evidenze che siano state spedite tra il 2013 e la fine del 2014.
In un suo rapporto il Gruppo di esperti dell’Onu ha confermato che il 20 febbraio 2013 armi e munizioni sono state trovate dalla polizia doganale greca a bordo di una nave proveniente dalla Turchia, diretta in Libia e appartenente a un armatore siriano condannato per traffico d’armi.
Così come ha confermato che a bordo del mercantile Nour M, diretto a Tripoli e perquisito dai doganieri greci nel novembre del 2013, sono stati trovati 55 container con 1.103 tonnellate di munizioni dirette a Tripoli.
Dalla documentazione sequestrata in quell’occasione è emerso che il cargo proveniva dalla Ukrinmash, società di armamenti ucraina e che a fare da broker era stata la Tss Silah, una società turca che in una nota interna resa pubblica da Wikileaks il Dipartimento di Stato definisce «broker di armi turco».
Il Gruppo di esperti ha inoltre riportato al Consiglio di Sicurezza di aver ricevuto informazioni riguardanti il trasporto di materiale militare su un Airbus A320 della linea aerea libica Afriqiyah che il 17 settembre 2014 è volato da Istanbul a Tripoli: «Il Gruppo ha intervistato un passeggero di quel volo che ha confermato di aver visto casse di materiale militare scaricate dall’aereo.
Un tipico Airbus A320 può accomodare 150 passeggeri ma il testimone ha spiegato che solo 15 bagagli sono stati scaricati e quando i passeggeri si sono lamentati perchè i loro bagagli erano stati lasciati a Istanbul, i miliziani hanno ordinato loro di lasciare l’aeroporto».
Ancora più recente la segnalazione riguardante un volo operato da un’altra linea aerea libica che il 13 novembre 2014 da Istanbul è arrivato a Misurata e che gli esperti sospettano abbia trasportato materiale militare.
In uno dei suoi rapporti il Gruppo di esperti dell’Onu ha insinuato che la Turchia ha doppiamente violato la Risoluzione 1970 del Consiglio di Sicurezza, la quale vieta sia l’importazione di armi in Libia sia l’esportazione dalla Libia.
«A detta di fonti attendibili, dalla Libia sono state trasportate armi in Siria con voli decollati dall’aeroporto Mitiga di Tripoli o da quello di Benina a Bengasi e atterrati ad Ankara o Antakya e con navi approdate a Mersin e Iskenderun.
Da lì il materiale sarebbe stato trasferito su camion che avrebbero attraversato la frontiera con la Siria a Reyhanli e Kilis. Membri dell’opposizione siriana e combattenti libici reduci della Siria ascoltati dal Gruppo hanno detto che a supervisionare il trasferimento e la consegna delle armi a elementi dell’opposizione siriana sono stati funzionari turchi».
Agli esperti dell’Onu il Governo di Ankara ha negato «di essere a conoscenza di trasferimenti di armi dalla Libia alla Turchia».
Ma la vicenda del peschereccio libico al-Entisar smentisce la smentita.
Nel settembre del 2012 il New York Times aveva riportato che quel peschereccio era salpato da Bengasi e aveva trasportato un carico di armi a Iskenderun, sulla costa meridionale turca, poco a nord del confine con la Siria.
Il Gruppo ha chiesto dettagli alle autorità turche e si è sentito rispondere che «trattandosi di beni umanitari, non è stata condotta alcuna ispezione del carico».
Ma pochi mesi dopo, il 21 aprile 2013, lo stesso peschereccio è arrivato nel porto di Istanbul con un carico diretto in Libia che di umanitario non aveva proprio nulla. Come si legge nel rapporto degli esperti Onu, il cosiddetto “manifesto di carico” includeva infatti «due maschere antigas, 199 pistole da 7,65 millimetri, 214 pistole da 9 millimetri, 1.000 fucili a pompa, 5.000 munizioni da 7,65 mm e 251mila cartucce per fucili».
Chi abbia orchestrato quella spedizione non è stato mai stabilito.
Il sospetto è che sia stato il Mit, il servizio di intelligence di Ankara che secondo il quotidiano di opposizione Cumhuriyet sarebbe responsabile di un convoglio di camion casualmente intercettato dalla polizia al confine con la Siria nel gennaio del 2014 con un carico di casse piene di armi e munizioni.
Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet Can Dundar e il capo della redazione di Ankara Erdem Gul sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul.
A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdogan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero «pagato un duro prezzo» e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero stati beni umanitari, come Ankara ha sostenuto con poca convinzione, quelle accuse non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo.
Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada della Jihad”, la rotta che il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha per anni usato per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara.
Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatarine in Libia e Siria siano passate inosservate agli americani. Al contrario, ci sono elementi tangibili che portano a sospettare che Washington le abbia assecondate.
Dopo aver scritto di una direttiva presidenziale segreta di Barack Obama che agli inizi del 2011 autorizzava la Cia ad armare i ribelli anti-Gheddafi, il New York Times ha rivelato che, «poche settimane dopo aver patrocinato l’invio di armi dal Qatar in Libia nella primavera del 2011, la Casa Bianca ha cominciato a ricevere informazioni che quelle armi stavano andando a militanti islamisti».
Nello stesso articolo si diceva che in Siria le cose erano o meno andate nello stesso modo: «Quando il Qatar ha cominciato a inviare aiuti militari a gruppi dell’opposizione siriana, l’amministrazione Obama non ha fatto obiezioni. Ma adesso ci sono crescenti preoccupazioni che, come in Libia, i qatarini stiano equipaggiando i combattenti “sbagliati”».
Queste preoccupazioni non sembrano aver spinto gli americani ad attivarsi per contrastare i traffici di armi dalla Libia alla Siria. Semmai è vero il contrario.
A farlo pensare è un episodio particolare in cui il possibile trasferimento di materiale militare ha una triplice impronta: qatarina, turca e americana. Ci riferiamo a una serie di voli di C-17, aerei da trasporto militare del Qatar denunciata il 21 marzo 2013 sempre dal New York Times.
I soliti esperti dell’Onu hanno indagato anche su questo.
Dopo aver ottenuto i piani di volo dei C-17 volati dalla Libia in Qatar, gli esperti hanno appurato che Doha non era la loro destinazione finale. «I dati dei voli in questione indicano che in ogni singola occasione, dopo essere atterrati a Doha, i C-17 sono ripartiti per Ankara», si legge nel rapporto.
Quest’ultima rotta è risultata in verità trafficatissima: «Tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2013, l’Aeronautica militare del Qatar ha operato 28 voli tra Doha e Ankara e uno tra Doha e Gaziantep, un aeroporto turco nei pressi del confine con la Siria», scrivono gli esperti.
Il Gruppo ha inoltre scoperto che ai voli da Tripoli e Bengasi a Doha era stato concesso uno speciale nullaosta diplomatico-militare, solitamente utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico.
Poichè, come si legge nel rapporto, «per ottenere il numero di nullaosta diplomatico-militare il richiedente deve generalmente fornire dettagli precisi sulla natura dei voli e sul carico trasportato», gli esperti hanno chiesto chiarimenti e dettagli alle autorità di tre Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa – Grecia, Egitto e Arabia Saudita – e alla società responsabile dei piani di volo.
Ma con scarsi risultati. «La Grecia ha risposto di non aver traccia di alcuna richiesta o concessione di nullaosta diplomatico-militare per quei voli, comunicando però che il 14 e 15 gennaio un aereo della Aeronautica militare qatarina è volato ai margini dello spazio aereo greco», si legge nel rapporto.
«L’Egitto ha risposto che il Qatar ha richiesto un numero di nullaosta diplomatico-militare al fine di procedere alla rotazione del personale di guardia dell’ambasciata qatarina a Tripoli. L’Arabia Saudita non ha risposto».
Più reticente di tutti è risultata la società responsabile dei piani di volo. Gli esperti hanno chiesto i dettagli sui nullaosta diplomatici per i voli in questione, i manifesti di carico e l’elenco di tutti i voli operati dall’Aeronautica militare qatarina da e verso la Libia a partire dal luglio 2012.
Ma non hanno ricevuto risposta su nulla. «La società ha detto di non aver partecipato alle procedure per l’ottenimento dei nullaosta e di non conoscere il carico di quei voli. Nè ha fornito l’elenco dei voli richiesti dal Gruppo», hanno scritto gli esperti.
Che dei C-17 probabilmente carichi di armi potessero passare inosservati agli americani è di per sè improbabile. Ma a renderlo ancora più improbabile è la tappa intermedia fatta da quegli aerei da trasporto.
La base di Al Udeid è infatti il cosiddetto “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze armate americane, il Central Command, e oltre a ospitare il 379° Stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° Stormo della Raf, l’Aeronautica britannica. Insomma, è una base anglo-americana quasi più che qatarina.
A far pensare che Washington non solo sapesse di quei voli e del loro carico ma li avesse assistiti, è un dettaglio notato dal Sole 24 Ore: la società responsabile della pianificazione dei voli di quei C-17 era la Jeppesen.
Non è una società qualsiasi, bensì la controllata di Boeing, un colosso industriale che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, scelta dalla Cia per una delle delicate operazioni degli ultimi 15 anni: la campagna di extraordinary rendition, cioè la cattura extragiudiziaria di soggetti che dopo la strage dell’11 settembre erano sospettati di rapporti con al Qaeda.
Come emerso da un’inchiesta del Sole 24 Ore sulla rendition di Kessim Britel, un italiano di origine marocchina, a occuparsi della preparazione ed esecuzione dei piani di volo del jet privato usato per trasferirlo segretamente in un carcere del Marocco era infatti stata proprio la Jeppesen.
Contattata dal Sole 24 Ore, la sussidiaria della Boeing non ha voluto nè smentire nè confermare di aver dato supporto logistico a quei voli, mentre la Cia ci ha detto di «non poter fare commenti».
Il fatto rimane che a fornire assistenza a quei C-17 qatarini è stata una società nota come “l’agente di viaggio della Cia”.
Claudio Gatti
(da “il Sole24Ore”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
IL PIU’ GRANDE ESERCITO DEL MONDO E’ PRIVATO E HA 620.000 DIPENDENTI… LA GESTIONE DELLE CRISI E’ ESTERNALIZZATA E PRODUCE AFFARI MILIARDARI
C’è chi sostiene che gli eserciti più grandi al mondo non siano quelli degli Stati ma quelli privati. A giudicare dai numeri del colosso del settore, la G4S, l’affermazione è fondata: 6,8 miliardi il fatturato annuo, 620 mila i dipendenti globali.
Nella propria presentazione, l’azienda inglese si descrive come il “principale gruppo di sicurezza integrata, specializzato nella fornitura di prodotti per la sicurezza, servizi e soluzioni”.
Sicurezza a tutto campo, quindi: da quella interna al paese, fino a quella, molto redditizia, all’esterno, dove la difesa viene “esternalizzata” in settori in cui la sicurezza e il rischio sono considerati una minaccia strategica.
La liberalizzazione del mercato della guerra risale al tempo di Bush jr. e ha avuto il suo punto di svolta con la guerra in Iraq, nel 2003.
Non è un caso se proprio in quella occasione vennero a galla i primi contractors italiani con la morte di Fabrizio Quattrocchi. La crescita della “minaccia esterna” da un lato, la volontà di ridurre l’esposizione al rischio dei propri militari, peraltro ridotti progressivamente, ha comportato lo sviluppo dell’outsourcing come si chiama l’esternalizzazione dei servizi.
L’11 settembre negli Usa e, presumibilmente, il 13 novembre francese, hanno già prodotto un incremento della privatizzazione della sicurezza.
Laura Dickinson, dell’università dell’Arizona, l’ha definita, nel suo Outsourcing War and Peace, “la privatizzazione della politica estera americana”.
Secondo quanto riporta Bruno Ballardini nel suo Il Marketing dell’Apocalisse, nel 2013, in Afghanistan, il 62% delle forze impiegate erano già contractors privati.
Dal 2001 in poi la cifra impiegata per contratti con forze di sicurezza private ruota attorno ai 200 miliardi di dollari l’anno.
Le prime dieci società al mondo cumulano tra i 30 e i 40 miliardi di fatturato annui. Dentro ci sono le attività di sicurezza interne — guardie private — quelle relative alle attività di imprese in paesi rischiosi — piantagioni agricole in Sudamerica, oleodotti in Medioriente — le scorte e le attività militari o di intelligence.
Tutte voci che fruiscono del clima internazionale.
“Studi indipendenti” si legge nel bilancio 2014 della G4S, “indicano che la domanda globale di sicurezza è prevista in una crescita del 7% annuo dal 2013 al 2023 quando raggiungerà la cifra di 210 miliardi”. Risorse che hanno permesso di costituire, come scrive Ballardini, “eserciti addestratissimi, virtualmente di stanza in tutto il mondo a disposizione di governo riluttanti a impegnare le proprie truppe”.
Ancora la G4S,, impiega il grosso dei suoi 620 mila dipendenti in Asia (264 mila) mentre 125 mila sono stanziati in Africa.
Poi ci sono i 57 mila che lavorano negli Usa e i 64 mila nella Ue, mentre solo 37 mila sono collocati nel Regno unito. Il 25% del fatturato è generato dai servizi ai “governi” mentre solo il 5% viene direttamente dai “consumatori”.
La quota principale, il 29%, proviene dai servizi alle grandi multinazionali e alle compagnie private, mercato anch’esso in rapida evoluzione soprattutto quando si tratta di sedi collocate in paesi a rischio.
Recentemente la multinazionale inglese ha vinto un contratto da 100 milioni di sterline (140 milioni di euro) per proteggere i militari del British Foreign e Commonwealth Office in Afghanistan e assicurare un giacimento di gas in Iraq.
Il contratto è il secondo di grande rilievo nel corso del 2015 dopo la gestione della sicurezza per il centro di detenzione per minori di Kent, in Gran Bretagna, dall’importo di 50 milioni di sterline.
La gestione delle carceri e il suo intreccio con le politiche dei vari governi è così complessa da aver prodotto una vicenda emblematica.
Il Labour Party di Jeremy Corbin, ad esempio, ha appena deciso che non utilizzerà più i servizi di sicurezza della G4S per le sue conferenze.
La decisione, presa a maggioranza, giunge dopo le proteste della Palestine Solidarity Campaign sull’impiego di personale G4S nelle prigioni israeliane.
Un boicottaggio analogo si è verificato lo scorso aprile in Sud Africa dove 20 compagnie private avevano messo fine ai servizi della G4S proprio per i suoi rapporti con la gestione delle prigioni di Tel Aviv.
Al di là del merito, la vicenda ha messo in evidenza l’intreccio di legami e di interessi delle compagnie private di sicurezza. Tali da poter essere considerate alla stregua di una entità politica.
Quanto avvenuto alla più nota compagnia di mercenari, la Blackwater, è altrettanto indicativo. Fondata da Erik Prince nel 1997 diventa la società privata di riferimento della guerra in Iraq. L’uccisione di suoi 4 contractors a Falluja, nel 2004, è il pretesto per scatenare una violenta offensiva statunitense.
Fino al 2007, quando è la Blackwater a uccidere 17 iracheni, di cui molti civili, e a scatenare una dura polemica che sfocerà anche in un dibattito al Congresso.
I contratti vengono rivisti così come le regole di ingaggio da parte del governo Usa. La Blackwater cambia nome, si fonde e si scompone fino ad assumere la denominazione di Academi.
Erik Prince ha venduto le sue quote ma secondo il New York Times è suo il piano con il quale gli Emirati Arabi Uniti hanno ingaggiato militari mercenari per andare a combattere in Yemen.
Secondo il quotidiano statunitense “gli Emirati arabi inviano segretamente mercenari colombiani per combattere in Yemen”. Sarebbe, sempre secondo il NyT, il primo dispiegamento di forze straniere da parte degli Emirati e l’utilizzo di soldati latinoamericani aiuta a comprendere l’ampiezza internazionale del mercato dei mercenari.
Secondo il giornale newyorchese, inoltre, ci sarebbero “centinaia di altri mercenari — sudanesi, eritrei — che stanno andando in Yemen”.
La vicenda Academi si interseca al comparto, misterioso per definizione, dei servizi segreti privati. Il progetto di Bush jr di istituire un’unità segreta con il compito di uccidere i membri di al-Qaeda fu affidato proprio alla Blackwater che otteneva l’appalto di una missione di killeraggio di Stato.
A parlarne ufficialmente fu, nel 2009, l’ex direttore della Cia Leon Panetta nel corso dell’amministrazione Obama.
La vicenda sembrò mettere la parola fine all’ipotesi di servizi segreti privati che, invece, da allora, si sono moltiplicati.
La lista delle altre sigle che “affollano questo nuovo ricchissimo mercato” la produce ancora Ballardino: “In testa ci sono le agenzie statunitense come Gk Sierra, Kroll Inc, Smith Brandon International Inc., Stratfor, Booz Allen Hamilton, Pinkerton National Detective Agency, poi le inglesi Aegis, Control Risks Group, Hakluyt&Company, e infine la francese Geos e la spagnola Aics”.
Il mercato, anche in questo caso, è globale.
Salvatore Cannavò
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2015 Riccardo Fucile
BOCCIATI PITRUZZELLA, SISTO E BARBERA… SI VA VERSO SEDUTE A OLTRANZA
Ventisette fumate nere dopo, il Parlamento riprova ad eleggere i tre giudici che mancano alla Corte costituzionale e fallisce ancora una volta.
Proprio come una settimana fa, la maggioranza (Pd-Ap) e Forza Italia si è presentata con la solita terna “politica” già bocciata dall’Aula. Augusto Barbera, Giovanni Pitruzzella e Francesco Paolo Sisto sono i candidati che l’assemblea ha bloccato per la seconda volta.
Il quorum necessario era di 571 voti, ma i tre si sono fermati rispettivamente a 545, 470 e 527.
Il deputato di Conservatori e riformisti Rocco Palese ha annunciato che è stata inviata una petizione ai presidenti di Camera e Senato perchè ci siano sedute a oltranza: “Mi vergogno ad uscire fuori e dire che non riusciamo ad eleggere i giudici”, ha commentato in Transatlantico.
Il capogruppo Pd Ettore Rosato intanto ha annunciato che i democratici andranno avanti con il nome di Barbera: “E’ a un passo dal quorum. Vediamo cosa dicono gli altri, ma per noi si può andare avanti con questo schema. Del resto siamo sì alle 28esima votazione ma solo alla seconda con questi tre nomi”.
A cambiare le carte in tavola questa volta avrebbe potuto essere la Lega Nord che in un primo momento sembrava tentata di sostenere i nomi dell’accordo.
I parlamentari del Carroccio Fedriga e Calderoli però hanno subito smentito: “Nessuna intesa, ognuno vota liberamente”.
“Se lo fanno è un inciucio”, aveva commentato nel primo pomeriggio il deputato M5S Danilo Toninelli.
“Ciò che fa più schifo è che a comportarsi così è un partito il cui leader va nelle piazze ad inveire contro il governo. Quindi se oggi passerà anche uno solo della terna frutto dell’inciucio Pd-Fi significa che al tavolo della spartizione si è seduto anche Salvini. Ditelo in giro a chi vede in questo partito qualcosa di diverso”.
I 5 Stelle hanno contestato le tre scelte e hanno continuato a sostenere il loro nome Franco Modugno.
E’ circa un anno e mezzo che il Parlamento continua a fallire nell’occuparsi delle tre poltrone vacanti, tanto da essersi guadagnato i rimproveri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato Laura Boldrini e Pietro Grasso.
La settimana scorsa l’accordo maggioranza-centristi-Fi sui nomi si è sfilacciato e alla prova dell’urna nessuno dei tre candidati ha raggiunto il quorum necessario di 571 voti.
Questa mattina, sia il Pd che Fi (il presidente del partito Silvio Berlusconi ha fatto inviare un sms a tutti i parlamentari azzurri, affinchè siano presenti in aula), hanno confermato la scelta.
I prescelti sono tutti molto vicini al mondo della politica e tutti e tre, come fatto notare dal Corriere della Sera, hanno in passato più o meno esplicitamente espresso la loro opinione positiva sull’Italicum.
Questo non è un dettaglio: presumibilmente entro la fine dell’anno la Corte costituzionale dovrà esprimere il suo parere preventivo sulla nuova legge elettorale. Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia e avvocato di Berlusconi, è stato presidente della commissione Affari costituzionali e relatore del ddl Riforme.
Scelta civica sostiene invece Giovanni Pitruzzella: presidente dell’Antitrust ed ex collaboratore di Totò Cuffaro, nei giorni scorsi il gip di Catania ha chiesto che sia indagato per corruzione in atti giudiziari.
Il Pd infine sponsorizza Augusto Barbera, professore ed ex membro della commissione dei saggi voluta da Letta per le riforme costituzionali.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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