Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
ALTRA ACCELLERATA DI RENZI: TENTA SOLO DI RECUPERARE EMILIANO (“GLI ALTRI NON CONTANO NULLA”) E PUNTA AD ELEZIONI A GIUGNO PER AVERE UN GRUPPO DI 120 DEPUTATI FEDELISSIMI
La scissione tra il “pianeta Renzi” e il pianeta della sinistra riunita a Testaccio pare inevitabile. A meno di un miracolo.
L’ultima offerta, più che una apertura di trattativa, è la preparazione della rottura. Affidata, dopo un giro di telefonate con Renzi, al presidente del Pd Matteo Orfini. L’offerta consiste in una “profonda discussione programmatica”, poi il congresso, da svolgere prima delle amministrative di giugno:
“Come potremmo andare avanti — scrive Orfini – in questa condizione di perenne divisione interna? Come affronteremmo le amministrative?”. Dunque, maggio per il congresso, preceduto dalla conferenza programmatica invocata da Orlando, Martina, Fassino come luogo per approfondire quei nodi sollevati dalla sinistra.
Una mossa che mette in conto uno scontato no, viste le richieste della sinistra.
Ed è di fronte al no del congresso il 7 maggio, che nella war room del premier, circola anche un piano, azzardato, che prevede un’accelerazione: primarie già il 9 aprile, quando mancano quindici giorni alla chiusura della finestra elettorale che porta al voto a giugno.
Con la sinistra fuori nulla è impossibile. Nei panni del “falco”, l’ex premier sceglie di non aprire nessuna trattativa vera su nessuna delle richieste della sinistra: nè sulla durata del governo, nè sulla svolta nelle sue politiche, nè appunto il congresso.
Fa una telefonata a Roberto Speranza, affida il post a Orfini, dà mandato ai suoi blandire Emiliano e i parlamentari a lui vicini, ma senza mai mettere in discussione ciò che gli sta più a cuore, ovvero le “mani libere” sul governo.
Lo dice, apertamente, Lorenzo Guerini: “Teniamo fuori il governo dal congresso”. Lo ripete coi suoi l’ex premier che ha già messo in conto la rottura con la sinistra: “Sa bene che tornare a palazzo Chigi è complicato — dice una fonte informata — ma punta a un gruppo parlamentare con 120 fedelissimi”.
La rottura matura in un clima tensione e insofferenza. Politica. Antropologica. Montata dopo l’assemblea mattutina della sinistra.
Raccontano che l’ex premier è una furia: “Basta ricatti sul congresso”. Coi suoi parla di malafede dei tre partecipanti.
Evoca le “carte bollate” di cui parlava Emiliano, che “ora non vuole il congresso” le petizioni online di Rossi per avere il congresso.
Fa partire una raffica di dichiaratori contro i toni dell’assemblea di Testaccio. Anche se continua a far “corteggiare” Emiliano, nella speranza di staccarlo da Bersani e D’Alema, nonostante le parole del governatore della Puglia siano state le più dure, sull’“arroganza” e su quelli attorno al “capezzale” di Renzi: “La scissione della Ditta senza Emiliano — dice una fonte molto vicina all’ex premier – è poca cosa, Michele è uno che funziona mediaticamente, lo fermano per strada, raccoglie applausi, con lui rischiamo una forza del dieci”.
Per tutto il giorno vengono sondati i parlamentari vicini a Emiliano: “Ma se vi diamo luglio e proviamo a convincere Renzi su luglio?”.
L’ex premier non pare proprio avere intenzione di cedere, soprattutto ora che la questione si presenta come una prova di forza. E solo un miracolo può evitare, dieci anni dopo il Lingotto, la rottura del Pd.
La dinamica politica in atto è inarrestabile. Quella foto sul palco di Testaccio rende molto complicato che uno si possa smarcare.
Nel giro di contatti serali a sinistra si ragiona di come gestire l’assemblea di domani. Il documento, di cui ha parlato l’HuffPost, è pronto.
Ascoltata la relazione di Renzi si valuterà : se la chiusura è totale, non sarà nemmeno presentato; non parlerà nessuno dei “tre tenori”, e la sinistra lascerà la sala e, con essa, il Pd.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
GUERINI: “ULTIMATUM IRRICEVIBILI”
Se i tre moschettieri della minoranza (Rossi-Emiliano-Speranza) invocano “O svolta o addio” la
riposta dei renziani alla minoranza Pd riunita questa mattina non si è fatta attendere a lungo.
Liquidati alla svelta, come potrebbe accadere domani nel congresso.
“Mai visto tanto odio per il segretario Renzi, neanche a Pontida o in un meetup cinque stelle, dai 101 del Capranica ai 121 del Vittoria” scrive su Twitter il deputato del Pd e renziano Ernesto Carbone.
“Questa mattina toni e parole che nulla hanno anche fare con una comunità che si confronta e discute. Gli ultimatum non sono ricevibili” conferma il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini che sempre attraverso un tweet commenta le parole degli esponenti della minoranza dem.
“Amarezza per toni minoranza Pd. A mano tesa del segretario solo insulti e intolleranza. La scissione è il loro progetto….dietro a D’Alema” è invece il pensiero di David Ermini, sempre affidato ai social, in cui punta il dito contro l’ex segretario Pd (D’Alema oggi ha affermato: “Scissione? Non è colpa mia”, ndr).
Contro l’ex leader del centrosinistra anche il senatore Andrea Marcucci. “D’Alema ha già scelto la scissione radunando i suoi. Gli altri seguiranno? Sta a voi Emiliano, Rossi, Speranza, decidere”
“Dolore, rabbia, incredulità . Questo suscitano gli interventi a Roma di Emiliano, Speranza e Rossi. Continuano con la logica dell’ultimatum e del diktat” scrive in un post su facebook il segretario Pd della Toscana Dario Parrini, che è anche deputato Dem.
“Sembra averli abbandonati il cuore. Sembra averli abbandonati la ragione. Sembra averli abbandonati il senso di responsabilità . Noi, fino all’ultimo, cercheremo di avere cuore, testa e responsabilità anche per loro”, aggiunge Parrini.
“Non ho mai risparmiato critiche a Renzi. Ma quello sentito oggi da palco rivoluzione socialista è inaccettabile e ingiusto perchè non vero”. Così Matteo Richettisi aggiunge al coro su twitter.
“Fermi dal 4/12. Nel nostro immobilismo tattico siamo incomprensibili per chi ci guarda da fuori. Sicuri che la parola giusta sia fermiamoci?” è infine il commento della deputata Pd Anna Ascani.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
AL NETTO DEI RITUALI DI ATTRIBUIRE ALL’ALTRO LA ROTTURA, ORMAI LA DISTANZA CON RENZI E’ ANTROPOLOGICA… DOMANI LA PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTO: “LO BOCCERANNO E USCIAMO”
C’è vita sul pianeta sinistra. Le immagini di Guerre stellari, dietro il palco, mostrano un’astronave e Yoda, simbolo della saggezza di un mondo lontano: “Devi sentire la forza intorno a te”.
Sul palco Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità e presentatore della kermesse, spiega: “Quell’astronave è la sinistra, dobbiamo tirarla fuori”.
Poco prima, sulle note di Bandiera rossa, versione riadattata (“evviva il socialismo e la libertà ”) aveva così salutato i presenti: “Spero che questo canto vi aiuti a togliere le rughe dal cuore”.
Teatro Vittoria a Testaccio, core di Roma: la scissione, nella sua sostanza politica, è irreversibile, prima che si consumino gli ultimi rituali.
L’ultimo prevede la presentazione di un documento all’assemblea di domenica, in cui saranno messi nero su bianco i punti della “svolta”, stra-ripetuti in questi giorni, rifiutata la quale “l’inizio di una nuova storia” è inevitabile: 1) l’impegno a far durare il governo fino al 2018; 2) l’impegno del governo a una inversione di rotta su scuola e lavoro 3) congresso a scadenza naturale, ovvero ottobre.
In serata sarà messo a punto da Speranza, Rossi e Emiliano. E sarà chiesto di metterlo ai voti all’assemblea di domani: “Lo bocceranno e a quel punto usciamo” spiegano fonti informate.
Al netto del rituale, conta il cuore, che è già oltre l’ostacolo. E oltre il Pd.
Il Vittoria è un catino, nient’affatto nostalgico, molto di sinistra.
Enrico Rossi parla di “inquietudine verso il presente”, di “riforma del capitalismo”, di “sfruttamento del lavoro”, “Abbiamo accettato troppo supinamente il mondo così com’è”: “Se hai troppa vicinanza coi potenti, se esalti Marchionne, non meravigliarti se i precari ti sentono distante”.
Fortiter in re, suaviter in modo, toni moderati, sostanza tosta, come insegnavano i partiti di una volta, senza effetti speciali, e senza personalizzazione.
Certo toni di sinistra, che dentro il Pd non si sentono da tempo: “Abbiamo bisogno di un partito partigiano che in modo netto sta dalla parte dei lavoratori e del lavoro. Troppa contiguità coi potenti rende difficile parlare coi lavoratori”.
In prima fila ci sono Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, al suo fianco Francesco Boccia. Due file dietro Antonio Misiani e Elisa Simoni, due giovani turchi di Andrea Orlando mandati come osservatori.
Presenza che significa anche volontà di dialogo, perchè col proporzionale e due partiti è chiaro che il guardasigilli avrà un ruolo naturale di interlocutore del Pd verso la sinistra. C’è un passaggio in cui viene giù la sala.
Ed è quando Michele Emiliano, nomina Pier Luigi Bersani: “Di fronte a una situazione molto meno grave di quella in cui si trova oggi Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani si è dimesso e ha consentito al partito di superare le difficoltà . Se quel partito è sopravvissuto ed ha dato la possibilità a Renzi di diventare presidente del consiglio è perchè il suo segretario è stato capace di vincere il personalismo e di vivere la politica come comunità . Come comunità !”.
Applausi, lunghi lunghissimi. L’ex segretario si alza un po’ dalla sedia e fa un cenno a ringraziare la sala. Comunità , appunto.
Ci sono le bandiere del Pd in sala. Dirigenti, militanti, assediati da microfoni per i “pezzi di clima” raccontano che vorrebbero stare nel Pd, ma il Pd è diventato un’altra cosa.
Non è odio verso Renzi, è distanza quasi antropologica.
“Non è una scelta che facciamo a cuor leggero”, “sono momenti che fanno tremare le vene ai polsi” ripetono.
Una signora di Testaccio, una vita nel Pci: “Io domani Renzi lo aspetto fuori all’assemblea. E gli vado a dire che Bersani lo deve trattare bene perchè noi gli vogliamo bene ci vuole rispetto”.
È quello che Roberto Speranza, nel suo intervento, il più “politico” dei tre chiama il “nostro mondo”, o meglio una parte, nell’ambito di quella che chiama scissione tra un pezzo del popolo del centrosinistra e Pd.
Fa effetto sentire Speranza, che scandisce le parole come accade negli interventi solenni, parlare dell’esperienza del Pd al passato. Parla di “sinistra muta”, “incapace di leggere il nostro tempo”, di un “gruppo dirigente subalterno” che non vede che la rottura sentimentale con un popolo c’è già stata: “Se il congresso si riduce a un plebiscito-rivincita per il capo arrabbiato perchè ha perso il plebiscito vero, allora un nuovo inizio sarà scontato”.
La foto dei tre, sul palco, sancisce un punto di non ritorno.
Un fatto politico, al netto delle differenze di sfumature e di approcci, con Emiliano che appare più trattativista e gli altri meno.
In verità proprio i toni non ultimativi di tutti, assai poco ringhiosi, indicano che la rottura, nella sostanza, appare irreversibile.
Non c’è trattativa, ma, come si dice in questi casi, bisogna far ricadere la responsabilità sull’altro. “Non costringete questa comunità ad uscire” urla Emiliano dal palco, “Non rinuncio al sogno per l’arroganza di uno”.
Intanto già piovono tweet dei fedelissimi dell’ex premier che parlano di “insulti e intolleranza” nella manifestazione di Testaccio.
Ormai, due pianeti.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
WILDERS, GIA’ CONDANNATO PER INCITAMENTO ALLA DISCRIMINAZIONE, INSULTA LE MINORANZE… DA VERO EROE VIVE NASCOSTO E SI FA SCORTARE DA DECINE DI AGENTI E GUARDIE DEL CORPO… IL SUO PARTITO ACCREDITATO DEL 17% MA DESTINATO A NON GOVERNARE MAI
Con la promessa di «via la feccia marocchina» dall’Olanda, Geert Wilders ha lanciato la sua
campagna elettorale in vista delle elezioni legislative del prossimo 15 marzo in Olanda.
Il suo Partito per la libertà (Pvv), di estrema destra, è attualmente leggermente in testa ai sondaggi e punta soprattutto sull’attacco all’islam e ai migranti.
«Se volete riprendere il vostro Paese, se volete avere questo Paese di nuovo nelle vostre mani, potete votare un solo partito», ha affermato davanti ai sostenitori riuniti a Spijkenisse, piccolo centro vicino alla città portuale di Rotterdam, protetto da decine di agenti e guardie del corpo.
Quindi ha accusato gli olandesi di origine marocchina di aver provocato «l’insicurezza» nelle strade del Paese e ha promesso di porre fine all’immigrazione dai Paesi musulmani.
Tra i principali obiettivi del suo discorso anche l’Unione europea, responsabile a suo avviso di «tutti i mali» dell’Olanda, e i «partiti del sistema», che si sono «venduti a Bruxelles».
Wilders spera in un successo, sull’onda anti-establishment che ha portato alla vittoria della Brexit nel Regno Unito e di Donald Trump in Usa.
«Il popolo – ha detto in riferimento a Usa e Regno Unito – ha preso il destino nelle proprie mani”, penso che accadrà “in Olanda, Francia, Austria e Germania».
Wilders, che vive in clandestinità dall’epoca dell’omicidio del regista Theo van Gogh nel 2004, ha tra gli obiettivi proprio la comunità islamica e i richiedenti asilo.
dicembre è stato riconosciuto colpevole di insulto ai marocchini e incitamento alla discriminazione per le frasi pronunciate durante un comizio del 2014, quando spinse un gruppo di sostenitori a gridare «Meno! Meno! Meno!», riferendosi ai marocchini in Olanda.
Il Partito per la libertà guida i sondaggi con il 17% delle intenzioni di voto, davanti ai liberali del primo ministro uscente Mark Rutte, che ha cercato di colmare il gap con promesse vicine alla retorica anti-immigrazione e sta ricevendo consensi per il buon andamento dell’economia.
Anche se ottenesse il maggior numero di voti, difficilmente Wilders riuscirà a formare un governo di coalizione, poichè nessun partito vuole un’alleanza con il Pvv.
(da “La Stampa”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
DALLA MORTE DELL’IDEOLOGIA ALLA MORTE DELLA POLITICA
La grande speranza della sinistra post comunista, dalla Bolognina in poi, era che la morte dell’ideologia avrebbe reso più viva la politica. Più viva e più libera di abbracciare la realtà , di assomigliare alle persone e alla società così com’erano, di unire e di dividere non più sulla base delle differenti appartenenze, ma delle battaglie da fare.
L’attuale crisi del Pd, forse sull’orlo del suo dissolvimento, non è grave perchè mette a rischio le sorti di questo o quel gruppo dirigente, o addirittura quelle del partito stesso: i leader passano, i partiti anche, e perfino per i litigiosi eredi della grande tradizione comunista e cattolico-popolare vale il cinico ma salvifico detto “chi muore giace, chi vive si dà pace”.
La crisi del Pd è grave perchè, con tutta la buona volontà , non si riesce a leggerla in chiave di autentico scontro politico, cioè di un conflitto provocato da visioni inconciliabili della società , dell’economia, dei diritti e dei doveri, degli interessi da tutelare e di quelli da combattere.
E dunque il Pd minaccia di certificare, nella sua maniera al tempo stesso rissosa e impotente, che la grande speranza della Bolognina era in realtà una grande illusione.
Alla morte dell’ideologia ha fatto seguito, a sinistra, anche la morte della politica, almeno della politica intesa come comprensibile e appassionante tentativo di interpretare la realtà e di modificarla.
Al suo posto uno scontro di potere che riesce a stento, e forse solo per mantenere il decoro, a contenere qualche riverbero di politica vera (la disputa sui voucher? Ovvero su meno del due per cento del totale delle retribuzioni? Esiste al mondo un partito di massa disposto a spaccarsi su una questione del genere?); ma quel riverbero è così tenue da non riuscire a illuminare il clima da tragedia shakespeariana che occupa la scena, e del quale il pubblico riesce a intendere le minacce e i gemiti, non certo la sostanza drammaturgica.
È una trama che sfugge. Una trama che appartiene solo agli attori, non agli spettatori.
È una situazione – quel clima cupo, quell’astio, quel non parlarsi e “non telefonarsi” (Delrio) – che lascia di stucco i milioni di elettori che al Pd, nonostante tutto, fanno riferimento; ma quel che è peggio pare ingovernabile perfino dai suoi stessi artefici, non uno dei quali è riuscito, fin qui, a dare una spiegazione “popolare”, ovvero comprensibile al grosso dell’opinione pubblica, di quanto sta accadendo sul piano delle scelte politiche, visto che su quello del potere (Renzi sì, Renzi no) tutto è fin troppo chiaro. Stucchevolmente chiaro.
Ha ragione dunque Gianni Cuperlo, uno dei (pochi) leader che ha dato l’impressione di anteporre ai conti personali quelli con la comunità nazionale: la posta in palio è “mandare all’aria un quarto di secolo”, l’intera storia della sinistra italiana dalla Bolognina fino ad oggi, dalla data di morte della ragione ideologica sacrificata nel nome della ragione politica che avrebbe dovuto prenderne il posto.
A giudicare dall’attuale evanescenza della ragione politica, viene da immaginare la piccola vendetta postuma di chi riteneva l’ideologia la sola vera struttura portante di un partito di massa.
Resta comunque una soddisfazione di stretta minoranza. Per la grande maggioranza degli italiani interessati alle sorti di quel campo politico il problema sta diventando ben altro.
Il problema è cominciare a fare i conti – per la prima volta con una evidenza così spietata – non più con la morte dell’ideologia, ma con quella della politica.
La politica come un libro da chiudere perchè leggerlo è diventato troppo ostico e troppo diverso da quello che era stato per i padri e nonni, fonte di passione e di sacrificio, di errori magari tremendi ma quasi mai dettati da calcoli personali.
Già oggi l’enorme serbatoio dell’astensionismo trabocca di ex elettori di sinistra.
La classe dirigente del Pd e per primo – ovviamente – il segretario politico Matteo Renzi, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, mettano nel conto anche questa possibilità , molto realistica: l’insignificanza politica come prodotto della modestissima significanza delle loro lotte intestine.
Un sacrificio rituale come fu quello della Bolognina (cambiare il nome per cambiare politica) può essere spiegato e metabolizzato, compreso il prezzo di una scissione della quale nessuno potè dire: non si capisce il motivo.
La morte dei Pci fu, lei sì, un dramma storico in piena luce e a piena voce. Nessuno, a sinistra, se ne potè sentire escluso.
Che ne possa sortire, un quarto di secolo dopo, questa rissa senza una vera regia, senza un vero copione e soprattutto senza pubblico, è veramente impressionante.
La risposta al populismo è l’impopolarità ?
Michele Serra
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
POSSONO PIACERE O MENO, MA CHI PARLA DI AFRICANIZZAZIONE SI TROVI UNO PSICHIATRA, MA DI QUELLI BRAVI
First world problems: vi piacciono le palme e i banani in piazza Duomo? A Milano non si parla d’altro,
così come sulle pagine dei giornali e, figurarsi, sui social network. Ora, beninteso, gli esotici abbellimenti possono piacere oppure no. È questione di gusti personali e “dove c’è gusto non c’è perdenza”.
Ma il guaio è che, come spesso accade, dall’opinione all’opinionismo il passo è stato sin troppo breve e da almeno ventiquattro ore siamo bombardati da un dibattito surreale palma sì/palma no.
Surreale perchè dai gusti personali si è passati ad analisi strampalate che vanno alla ricerca di significati più o meno reconditi nella scelta di Starbucks (che ha vinto un bando comunale) di piantare palme e banani nel cuore di Milano.
A cominciare dall’immancabile Matteo Salvini, che in un tweet ha fatto sapere al mondo come la pensa sull’argomento: “Palme e banani in piazza Duomo? Follia. Mancano sabbia e cammelli, e i clandestini si sentiranno a casa”.
Come dire che tutti i fancazzisti come lui si trovassero bene al Leoncavallo.
I tanti seguaci di Salvini sui social si sono ovviamente scatenati, accostando la scelta di palme e banani a misteriosi intenti di propaganda filo-immigrazione.
Perchè si sa: oggi una palma, domani una moschea al posto del Duomo, dopodomani la sharia come legge unica del quadrilatero della moda.
Ma l’analisi strampalata sull’immigrazione conseguenza diretta dei palmizi o sull’africanizzazione di quella che i leghisti del web chiamano Milanabad non merita nemmeno di essere approfondita, lontana com’è non solo da un minimo di verosimiglianza ma, peggio ancora, dal buonsenso e soprattutto dalla buona fede.
Torniamo alle palme e ai banani. Sono davvero così brutti? Stridono davvero così tanto con piazza Duomo?
Poche ore dopo l’inizio della polemica sui social, l’account twitter del Comune di Milano ha pubblicato una foto di piazza Duomo di oltre un secolo fa, facendo notare come già allora ci fossero delle palme ad abbellire il cuore della città .
Anche si trattasse di una novità assoluta, la polemica suonerebbe comunque esagerata
Ma il problema vero qual è? È strumentalizzazione politica? È rigurgito no global fuori tempo massimo con una polemica usata ad hoc per contrastare Starbucks e il suo sin troppo atteso arrivo in Italia (proprio a Milano nel 2018)? Il problema, dunque, è l’estetica della palma, le scelte del sindaco Sala o il rischio Frappuccino che incombe sull’autarchico espresso?
In fondo basterebbe fare un giro in piazza Duomo per rendersi conto di persona che palme e banani hanno un senso, che sono persino gradevoli alla vista proprio perchè contrastano così nettamente con il gotico del Duomo e lo stile neorinascimentale della Galleria Vittorio Emanuele II.
E poi, anche per dare il giusto peso alle cose, trattasi di piante, di un abbellimento temporaneo, la cui presenza non è e non può essere eterna.
Non si è costruito un ecomostro all’ombra della Madonnina, non si è deturpato per sempre il decoro della piazza. Si è tentato, seguendo un progetto che ha regolarmente vinto un bando, di rendere piazza Duomo diversa, particolare, originale.
De gustibus, ovviamente, ma basta con le castronerie pseudopolitiche, con le interpretazioni mondialiste, con le letture complottarde su un fantomatico disegno diabolico filo-immigrazione.
La piega che ha preso il dibattito su palme e banani in piazza Duomo dimostra, ancora una volta, quanto provinciale può essere l’opinione pubblica italiana e quanti danni può provocare la strumentalizzazione politica anche su temi all’apparenza sciocchi e di scarsa importanza.
Sala resista e non ceda agli strilli sguaiati degli aizzatori di popolino. Le palme e i banani devono restare lì, anche perchè tra poco vogliamo goderci la loro esotica ombra.
Alla faccia di Salvini, ovviamente.
Domenico Naso
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
MERIDIONALISTA. ANTICONFORMISTA, RIBELLE… DA LOTTA CONTINUA AD AN, A PANNELLA
Polemico e rabbioso fino all’ultimo, utopista e anticonformista per natura e per scelta, appassionato e vitale sotto la scorza del suo apparente cinismo.
Questo era Pasquale Squitieri, nato a Napoli il 27 novembre del 1938 e scomparso oggi in una clinica romana, per complicazioni polmonari, assistito dalla moglie, l’attrice Ottavia Fusco, sposata dopo anni di convivenza nel 2013. I funerali ci saranno lunedì alle 15 nella Chiesa degli Artisti a Roma.
L’aggettivo che meglio lo definisce come artista è “fisico”: il suo cinema sprigionava un vitalismo e una immediatezza espressiva che riproduceva bene la sua indole. Spesso coinvolto in battaglie d’opinione e in faziosità ideologiche, per anni venne rappresentato come “il regista con la pistola” (che si voleva portasse alla fondina ), mentre il carattere celava sensibilità e timidezze mascherate dietro gli onnipresenti occhiali da sole a specchio.
Straordinario motivatore e personalità carismatica, deve certamente la sua fortuna al cinema ad un linguaggio diretto e senza fronzoli che caratterizzava i suoi film, ma anche al lunghissimo sodalizio con Claudia Cardinale, prima compagna ed attrice-feticcio, poi amica e confidente inseparabile che non lo ha mai lasciato solo, anche dopo la separazione.
Nello scorso novembre, premiato alla carriera dalla rassegna assisiate “Primo piano sull’autore” seppe stupire la platea con un infervorato commiato tutto dedicato alla gratitudine per i suoi attori (Claudia in prima fila) e per i giovani, una generazione a cui è affidata – disse – la nostra sola speranza, ma che “non sappiamo proteggere dalle insidie di una società sempre più marcia e irredimibile”.
Laureato in legge, assunto al Banco di Napoli, deve a un infortunio professionale (un’accusa di peculato che gli costò comunque cinque mesi di carcere) la spinta definitiva ad abbandonare il lavoro e a tuffarsi nella sua vera passione per la cultura. Fu Vittorio De Sica a scommettere su di lui nel 1969, producendo il suo lungometraggio d’esordio, “Io e Dio”, permeato di un ribellismo istintivo contro la prepotenza del potere e la cecità della gente “perbene”, comprese le autorità ecclesiastiche.
E’ il frutto dell’ondata anti-sistema del ’68 che trova in Squitieri un appassionato sostenitore, fino a spingerlo su posizioni non lontane da gruppi di contestazione come “Lotta continua”.
Da regista sceglie invece la strada della metafora politica ammantata da cinema di genere e, con lo pseudonimo di William Redford, si lancia nello spaghetti western con due titoli di successo: “Django sfida Sartana” e il più personale “La vendetta è un piatto che si serve freddo” del 1971. Rivisti oggi, sono film che mostrano già il talento più evidente del giovane autore: linguaggio asciutto, forti sentimenti, gusto per la narrazione popolare, grandi ideali da ribelle solitario e un anarchismo di fondo che spiegherà le sue controverse posizioni politiche, dalla sinistra alla destra, fino ad un isolamento intellettuale che pagherà sempre in prima persona.
Non è quindi un caso se, abbandonato il cinema di genere, ne porterà gli elementi strutturali in racconti più personali, dedicati al Meridione, alla sua terra “destinata sempre a pagare per tutti sotto il tallone dei vincitori”, narrando piaghe come il banditismo, la mafia, la camorra.
Qui si mostra capace di conquistare il pubblico coi suoi film migliori: “I guappi!” (1974) con Fabio Testi, “Il prefetto di ferro” (1977) con Giuliano Gemma), fino a “Li chiamarono… briganti” (1999) con Enrico Lo Verso nei panni del discusso Carmine Crocco, condannato all’ergastolo per banditismo dopo l’Unità d’Italia e poi rivalutato dalla storiografia partenopea come eroe popolare.
Un tipico eroe perdente nel pantheon personale di Pasquale Squitieri come lo erano il Prefetto Mori (mandato dal fascismo a combattere da solo la Mafia), il pentito Ragusa del film omonimo (ispirato al caso Buscetta) e perfino lo stanco e disilluso Mussolini di “Claretta” (1984) con Rod Steiger e Claudia Cardinale.
L’insuccesso di “Li chiamarono…briganti” (ritirato dalle sale in circostanze mai chiarite e accusato di revisionismo storico), chiuse a Squitieri molte porte del cinema, tanto da indurlo ad abbracciare la carriera politica nelle file di Alleanza Nazionale (e poi del Polo delle Libertà ), ma non ad abbandonare la sua vena artistica.
Negli anni successivi avrebbe infatti diretto ancora cinque film tra cui un vigoroso “L’avvocato Di Gregorio” sul tema delle morti bianche con un istrionico Giorgio Albertazzi e il film-testamento “L’altro Adamo” del 2014 con Lino Capolicchio e Ottavia Fusco, parabola visionaria sul futuro prossimo.
Il sociale lo appassionava da sempre, tanto da aver dedicato più di un lavoro alla piaga dell’immigrazione clandestina e a quella delle droga, fino a indurlo (verso la vecchiaia) ad abbracciare le idee radicali, iscrivendosi al partito transnazionale di Marco Pannella.
Emarginato, un po’ per scelta e un po’ per il carattere brusco e polemico, dall’èlite intellettuale, scomodo per tutti, ma sempre difeso dal successo popolare, lascia in eredità un pugno di film da rivalutare, una figlia (nata dalla relazione con Claudia Cardinale) e un gruppo ristretto di amici e sostenitori che in lui hanno sempre riconosciuto l’onestà delle idee, la passione individualista, la voglia di non rassegnarsi mai.
(da “Huffingtonpost“)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI IMMOBILI OCCUPATI DA SIGLE POLITICHE MOROSE, COMPRESE FORMAZIONI DEFUNTE
È uno scandalo che nella Capitale sembra non dover finire mai. 
Gli immobili pubblici, in questo caso le case popolari della Regione Lazio, in sigla Ater-Roma, restano il regno della morosità .
E quando a dover pagare i canoni sono partiti politici, sindacati, associazioni culturali o sportive, il mancato pagamento è assicurato.
Pur con qualche piccolo segno di miglioramento, secondo gli ultimi dati, aggiornati al 30 novembre scorso, dalle casse l’Ater mancano 6,8 milioni di euro.
Erano 8,8 milioni di arretrati soltanto quattro mesi prima.
A giudicare dalle carte, insomma, il direttore generale dell’Ater, Francesco Mazzetto, sta facendo bene il suo lavoro anche se è altissima la montagna del debito da incassare.
«Sono rientrati 2 milioni di euro», fa sapere. C’è però un particolare che lascia interdetti: gli elenchi degli affittuari di natura politica sindacale o associativa, che l’Ater per la prima volta è costretto a rendere pubblici, hanno una sorta di omissis: quando vi è in corso una procedura di «regolarizzazione», gli importi della morosità vengono oscurati.
Ecco, siccome il Pd o la Cgil, pizzicati con morosità abnormi, hanno avviato il percorso di «regolarizzazione», nulla più si sa delle loro situazioni contabili.
Ci si può riferire quindi solo all’ultima lettera di Matteo Orfini, commissario del Pd a Roma, ai segretari di circolo del partito: «Il debito imputato alle nostre strutture territoriali – scriveva il 25 gennaio – è superiore ai 600 mila euro. Una situazione gravissima e ingiustificabile, frutto della gestione in anni passati».
Si noti che il debito del Pd nei confronti dell’Ater-Roma era di 646mila euro già nel marzo del 2015.
Nel frattempo, alcune sedi storiche sono state restituite al padrone di casa.
Clamoroso è il caso della sede del partito di via dei Giubbonari, che ha accompagnato e declinato la storia della sinistra romana. Prima il Pci, poi Pds, poi Ds, infine Pd. Nel frattempo il debito era esploso a 130mila euro. Finchè le chiavi sono state restituite.
Non c’è soltanto il centrosinistra, però, nell’elenco di chi non paga.
Ci sono sedi di partiti morti e defunti, quale il circolo Psi a Garbatella (morosità di 50 mila euro), la sede Psdi dell’Alberone (54mila), il circolo Pri di Prati, in via Turba (25mila).
Sono in tutta evidenza crediti incagliati, che sarà impossibile esigere.
E naturalmente c’è l’intero spettro costituzionale: l’Udc di via Anagni (142 mila euro), An di Corviale, ora passata a Fdi (161mila euro), Sel di via Silvano (142mila euro).
Sotto mentite spoglie c’è anche Forza Italia, che usufruisce dei locali affittati all’associazione culturale «Mai dire no», di cui sappiamo grazie alle inchieste sulla nuova Affittopoli capitolina del «Tempo» che due anni fa aveva un arretrato di 143 mila euro e che attualmente è in fase di «regolarizzazione».
Un dato comunque salta agli occhi.
Nel marzo 2015, la morosità complessiva dell’universo politico ammontava a 3,5 milioni di euro. Trenta mesi dopo, il debito dei partiti nei confronti dell’Ater è ridotto (si fa per dire) a 1,3 milioni.
Ma i partiti, come si sa, hanno una formidabile leva per fare cassa: i soldi che arrivano dallo Stato attraverso i rimborsi elettorali o i lauti assegni per gli eletti.
Quando ad essere morosa è una associazione qualsiasi, che per statuto non ha patrimonio nè scopo di luco, con chi rivalersi?
L’Ater può mettersi l’animo in pace di fronte ai 217 mila euro di debito che ha accumulato il Circolo ricreativo Corinaldo di via Corinaldo 120, oppure i 184 mila del Club Peperino di via del Peperino 39, o ancora i 175 mila del circolo Enal di piazza Donna Olimpia 5.
Già più difficile accettare che la Guardia nazionale ambientale Onlus, un’associazione di guardie zoofile volontarie che vanta di essere inserita dal 2011 negli albi della Protezione civile e dal 2016 è riconosciuta dal ministero dell’Ambiente, possa avere accumulato un debito di 173 mila euro per affitti non pagati nella sua sede centrale di via Scarpanto 64 dove occupa un locale di 228 metri quadri.
Sono oltre cento le associazioni che a Roma risultano morose nei confronti dell’Ater. E la cifra è iperbolica: 3 milioni, 995 mila euro di affitti non incassati.
«È tutta una vergogna – s’arrabbia Alessandro Capriccioli, segretario cittadino dei Radicali, che su questo tema sta facendo una battaglia di trasparenza – perchè se questo è l’andazzo, tanto varrebbe dare i locali a titolo gratuito, ma a tutti, non solo agli amici degli amici. Oltretutto la maggior parte di questi locali restano chiusi il 99 per cento del tempo. Si potrebbe pensare a un sistema di rotazione oraria, con cui tutti i partiti, tutti i sindacati, e tutte le associazioni garantiscano un certo numero di ore aperte e di attività svolte a favore dei cittadini».
Francesco Grignetti
(da “la Stampa”)
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Febbraio 18th, 2017 Riccardo Fucile
11 AGOSTO 2015: “NEL M5S NON ESISTONO GERARCHIE COME NEI PARTITI, NON C’E’ DIFFERENZA TRA UN PORTAVOCE CONSIGLIERE COMUNALE E UN PORTAVOCE SENATORE”… ALLORA PERCHE’ IERI HA CAZZIATO LA LOMBARDI?
Ieri Beppe Grillo ha poderosamente cazziato Roberta Lombardi, “rea” di aver espresso un parere discordante con quello di Virginia Raggi sullo Stadio della Roma a Tor di Valle, con un pps sul blog nel quale si segnalava che sullo stadio della Roma “decidono la giunta e i consiglieri. I parlamentari pensino al loro lavoro”.
Il giorno prima Beppe aveva ammonito: «Per le questioni inerenti le amministrazioni guidate dal MoVimento 5 Stelle gli unici titolati a parlare, in nome e per conto del M5S, sono gli eletti. Chiunque altro si esprime solo a titolo personale e come tale devono essere prese le sue dichiarazioni».
E la Lombardi ha rettificato (o meglio: ha tentato di rettificare) la sua posizione sostenendo che lei la pensa come la sindaca.
Uno a zero per Beppe, insomma.
C’è però chi ha ricordato che l’11 agosto 2015 lo stesso Beppe Grillo pubblicava sul suo blog un ragionamento leggermente diverso rispetto a quello di oggi.
All’epoca un post del consigliere comunale Vittorio Bertola sull’immigrazione faceva quattro proposte tra cui un giro di vite sui permessi di soggiorno e per motivi umanitari e l’istituzione di sistemi efficienti per il rimpatrio forzato delle persone a cui viene respinta la domanda di asilo.
Il post suscitò la reazione del senatore Maurizio Buccarella, il quale segnalò che la posizione del M5S era un’altra.
E allora Beppe pubblicò questo post sul suo blog:
“nel Movimento 5 Stelle non esistono gerarchie, tipiche invece dei partiti. Non c’è differenza fra un portavoce consigliere comunale e un portavoce senatore. Nel Movimento 5 Stelle esistono posizioni e discussioni, come quella in corso sull’immigrazione.
Uno pari, palla al centro.
Quanto a Beppe, è evidente che sia passato dal pensare che gli eletti siano tutti uguali al sostenere che qualcuno sia più uguale degli altri.
Cose che capitano.
(da “NextQuotidiano”)
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