Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
DALLA CHAT NON EMERGE PER NULLA CHE DI MAIO AVREBBE INTIMATO A MARRA DI LASCIARE IL POSTO, SEMMAI L’OPPOSTO: LUI LO ASCOLTA E ASPETTA PIGNATONE… DUE GIORNI DOPO (IL 12 AGOSTO) ARRIVA LA RISPOSTA SIBILLINA DEL PROCURATORE DI ROMA, MA MARRA RESTA FINO A DICEMBRE, QUANDO VIENE ARRESTATO: CHE HA FATTO DI MAIO IN QUESTI 4 MESI PER CACCIARLO? NULLA
Il Corriere della Sera, La Repubblica e Il Messaggero replicano colpo su colpo assicurando di essere in grado di documentare che il procuratore di Roma Pignatone aveva poi risposto il 12 agosto osservando che non c’erano notizie che “potessero essere comunicate” sul conto di Raffaele Marra.
“Una risposta sibillina, ma non assolutoria, nel rispetto del segreto sulle indagini in corso. Nonostante questo, Marra è rimasto al suo posto ed è stato addirittura promosso da vicecapo di gabinetto a capo del personale dell’intero Comune, mantenendo la carica fino al momento dell’arresto per corruzione nello scorso dicembre”, fa notare La Repubblica.
“Il blog di Grillo – continua La Repubblica — spiega la definizione di ‘servitore dello Stato’ con cui Di Maio indica Marra con ‘il fatto che Marra era della Guardia di finanza’.
Va ricordato che Marra ha lasciato la Guardia di finanza da più di dieci anni.
Da allora ha lavorato come direttore dell’Unire guidata all’epoca da Franco Panzironi, lo stretto collaboratore di Gianni Alemanno arrestato nella retata di Mafia Capitale del dicembre 2014. Poi è entrato al Comune di Roma con lo stesso Alemanno, che dal 2015 è sotto processo per corruzione e finanziamento illecito”.
In conclusione, “questi sono i fatti, ma Grillo continua ad attaccarci con una propaganda delirante e pericolosa, che diffonde nel Paese un clima di odio”.
Il Messaggero fa notare che “con quel messaggio, lo scorso 10 agosto, Virginia Raggi intendeva tranquillizzare Marra trasferendogli le considerazioni di Luigi Di Maio che, da una parte lo definiva ‘un servitore dello Stato’ e dall’altra segnalava alla stessa Raggi l’opportunità di conoscerne la posizione giudiziaria e il suo convincimento sul fatto che Marra non potesse restare nel Gabinetto in Campidoglio”.
“Per una sua scelta – osserva Il Messaggero – Virginia Raggi decise di inoltrare a Marra solo la parte ‘positiva’ del messaggio di Di Maio, per dargli l’impressione che la fiducia fosse incondizionata”.
(da agenzie)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
IL PRANZO DI BERSANI COI SUOI, LE TELEFONATE DALLE FEDERAZIONI
La scissione è servita. Ristorante Mario, via della Vite, pieno centro di Roma. Cucina toscana, vino rosso al centro del tavolo.
Attorno, a ora di pranzo, si siedono Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Nico Stumpo, Davide Zoggia, Massimo Paolucci.
Il ragionamento condiviso, nel primo lunghissimo giorno di quello che pare un lungo addio al Pd, è: “Se non accade niente di serio, domenica non andiamo all’assemblea del Pd”. La scissione, appunto. La tappa successiva: nuovi gruppi parlamentari.
Qualche abboccamento c’è stato. Tra i commensali c’è chi ha sentito Orlando, dopo la direzione: “Ha detto Andrea che anche nella maggioranza ci sono molti pieni di dubbi”.
C’è chi ha sentito Franceschini: “Sta provando a dare segnali su un congresso a maggio, per far vedere che non si vota a giugno”.
Tutti gli scenari sono sul tavolo, con annesse variabili. A partire dalla variabile Orlando, il protagonista di uno smarcamento alla direzione.
Qualche tempo fa, gli era stato suggerito da Bersani di non entrare nel governo, dopo la vittoria del no, come segnale di “discontinuità ”.
Il che avrebbe aperto un dialogo in vista del congresso. Ora pare complicata, perchè il guardasigilli è contrariato, molto contrariato, ma ha parecchi dei suoi che lo frenano. È chiaro che una sua candidatura sarebbe un fatto nuovo, perchè apre una frattura nella maggioranza che sostiene Renzi.
Al momento l’ipotesi non c’è. C’è un po’ di gioco sulle date, giorno più giorno meno, nulla di più. Bersani, tornato col piglio del segretario, ha tagliato corto: nulla di serio, perchè settimana più, settimana meno, non cambia la questione di fondo. E cioè che si apra una discussione politica sul futuro del paese, sul governo, sulla legge elettorale, sul partito. È solo un modo per spostare il plebiscito dai primi giorni della primavera a primavera inoltrata: “In questa situazione — è l’analisi condivisa — il Pd diventa il partito di Renzi e noi facciamo un’altra cosa senza perdite di tempo. Un pezzo del nostro popolo la scissione l’ha già fatta”.
Un’altra cosa in tempi brevi, senza partecipare al congresso.
L’idea, se non si apre una trattativa vera, è di partecipare sabato all’iniziativa di Enrico Rossi, a Roma, quartiere Testaccio, ed annunciare lì la non partecipazione all’assemblea del Pd di domenica.
Lì Bersani e Emiliano dichiareranno la “presa d’atto” che c’è una chiusura di fronte alla richiesta di un altro percorso. Poi, i gruppi parlamentari. Parecchi sono i parlamentari perplessi, timorosi: “Ma se nasce un altro gruppo, come fa a durare il governo?”; altri si chiedono: “Come spieghiamo alla nostra gente che rompiamo sul calendario”.
Pare il dilemma del prigioniero: se partecipiamo al congresso, è finita, perchè è chiaro dagli articoli molto informati sull’ex premier quale sia lo spirito con cui si predispone al congresso (li seppellirò con le loro regole); se usciamo abbiamo un problema a spiegarlo.
In questa dinamica, contrariamente a parecchie rappresentazioni, Bersani è particolarmente determinato.
Non è un caso che è tornato a dichiarare in prima persona, con frasi forti, determinate. Eccolo attraversare il Transatlantico, col parlamentare torinese Giacomo Portas, che ha una lista I Moderati e parecchi voti in Piemonte: “Guarda che ci sono le condizioni per fare noi il centrosinistra vero. Mica andiamo a fare una roba minoritaria”.
Poi si ferma di fronte ai cronisti: “Non siamo un gregge, è impossibile andare avanti così. Io voglio bene al Pd, fino a quando è il Pd, ma se diventa il PdR, il partito di Renzi, non gli voglio più bene”.
E ancora: “Non so se andremo domenica all’assemblea”. Posizione pubblica che lascia aperta la via di una trattativa, qualora Renzi volesse, ma che in caso contrario significa: siamo pronti.
Pronti a fare un nuovo partito. Questa è la seconda parte della discussione. Dopo il “quando”, il “che cosa”. E il che cosa non è una cosa rossa, minoritaria e di testimonianza, ma una costituente di centrosinistra, ulivista, con i moderati dentro.
Da far nascere prima delle amministrative, con l’obiettivo poi di raccogliere dopo i cocci del Pd.
Insomma, un’Opa sullo scontento che c’è in giro nel partito, dopo anni di renzismo. Torino, Roma, Napoli. Il cellulare di Stumpo ha ripreso a suonare come quando era responsabile dell’organizzazione della Ditta.
Dice un big: “Renzi ha fatto due errori. Ha sottovalutato Bersani e la sua capacità di rottura scambiando buon senso con arrendevolezza, e pensando che prevalessero i vecchi rancori comunisti tra lui e D’Alema. Ha pensato che Rossi non si sarebbe candidato. Ha sottovalutato Emiliano”.
Ora la scissione è servita. Quattro giorni per evitarla.
Altrimenti sarà annunciata sabato, a Testaccio, core di Roma.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
L’ASSESSORE SI E’ DIMESSO: “DOVEVAMO RIPORTARE LEGALITA’ E TRASPARENZA, SI CONTINUA SULLA STRADA DELL’URBANISTICA CONTRATTATA CHE HA FATTO IMMENSI DANNI ALLA CITTA'”… E I GRILLINI RINNEGANO LE PROMESSE ELETTORALI: OK ALLO STADIO
Non ha aspettato che Virginia Raggi portasse a termine l’annunciata due diligence sul suo lavoro e sciogliesse la “riserva”.
Poco dopo l’incontro tenuto nel pomeriggio in Campidoglio sullo stadio della Roma, che ha fatto segnare un deciso passa in avanti verso la realizzazione del progetto, Paolo Berdini ha lasciato la giunta a 5 stelle rassegnando le sue “dimissioni irrevocabili“.
“Era mia intenzione servire la città mettendo a disposizione competenze e idee. Prendo atto che sono venute a mancare le condizioni per poter proseguire il mio lavoro. Mentre le periferie sprofondano in degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo stadio della Roma“, scrive l’assessore all’Urbanistica nella nota in cui dà l’addio definitivo alla giunta M5S che dal 20 giugno 2016 guida l’amministrazione capitolina.
Al centro della frizione durata mesi tra Berdini e i 5 stelle c’è il progetto del nuovo impianto sportivo per il quale l’As Roma ha con il Campidoglio un accordo che risale al 2014: da una parte l’assessore all’Urbanistica, che chiedeva forti tagli alla parte commerciale del progetto in mancanza dei quali aveva sempre espresso una posizione contraria alla costruzione del nuovo impianto; dall’altro la giunta, intenzionata a costruire la struttura nell’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle seppur dicendosi disponibile ad aprire una discussione sulla riduzione delle cubature.
Oggetto del contendere il faraonico progetto della società di James Pallotta cui la giunta guidata da Ignazio Marino aveva dato il proprio assenso perchè ritenuto “di interesse pubblico” e che il 3 marzo, a meno di colpi di scena, riceverà l’ok definitivo anche dall’amministrazione a 5 stelle.
Alla quale l’assessore dimissionario rivolge ora il suo j’accuse: “Dovevamo riportare la città nella piena legalità e trasparenza delle decisioni urbanistiche, invece si continua sulla strada dell’urbanistica contrattata, che come è noto, ha provocato immensi danni a Roma“.
La certezza che l’addio fosse una mera questione di tempo era arrivata il 13 febbraio, quando Il Fatto Quotidiano pubblicava la lettera con la quale Berdini diceva la sua sul caso delle dichiarazioni attribuitegli da La Stampa riguardo alla sindaca Raggi.
Il punto 10 della missiva annunciava in maniera inequivocabile ciò che poi è avvenuto: “Oggi, il M5S, se vuole, ha la grande opportunità di continuare l’azione fin qui intrapresa per far cambiare passo a Roma. Lo stadio di Tor di Valle è il banco di prova per fermare blocchi di potere che da sempre difendono la speculazione fondiaria e finanziaria a scapito dei diritti dei cittadini. Se la Raggi vuole fare questa battaglia mi troverà al suo fianco. In caso contrario, le mie dimissioni sono già sul suo tavolo”. Tradotto: io la faccia sullo stadio da un milione di metri cubi di cemento non la metto, o si tagliano le cubature o me ne vado. E così è stato.
L’intesa fra i presenti al tavolo riunito questo pomeriggio in Campidoglio (il capogruppo M5S, Paolo Ferrara, il presidente dell’Aula, Marcello De Vito, la presidente della commissione Urbanistica, Donatella Iorio da una parte; il direttore generale giallorosso Mauro Baldissoni e il costruttore Luca Parnasi dall’altra) è stata raggiunta.
Un idillio fra società e comune che attende solo il sigillo di Virginia Raggi. Che avoca a sè le deleghe all’Urbanistica e Infrastrutture e cui rimane il problema di trovare il nome adatto per sostituire il terzo assessore in 7 mesi.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
DISPERSO UN PATRIMONIO POLITICO TRA SCANDALI, DIVISIONI E SCELTE DI CAMPO DISCUTIBILI
Ben prima dell’avviso di garanzia a Gianfranco Fini (che peraltro non è una condanna), la vicenda politica che viene dal Movimento sociale, uno dei partiti “storici” della Prima Repubblica, aveva già subito una lunga sequenza di “infarti” che ne hanno reso residuale il peso politico sulla scena nazionale.
Un paradosso se si pensa che alcuni dei valori di quel partito sono tornati attualissimi nell’area della destra.
L’Msi, che era nato nel 1946 con l’idea di raccogliere in un partito tutto quel che idealmente si richiamava al regime mussoliniano e dopo aver vissuto per 45 anni ai margini del consesso politico (con forme di ghettizzazione), al crollo della Prima Repubblica sembrò potesse vivere una nuova stagione.
L’Msi si presentò a quel passaggio d’epoca con due “atout”: uno storico (una classe dirigente del tutto immune da episodi di malcostume) e uno politico: la decisione del suo leader, Gianfranco Fini, di cambiare nome, tagliando i ponti ideali con la stagione fascista.
Due requisiti apprezzati dagli elettori: due anni dopo la svolta di Fiuggi, Alleanza nazionale, nuovo nome del partito, ottiene alle elezioni Politiche del 1996 il 15,7%, diventando il terzo partito italiano, evento storico per gli eredi di un partito nato nel mito di Mussolini.
Un patrimonio via via disperso.
Alle ripetute prove di governo, esperienza sempre mancata a quella tradizione politica, i notabili di An hanno mostrato la corda.
I vari ministri, presenti nei governi Berlusconi, senza sfigurare, non hanno mai lasciato un segno e il colpo di grazia è arrivato quando gli eredi dell’Msi sono stati chiamati alla guida di una grande città .
Il governo di Roma di Gianni Alemanno è stato segnato da una “abbuffata” clientelare con pochi precedenti e nel 2013 il giudizio degli elettori è stato molto chiaro.
Certo, il colpo di grazia a quel che restava dell’Msi lo diede, non tanto il divorzio da Berlusconi, ma la successiva decisione del neonato partito di Fli di allearsi con due personaggi che nulla avevano a che fare con la tradizione della destra post-fascista: Pierferdinando Casini e Mario Monti.
Ne è derivata una diaspora, divisa da antichi dissapori: una parte dei quadri “missini” hanno formato Fratelli d’Italia, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli sono dentro Forza Italia, mentre Gianni Alemanno e Francesco Storace si sono messi per conto proprio. Divisi e sostanzialmente irrilevanti.
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
FINI INDAGATO : “PIENA FIDUCIA NELLA MAGISTRATURA”
E’ un vero tesoro l’elenco degli immobili e dei conti correnti sequestrati all’alba di oggi dallo Scico della Guardia di Finanza a Elisabetta, Giancarlo e Sergio Tulliani.
La consorte di Gianfranco Fini, ex presidente della Camera, è indagata con il fratello e il padre per riciclaggio e autoriciclaggio: secondo la Procura di Roma, i tre familiari hanno ricevuto profitti illeciti per sette milioni di euro da Francesco Corallo , l’imprenditore catanese diventato miliardario con la concessione statale per le macchinette mangiasoldi (slot e vlt).
Corallo è stato arrestato il 13 dicembre nel paradiso fiscale di Sint Marteen con l’accusa di aver sottratto all’Italia oltre 250 milioni di euro.
L’inchiesta ora coinvolge anche Fini, indagato per concorso in riciclaggio.
L’ex leader di An ha commentato così la notizia anticipata oggi dall’Espresso : «L’avviso di garanzia è un atto dovuto. Ho piena fiducia nell’operato della magistratura, ieri come oggi».
Il riferimento è all’archiviazione dell’inchiesta del 2010 sul caso dell’appartamento di An a Montecarlo.
Anche questa indagine ora è stata riaperta dopo la scoperta che Giancarlo Tulliani aveva acquistato quella casa, nel 2008, con soldi versatigli segretamente dalle società offshore di Corallo, per poi dividere il ricavato con la sorella Elisabetta, che ha incassato personalmente almeno 739 mila euro.
Ecco la lista completa dei conti e degli immobili sequestrati alla consorte di Fini, al fratello Giancarlo e al padre Sergio, impiegato in pensione dell’Enel.
Elisabetta Tulliani
800 mila euro su un conto bancario italiano.
Appartamento a Roma in via Sardegna.
Altro fabbricato nella capitale in via Orso Mario Corbino.
Altri due immobili da 167 e da 52 metri quadri a Rocca di Mezzo, in Abruzzo.
Giancarlo Tulliani
Due appartamenti di 247 e di 62 metri quadri in via Conforti a Roma.
Altro appartamento in un diverso palazzo di via Conforti.
Già sequestrati 520 mila euro sul suo conto italiano: soldi che Giancarlo Tulliani aveva tentato di trasferire a Dubai dopo l’arresto di Francesco Corallo.
Sergio Tulliani
175 mila euro su un conto italiano;
La sua quota (metà ) della proprietà di un immobile a Capranica Prenestina (Roma):
Il 50 per cento di altri due appartamenti a Roma, in via Raffaele Conforti, con cantina e garage.
Metà di un altro immobile a Roma in via Roberto Ago con cantina e garage;
Il 50 per cento di un ulteriore appartamento a Roma in via Quattro Venti.
Casa al mare in via Caterattino a Sabaudia.
(da “L’Espresso”)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
PRIMA DI SPOSARE FINI E’ PASSATA DA GAUCCI FIGLIO A GAUCCI PADRE… HA VINTO ANCHE DUE MILIARDI ALL’ENALOTTO
La cosa che colpisce di più di Elisabetta Tulliani, nata a Roma 44 anni fa, è il suo curriculum, che neanche uno come Vittorio Sgarbi, che pure s’è dato molto da fare, può solo lontanamente vantare.
Elisabetta è avvocato, presentatrice e giornalista televisiva, inviata di Unomattina, ballerina ed ex docente universitaria.
Poi è stata presidente della Sambenedettese Calcio e nel 2001 consigliere d’amministrazione del Perugia sempre calcio.
Nel 2004, col padre e col fratello ha fondato Wind Rose International, una società che opera a livello internazionale nella compravendita di immobili.
In tv oltre a far l’inviata di Unomattina è stata conduttrice di Tintarella di Luna su Raidue.
E per non farsi mancare nulla avrebbe pure vinto all’Enalotto due miliardi e spiccioli nel maggio del 1998. Complimenti davvero.
Nel curriculum non c’è scritto niente della sua vita privata, che è stata anche quella un bel libro.
Da quando le cronache rosa si sono occupate di lei è stata fidanzata con il figlio di Luciano Gaucci, vulcanico presidente del Perugia calcio, oltre che imprenditore altrettanto vivace, per passare poi direttamente al padre, col quale oltre a meritarsi presidenze varie s’è trascinata qualche contenzioso, perchè l’ex patron rivoleva indietro il tesoro che secondo lui le avrebbe affidato perchè non finisse nelle mani del fisco: 5 appartamenti nel cuore di Roma, gioielli, terreni, 5 auto molto poco utilitarie, e un po’ di quadri di valore, compresi De Chirico e Guttuso.
Il tribunale ha dato ragione a lei: non c’è testimonianza scritta di questi prestiti.
Dopo la dinastia Gaucci, s’è innamorata di Gianfranco Fini, che prima di conoscerla era il delfino di Berlusconi e il politico in ascesa del centrodestra.
Gli ha dato due figli e una storia felice. Purtroppo nel curriculum non c’è scritto che da quando Fini l’ha conosciuta è cominciata pure la sua parabola discendente.
Ma queste sono coincidenze che non fanno parte della cronaca.
E te pare mai che una con quel curriculum e l’Enalotto in tasca avrebbe problemi di fortuna?
Pierangelo Sapegno
(da “La Stampa”)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
PIANI FALLITI, IGNORANZA DELLE NORME GIURIDICHE E APPALTI CONCESSI SENZA GARA ALLA DITTA DI UN CANDIDATO CON “LA DESTRA” DELLA SANTANCHE’ OTTO ANNI FA (POI REVOCATO)… E I DANNI SONO AUMENTATI DEL 40%
Oltre 16 milioni di euro. Tanto la Regione Lombardia targata Roberto Maroni ha già speso per “garantire” la sicurezza dei pendolari che ogni giorno viaggiano sui treni della sua controllata Trenord.
Fondi che, come ha dimostrato l’aggressione alla studentessa 16enne avvenuta giovedì scorso su un convoglio diretto a Mortara a metà pomeriggio di un giorno lavorativo, si sono rivelati inutili, dissipati tra piani falliti, ignoranza delle norme giuridiche e appalti concessi senza gara.
La storia della (in) sicurezza della Trenord maroniana ha una data di inizio: l’11 giugno 2015, quando alla stazione di Villapizzone (Mi) il capotreno Carlo Di Napoli viene assalito con un machete da una banda di Latinos e si ritrova col braccio sinistro semi-amputato.
Da mesi i media locali denunciavano i pericoli a bordo dei treni regionali, ma la foto della banchina insanguinata fa il giro d’Italia e l’azienda guidata dall’Ad Cinzia Farisè (scelta personalmente da Bobo) non può più minimizzare ed è costretta ad ammettere che la situazione è fuori controllo
Così, a luglio 2015 Maroni e Farisè lanciano in pompa magna il “Progetto Security”: un piano già avviato (senza grandi risultati) nel gennaio precedente, ma che da quel momento si arricchirà di un tassello fondamentale, il “Security Team”.
Si tratta di 150 agenti privati che veglieranno sui viaggiatori e il personale a bordo treno e nelle stazioni
Ma il “Progetto Security” da subito rivela numerosi lati problematici
La prima “pecca” è che quei i vigilantes entrano in servizio in forza di un contratto di portierato in base al quale non sono tenuti a intervenire in caso di aggressioni o risse, ma devono limitarsi a “prendere nota” dell’accaduto.
E infatti, denunciano da subito i sindacati dei ferrovieri, in molti episodi di aggressioni a capitreno, gli agenti con la pettorina verde e gli anfibi si guardano bene dall’intervenire.
Anche sotto il profilo delle procedure d’appalto non è tutto cristallino, visto che Trenord non indice una gara per la fornitura del personale, ma dà tramite un affidamento l’appalto alla GF Security, società di proprietà di tale Adriele Guarnieri, noto nel settore per essere candidato con “La Destra” di Daniela Santanchè nel 2008. Un’operazione che attira l’attenzione dell’Anac, tanto che un primo appalto da oltre 750 mila euro viene bloccato.
Trasparenza a parte, Gf Security invia sui treni personale che paga 3,5 euro l’ora lorde e che è costretto a turni massacranti.
Il mix di paga bassa e turni monstre costringe presto la società di Guarnieri a cooptare non professionisti, soprattutto stranieri che spesso non parlano neanche l’italiano.
Tuttavia, il vero problema di tutta l’operazione è che secondo la legge (articoli 256 bis del Regolamento al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e 2 e 3 del Decreto 15 settembre 2009, n. 154) sono autorizzati a espletare servizi di sicurezza a bordo treno solo guardie giurate professioniste iscritte all’albo, in possesso di uno speciale attestato rilasciato dalla Prefettura a seguito di un corso preparatorio e di un esame ad hoc.
Cioè specialisti dall’altissimo costo del lavoro che Gf si guarda bene da arruolare (anche perchè sul mercato i professionisti in possesso di tali requisiti scarseggiano).
A sollevare la questione è il sindacato Savip, Sindacato autonomo di vigilanza privata, che tramite il suo segretario Vincenzo del Vicario denuncia la “svista” di Trenord ai giornali e costringe il Pirellone a revocare l’appalto a Gf.
Messo alle strette per la figuraccia, Maroni il 26 gennaio 2016 è costretto a sancire la fine dell’“esperimento Security Team” e ad annunciare che dal 1° febbraio 2016 sui treni avrebbero preso servizio “una trentina di guardie particolari giurate”.
In realtà , da quella data le guardie armate arrivano solo nei siti manutentivi e nei depositi notturni di Brescia e Bergamo” di Trenord, mentre per vederle sui treni si dovrà attendere a lungo.
Infatti, gli uomini con la pistola non toccheranno vagone fino al 16 novembre successivo (ben 10 mesi dopo!), quando il primo farà la sua comparsa sulla Milano-Bergamo.
Non la linea più pericolosa di Trenord, ma quella che serve il bacino elettorale dell’assessore regionale ai Trasporti, Alessandro Sorte (che infatti si fa fotografare a più riprese sulle banchine con gli uomini in divisa).
Sulle altre 37 linee lombarde, invece, passeggeri e personale restano del tutto sprovvisti di qualunque tipo di tutela.
Una scelta scellerata pagata a caro prezzo il 19 marzo 2016 dalla studentessa 22enne Sara Arnoldi, che verrà ridotta in fin di vita con un martello su un convoglio diretto a Varese dal pregiudicato romeno Marian Verdi.
A seguito dell’ennesimo brutale fatto di sangue, il 5 aprile 2016 il Consiglio regionale voterà all’unanimità (quindi anche dai leghisti) la mozione presentata dalla consigliera M5s, Iolanda Nanni, che chiede a alla Giunta Maroni ad “attivare un piano per la sicurezza sui treni e la prevenzione contro gli atti vandalici compiuti sui convogli e nelle stazioni ferroviarie lombarde”.
A votazione appena chiusa, Nanni dirà : «Dopo il fallimento dell’operazione “Security Team”, finalmente partirà un piano serio ed articolato per la sicurezza sui treni e nelle stazioni e la prevenzione degli atti vandalici. Fin qui le iniziative della Giunta sono state solo di facciata ed hanno agito solo in termini di “sicurezza percepita”».
Il 18 aprile 2016 la Regione Lombardia stanzierà ulteriori 9.802.400 euro.
E siamo così ai giorni nostri.
Lunedì 13 febbraio, l’ad Farisè ha reso noto il bilancio degli atti vandalici subiti da Trenord nel solo 2016 (l’anno in cui, come abbiamo visto, l’azienda di piazzale Cadorna e Pirellone hanno investito più fondi nella sicurezza): dal 31 dicembre 2015 allo stesso giorno del 2016, i danneggiamenti sui treni sono stati 8.400, il 40% in più rispetto al 2015.
Solo per rimuovere i graffiti, la società pubblica ha speso 1,5 milioni di euro; mentre nelle 120 stazioni gestite da Ferrovienord sono stati oltre 250 gli episodi registrati, più della metà (57,5%) dei quali sono stati danneggiamenti e rotture.
In tutto, lo scotto pagato ai vandali è di 10 milioni di euro, più o meno il costo di un treno nuovo. Una cifra che è la dimostrazione plastica della sconfitta subita da Trenord nel 2016 sul piano della sicurezza.
Come antidoto alla situazione evidentemente sfuggita di mano, Farisè ha paventato la possibilità di utilizzare i droni per il controllo dei depositi e ha ricordato che nel corso del 2017 la società investirà altri “sei milioni di euro, un budget più alto di 2 milioni rispetto a quello dell’anno di Expo”.
Ha anche accennato al programma delle guardie armate «che proprio in questi giorni vede 80 nuovi futuri agenti partecipano ai corsi abilitanti in Prefettura…», quindi ha confermato che gli specialisti su molti treni ancora non ci sono perchè li stanno formando.
Mentre Farisè snocciolava dati, accanto a lei l’assessore Sorte invocava l’invio dei militari da Roma per presidiare treni e stazioni, sottolineando come la Lombardia avesse già espresso tale richiesta al governo, ma senza ottenere risultati. Colpa di Renzi, insomma.
Con quello prospettato lunedì 12 febbraio, elaborato in fretta e furia sull’onda emotiva causata dall’aggressione alla studentessa 16enne di Vigevano, siamo al terzo piano sicurezza del Pirellone in meno di due anni, un vero record.
I pendolari lombardi si augurano che sia la volta buona e che Maroni e la sua giunta abbia imparato la lezione, anche perchè annunci roboanti, richieste a Roma e ingenti stanziamenti, da soli, non bastano per viaggiare sicuri.
(da “BusinessInsider“)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
“CONTINUITA’ CON QUEI PERSONAGGI CHE HANNO DISTRUTTO LA CITTA'”… “FATECI VOTARE SULLO STADIO”… IL 5 MARZO LA RAGGI DISSE: “SE DIVENTERO’ SINDACA RITIRERO’ LA DELIBERA”…E ORA PINOCCHIO-DI MAIO DICE L’OPPOSTO: “FAREMO LO STADIO, ERA NEL PROGRAMMA”
Com’era ampiamente previsto, la questione dello stadio della Roma sta scoppiando in mano al MoVimento 5 Stelle.
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista si sono schierati a favore dell’opera mentre la Giunta Raggi oggi affronterà un vertice con i proponenti per arrivare finalmente a un accordo.
E mentre l’indimenticabile vicepresidente della Camera sostiene che il M5S è sempre stato favorevole all’opera (ovviamente è falso) la rivolta della base dei grillini è ufficialmente scoppiata, complice anche il lungo addio di Paolo Berdini all’assessorato all’urbanistica.
Stamattina a svegliarsi con un diavolo per capello è Francesca De Vito, la sorella del presidente dell’Assemblea Capitolina che era già finita sui giornali per le critiche alla giunta: «Meglio sbagliare con persone “pulite” che continuare ad amministrare con le dinamiche di sempre…non è quello che i romani si aspettavano da noi!! Giusto o sbagliato che sia, il tavolo urbanistica ha affrontato il problema “stadio”…perchè non è chiamato in Comune e non gli viene dato ascolto?…mentre i “soliti noti” continuano ad avere un “posto al sole”….e noi????…fuori….come sempre!!», scrive lei su Facebook in un tripudio di puntini puntini puntini.
Di cosa sta parlando? La De Vito parla della proposta di delibera sullo stadio della Roma che annullerebbe quella approvata sotto la giunta Marino con la quale veniva sancito il “pubblico interesse” dell’opera, che è stata consegnata dagli attivisti M5S all’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini e poi pubblicata su Facebook da Francesco Sanvitto, coordinatore del tavolo Urbanistica del M5S di Roma, con un post su Facebook al quale ha allegato il documento.
Nella delibera vengono individuati sette aspetti di illegittimità del documento approvato dall’amministrazione Marino e l’iniziativa è in aperto contrasto con quanto sta attualmente facendo la giunta Raggi, che proprio ieri si è riunita con gli esponenti della società giallorossa in Campidoglio per lavorare al progetto prevedendo modifiche e riduzioni di cubature.
L’iter infatti non è giuridicamente concluso e non lo sarà finchè il progetto non avrà il via libera della Conferenza dei servizi in Regione.
Fino a quel momento il Comune ha tempo per approvare una delibera per modificare o ritirare il “pubblico interesse” concesso il 22 dicembre 2014 con la votazione nell’aula Giulio Cesare.
Bisognerebbe però per l’appunto votare in Consiglio, e soprattutto la motivazione deve essere inattaccabile perchè altrimenti i grillini rischierebbero di esporre il Campidoglio a una causa miliardaria di risarcimento danni.
Cosa sta succedendo, quindi?
Sta succedendo che la “base” del MoVimento 5 Stelle sta provando a forzare la mano della sindaca e dei consiglieri per mandare all’aria il progetto, probabilmente incurante (anche perchè l’eventuale responsabilità in solido non sarebbe la sua) di quanto potrebbe accadere.
Lo stesso Sanvitto da giorni attacca l’amministrazione a 5 Stelle prendendosela in particolare con Daniele Frongia e Donatella Iorio, ovvero l’ex vicesindaco che era stato incaricato dalla Raggi di seguire il dossier stadio e con la presidente della Commissione Urbanistica in Campidoglio.
Frongia, accusa Sanvitto, «da 7 mesi ha smesso di comunicare con me e, sin dai primi giorni dopo la vittoria elettorale aveva smesso di rispondere anche al telefono». Secondo Sanvitto — in realtà la sua tesi non è peregrina — è in atto il complotto della trattativa: «I “tavoli tecnici” che stanno “trattando” riduzioni servono solo a farci arrivare allo scadere del tempo (pochi giorni) perchè il progetto non è modificabile se non dopo l’annullamento della delibera di Marino. Al termine della “conferenza dei servizi” il procedimento sarà senza ritorno ed allora, tutti quelli che sapevano, avranno la responsabilità morale di essere stati complici di un indebito arricchimento di alcuni privati a discapito della collettività ».
Ma a contribuire al caos non ci sono solo Sanvitto e Frongia. Il consigliere all’VIII Municipio Massimiliano Morosini, già noto alle cronache per le liste di proscrizione e la proposta di recall per Paola Muraro oltre che per un divertentissimo scazzo sull’assemblea dei meetup, ha pubblicato su Facebook un appello per chiedere a Beppe Grillo di fare votare il M5S Roma sullo stadio: «Per stabilire definitivamente quale deve essere la posizione del MoVimento in merito alla questione dello stadio, mantenendo comunque la coerenza con quanto il M5S ha sempre espresso in Assemblea Capitolina, la soluzione è una: DEMOCRAZIA DIRETTA. Invitiamo il Garante del MoVimento Beppe Grillo ad attivare una consultazione sul blog per far esprimere la base che ha già votato i punti del programma e le candidature per Roma Capitale».
Anche Claudio Sperandio, organizzatore dell’assemblea dei meetup, è ostile al progetto e condivide un intervento pubblicato sul blog di Beppe Grillo nel 2014 che domandava: «Stadio a Tor di Valle: chi paga?».
E Sperandio aggiunge: «La rete è come una casa, nasconde ma non ruba. Leggo continuamente che questo progetto assurdo non costerebbe un euro alla collettività , eppure già 3 anni fa si era indicato il rischio degli oneri concessori rispetto al piano di fattibilità di questo sfacelo».
C’è poi chi mette a confronto le parole di oggi con quelle pronunciate anni fa o in campagna elettorale.
«Noi manteniamo le promesse e rispettiamo il programma. Dunque faremo lo stadio come abbiamo detto in campagna elettorale», ha sostenuto domenica Luigi Di Maio a In 1/2 Ora.
Ma sullo stadio una promessa c’era: «Se diventerò sindaco — annunciò la Raggi il 5 marzo 2016 — ritirerò la delibera per l’impianto di Tor di Valle. Perchè noi ci opponiamo a qualsiasi operazione edilizia che sia solo speculativa».
(da “NextQuotidiano“)
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Febbraio 14th, 2017 Riccardo Fucile
DUE CONCEZIONI DESTINATE A NON INCONTRARSI: PER RENZI IL PARTITO E’ SOLO UNA MACCHINA ELETTORALE, PER GLI OPPOSITORI IL PARTITO E’ IL COSTRUTTORE DI UNA PIRAMIDE SOCIALE
Una riunione di alcolisti anonimi. Una velenosa riunione di una famiglia. O, forse solo una riunione di parrocchia. Esitanti, attenti, spesso a occhi bassi o con voce rotta. Hanno sfilato uno dopo l’altro senza mai alzare troppo i toni.
Divisi da varie opinioni, ma avvinti l’uno all’altro da un identico sentimento: la paura.
Paura di scuotere troppo gli equilibri, di dire “ma” senza dire cosi’ tanto da rompere davvero con qualcuno dei presenti. Come un gruppo di parrocchiani, appunto, che denunciano i peccati, ma esitano a nominare i peccatori.
Insomma, un’enorme delusione.
Ancora una volta il Pd ha fatto la solita parte in commedia in cui da anni colloca se stesso: ha fatto salire la tensione in tutto il paese a mille in attesa di questa riunione, per produrre poi, come sempre negli ultimi anni, una mediocre discussione in cui non è circolata nessuna verità .
Non quella della scissione, nè quella delle dimissioni del segretario.
Intendiamoci, qui non ci stiamo lamentando del fatto che non sia scorso il sangue. Ma tra il sangue e il gioco dei rimbalzi generici c’è, come si diceva, la verità , o almeno, una piccola parte di essa. E di questa non abbiamo ascoltato nemmeno l’eco.
Nessuno ha nominato le ragioni del malessere, della distanza.
Incredibile che nessuno abbia detto qualcuna di quelle tante dure parole che pure volano nelle interviste, e nei dibattiti, e sui social: “irresponsabile”, “sabotatore”, “opportunista”.
Nemmeno il tanto appassionante (per tutti loro) tema dell’uomo solo al comando è stato evocato.
Un’evasività che può essere spiegata solo in parte con la paura, per quanto importantissima, di rompere il mitologico partito.
Molto di più sembra pesare un oscuro senso di inadeguatezza al passaggio in corso. Su una cosa sono d’accordo infatti, in tutti gli interventi, anche i più reticenti fra i dirigenti del Pd: confessano, in tante parole, di non sentirsi più al centro della vicenda nazionale e soprattutto di non avere più una bussola.
L’unica cosa che rimane nelle mani di tutti loro è un governo, o forse un simulacro di governo, che è l’ultima fiammella di quattro anni di avvicendamenti a Palazzo Chigi. Quattro anni in cui ogni leader è uscito sempre più debole del precedente – da Pier Luigi Bersani che quella soglia mai ha attraversato, a Enrico Letta il cui percorso si è interrotto come un incidente, fino a Matteo Renzi che ancora non sembra credere che qualcosa sia andato storto, e infine a Paolo Gentiloni che siede lì vicino a Renzi quieto come sempre.
Premier per default, ma pur sempre premier, con nelle mani la residua speranza di questo Pd, agitato e sconfitto, di poter nei prossimi mesi consolidare di nuovo la rotta.
Il vero tema della Direzione Pd – come poi si scoprirà in fondo, in un’avvelenatissima coda che ha a che fare con quelle sterili parole che costituiscono i documenti da votare – è proprio questo: l’eutanasia o meno dell’ultimo governo espresso dal Pd. In una coazione a ripetere dal primo governo ulivista, dove si avvicendarono dal 1996 al 2001 tre premier e un quarto candidato, ma sconfitto da Berlusconi.
È una sindrome questa dell’omicidio-suicidio che non è affatto banale.
Dalla fusione delle due culture diverse da cui nasce nella Seconda Repubblica l’attuale sinistra, il governo come forma della politica in sè è stato, ed è ancora, davvero il punto più alto dello scontro.
Un Prometeo poderoso per un Pci a lungo escluso dal vertice del paese, pragmatica formazione invece nelle mani della Dc, è dal 1996, cioè dalla prima entrata a Palazzo Chigi, che la riformulazione della sinistra della sua visione del governo entra in scontro con la sua stessa realtà : esperienza vissuta in maniera oscillante come costrittiva per la sua tecnicità , o miracolosa nella sua aspirazione a formare una nuova realtà .
Tra mito e ribellione, la questione governo è piantata al centro di ogni riflessione o azione della sinistra della Seconda Repubblica. E all’alba della Terza, la dinamica si è fatta ancora più chiara.
Renzi pensa, andreottianamente, che il governo sia la sola ragione per stare in politica – e al suo premierato ha dedicato e sacrificato tutto.
Il partito in questa visione è solo una macchina elettorale. Una visione coerente dal suo punto di vista, che vede in ogni accordo interno, in ogni attività partitica non direttamente interessata a costruire consenso intorno al premier un’inutile se non dannosa distrazione.
È seguito in questo da una sostanziosa parte del partito attuale, come si è visto nel voto della Direzione e come sicuramente si vedrà nelle primarie.
Nella sinistra che nasce invece dalla costola comunista – che è la maggioranza di chi sfida Renzi oggi – il governo è invece il vertice di quella piramide sociale che vede il partito come costruttore.
Il governo è in questa esperienza la metamorfosi finale di un ordinato processo di organizzazione delle dialettiche sociali. Per questo non è mai fatto da un uomo solo al comando, ed è sempre permeabile alle crisi, alle scosse – che sono il riaggiustamento della realtà .
Il mai amalgamato mix di queste tendenze ha divorato nel corso della Seconda Repubblica la pur poderosa forza del centrosinistra.
Oggi di questo scontro rimangono solo i simulacri.
Il Pd attuale è un partito finito nelle forme prese nel corso del ventennio scorso. Meglio di tutti lo sanno coloro che lo abitano, lo agiscono e lo guidano. Una verità che capiamo non possa essere detta.
Lucia Annunziata
(da “Huffingtonpost”)
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