Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
RENZI VINCITORE INCONTRASTATO ALLA PRIMARIE
Il nuovo partito scissionista che nascerebbe dal Pd potrebbe contare su un bacino elettorale tra l’8 e il 10,5%.
Ma la maggioranza degli elettori dem è contrario alla scissione e comunque, al 60%, ridarebbe a Renzi il ruolo di segretario.
È quanto emerge dai sondaggi commissionati a Tecnè e Ipr da “Porta a Porta” dopo l’assemblea nazionale del Pd e lo scontro tra la sinistra e Renzi.
Tra gli elettori del Pd i contrari alla scissione sono tra il 70% (Ipr) e il 63% (Tecnè). La responsabilità della scissione è per il 63% (Ipr) o il 67% (Tecnè) della minoranza. Dato che si ribalta (95% – Ipr e 93% – Tecnè) se si esprimono coloro che voterebbero per il nuovo partito della sinistra.
Le cause della scissione per circa la metà degli elettori Pd sono attribuibili a incompatibilità tra i leader (52% – Ipr; 49% – Tecnè).
Nell’ipotesi che alle primarie Pd si presentino Renzi e Orlando, Renzi otterrebbe una netta vittoria (60% – Ipr; 64% – Tecnè) mentre Orlando prenderebbe circa la metà (30% – Ipr; 33% – Tecnè).
Qualora alle primarie si presentasse anche Emiliano il voto degli elettori Pd si dividerebbe così secondo Ipr: Renzi 60%, Emiliano 25%, Orlando 12%.
E così secondo Tecnè: Renzi 63%, Emiliano 21%, Orlando 15%.
Chi dovrebbe guidare il partito nato dalla scissione con il Pd tra Bersani, Emiliano, Speranza e Rossi?
Così si dividono le preferenze degli elettori della nuova formazione politica: Bersani (42% – Ipr; 37% – Tecnè), Emiliano (35% – Ipr; 31% – Tecnè), Speranza (12% – Ipr; 15% – Tecnè), Rossi (8% sia Ipr che Tecnè).
Con chi dovrebbe allearsi il Pd per governare?
La maggioranza indica con la sinistra (55% – IPR; 59% – Tecnè), seguita da Ncd e i centristi (20% – Ipr; 15% – Tecnè), da Forza Italia (2% – Ipr; 3% – Tecnè), dal M5S (5% – Ipr; 1% – Tecnè).
Infine quale percentuale di voti si dividerebbero Pd e nuova forza politica nata dalla scissione alle elezioni politiche?
Il Pd avrebbe secondo Ipr il 22% e secondo Tecnè il 23 per cento al netto degli scissionisti.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
MOLTO DIPENDE DALLE SCELTE DI EMILIANO… IL RUOLO DI DAMIANO E DI ORLANDO
“A.A.A cercasi avversario per primarie che non siano finte e che non siano un flop”. Al Nazareno lo potrebbero scrivere anche in bacheca all’ingresso, visto che da ieri sera, mentre infuriano i venti (incerti) di scissione sul Pd, la ricerca è ufficialmente iniziata.
Matteo Renzi infatti non ha intenzione di fare ulteriori concessioni. Domani, se sarà presente in direzione nazionale, nemmeno prenderà la parola, in quanto da ieri è “segretario dimissionario”, sottolineano dal Nazareno.
Quindi l’ultima richiesta di Michele Emiliano (“Un segnale e resto”) cade nel vuoto. “Renzi parli in direzione”, chiede Francesco Boccia, vicino a Emiliano.
Ma per Renzi e per il reggente Matteo Orfini quella di domani sarà solo una direzione “burocratica” che elegge la commissione congressuale. Il dibattito è finito ieri in assemblea. Il tempo è scaduto.
E allora al Nazareno si mette in conto l’eventuale abbandono del campo da parte di tutti e tre i candidati alternativi a Renzi: Enrico Rossi, Roberto Speranza e anche Michele Emiliano.
Il problema è serio: il segretario fa le primarie da solo?
Da ieri Renzi fa trapelare che Cesare Damiano sarebbe un buon candidato per la sinistra del partito: non ha in mente propositi scissionisti, viene dalla Cgil, insomma può essere una certezza per giocare la partita o almeno una partita.
Già perchè comunque Renzi vorrebbe anche che le primarie siano un successo, con le code ai gazebo. Un partito ferito dalla scissione può garantire questo risultato?
I luogotenenti renziani sono alla ricerca di una risposta. Obiettivo: trovare un modo per rivitalizzare quel che rimarrà del Pd dopo la scissione. Non a caso i renziani la chiamano “abbandono della minoranza”, già sono al lavoro per esorcizzare il demone della spaccatura: almeno con il linguaggio.
Missione: non finire come Forza Italia che ha sempre votato il leader, l’unico leader, Silvio Berlusconi per acclamazione.
Già il passo in avanti di Andrea Orlando, che offre di candidarsi se non c’è la scissione, potrebbe risolvere il problema, dar vita alla battaglia.
Ma se il Guardasigilli non ha truppe non si candida, risulta al quartier generale renziano. “Non vuole fare un congresso finto”, dicono dall’attuale maggioranza del partito. E allora chi? Al di là delle preferenze del segretario — che già è ben strano che sia lui a scegliersi e invogliare l’avversario — lo stesso Damiano conferma con Huffington Post che lui rimane a “presidiare il campo alternativo a Renzi nel Pd”.
E insieme a Gianni Cuperlo è partita anche dalla stessa sinistra la ricerca del candidato da contrapporre al segretario.
Chi sarà , dipende molto dalle scelte finali di Orlando. Ma si tratta di un’area che potrebbe rimettere insieme ex Diessini del calibro di Anna Finocchiaro, ora ministro per i Rapporti col Parlamento, una parte dell’area di Maurizio Martina, se non proprio lo stesso ministro all’Agricoltura che finora è rimasto al fianco di Renzi.
E poi anche una parte di Giovani Turchi, quelli che stanno con Orlando e non con Matteo Orfini, il presidente alleato con Renzi.
“E’ una forza di sinistra che va presidiata, va rappresentata. Anche nel caso in cui corresse pure Emiliano”, ci dice Damiano in Transatlantico alla Camera.
Ecco il punto. Nella sua ricerca di un avversario per giustificare le primarie, Renzi ha chiaro in testa che l’ideale sarebbe avere sfidanti che mobilitano le masse.
E in questo Emiliano è una garanzia: agitatore di popolo, toni alti, un po’ grillino, anti-renziano con stile renziano, alla fine.
Insomma, paradossalmente il governatore pugliese potrebbe rianimare un partito esangue. Se in gara ci fosse anche lui, oltre al candidato della sinistra, il gioco sarebbe fatto. E sarebbe esorcizzato anche l’altro demone: ovvero riproporre alle primarie la vecchia contrapposizione Ds-Margherita, da una parte gli ex Pci, dall’altra Renzi.
Certo, alla fine dei conti, resta da vedere come risponderà la base dopo lo spettacolo di questi giorni.
Sono questi i calcoli della vigilia di una direzione nazionale (domani alle 15 al Nazareno) che – colpo di scena – potrebbe non mettere un punto alla saga della scissione.
Come l’assemblea di ieri, insomma: ancora limbo, a meno che gli scissionisti non decidano di stracciare la tessera e dire esplicitamente addio.
Finora i più chiari in questo senso sono stati Speranza e Rossi, annunciando di non partecipare alla direzione. Ma anche se non entrano nella commissione congressuale che verrà eletta domani, possono sempre entrarci in un secondo momento.
In quanto da statuto la commissione viene integrata di un rappresentante per candidato al momento della presentazione delle candidature ufficiali.
In Transatlantico alla Camera ce lo spiega Antonello Giacomelli, sottosegretario allo Sviluppo Economico, esponente dell’area di Franceschini (Areadem), uno che ieri non ha avuto peli sulla lingua a dire in assemblea “Il congresso si chiude prima delle amministrative”, prendendo la parola subito dopo Emiliano.
“E’ un diritto del candidato alla segreteria avere un proprio rappresentante nella commissione, non un obbligo — dice Giacomelli – E comunque possono entrarci anche solo al momento della presentazione della candidatura ufficiale”.
Al congresso del 2013 la commissione congressuale era composta da 19 esponenti, di cui un solo renziano: Lorenzo Guerini.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
I “NON SO” DI MICHELE EMILIANO INNERVOSISCONO GLI SCISSIONISTI
Aspettando Emiliano. Bersani e i bersaniani lo attendono, per dare un profilo nuovo, oltre la Ditta, al nuovo partito: “Teniamolo agganciato”.
Andrea Orlando riflette sulla sua candidatura pressato dai suoi, parla con tutti, verifica quanto possa andare oltre i confini degli ex ds rimasti dentro, anche in caso di scissione. Ma, soprattutto, aspetta di capire cosa farà Emiliano. Perchè la sua uscita dal Pd è tutt’altro che scontata: “Non so — dice Emiliano — se domani andrò in direzione”.
Dove invece è certo che i bersaniani non andranno. E dunque non parteciperanno al congresso.
In quest’attesa di Emiliano tra i fondatori del nascituro partito c’è un coacervo di tensioni, preoccupazioni, paure che riguardano la vera posta in gioco, ovvero l’entità e il peso della scissione.
Tensioni, preoccupazioni, paure e anche reciproche insofferenze di mondi diversi e opposti.
In Transatlantico i parlamentari della sua corrente attribuiscono a Orlando una battuta fulminante: “È complicato tenere assieme socialismo europeo e grillismo pugliese”. Effettivamente ieri, dopo l’intervento di Emiliano in direzione, con voce rotta e accompagnato da un vistoso “dammi il cinque” a Renzi, cellulari e mail dei bersaniani sono stati inondati: “Scandaloso”, “questo è peggio di Renzi”, “non ci possiamo affidare a uno così”.
Roberto Speranza si è dovuto precipitare a via Barberini, sede della Regione Puglia a Roma, per spiegargli che così è difficile. E mettere nero su bianco un comunicato “Renzi ha scelto la scissione”, dal sapore definitivo ma che definitivo non è, per Emiliano.
Il governatore della Puglia, terra di Taranta e di astuzie levantine, ha trasformato questa attesa già in una campagna per sè, personalistica, grillina, dove i confini tra furbizia e tradimento sono labili sotto i riflettori di questi giorni.
Nell’ultima settimana, nell’ordine, ha pranzato con Silvio Berlusconi (come ha raccontato il Corriere, attraverso una firma sempre affidabile) anche se lo ha smentito. Poi, nella famosa manifestazione di Testaccio, quella di Bandiera Rossa, è stato accolto da capo e da capo ha parlato, attaccando Renzi e quelli attorno al suo “capezzale”, per poi dire che Bersani sì che rispettava una comunità . Applausi che è venuta già la sala.
Dialogante con Berlusconi, cuore rosso con Ditta, dopo tre ore su un Suv è arrivato al congresso di Sinistra Italia, proprio mentre Arturo Scotto stava concludendo il suo discorso della vita.
Lo saluta col give me five poi nell’intervento, consapevole di non essere amato dalla sala, prova a conquistarla lodando il partito che Scotto sta lasciando: “Nichi (Vendola, ndr) sai che ti ho sempre stimato”, “Sei un padre politico per me”, “spero che tuo figlio Tobia mi chiami zio Michele”.
Alla Fondazione ItalianiEuropei sono arrivate valanghe di messaggi, dopo il successivo give me five con Renzi: “Siamo all’avanspettacolo”, “è inaffidabile”. Imperturbabile e inappuntabilmente se stesso, col Pd già alle spalle, il lìder maximo ha suggerito un po’ più di coordinamento politico, da affiancare all’instancabile Roberto Speranza. Che, in questa scissione fatta anche di Narcisi da non ferire, con discrezione e senza enfasi è andato a parlare a Milano con Pisapia, per mettere le basi di un dialogo comune.
Al fondo, oltre alla differenza antropologica tra socialisti europei e grillismo pugliese, c’è anche un gioco politico, sapiente, del governatore della Puglia.
Timoroso di poter diventare solo il volto nella mani dei manovratori “comunisti” D’Alema e Bersani, si arrabbia quando legge sui giornali notizie dei gruppi — per la serie: e chi lo ha deciso? — si fa corteggiare, prepara al tempo stesso il suo ingresso nel nuovo partito da leader ma, al tempo stesso, parla con gli altri.
A Speranza spiega che ha parlato in quel modo a Renzi per stanarlo, perchè così si capisce che è lui che rompe. Poi scambia qualche parola con Guerini, con Franceschini, con tutti: “Io non voglio rompere, però serve un segnale…”.
Nel labile confine tra astuzia e tradimento, che induce Renzi a non dare per scontato il suo addio e strema gli altri, è coccolato, cercato, blandito: “Michele sai che spettacolo le primarie tra te e Renzi” gli dicono gli uni “Michele con te facciamo due cifre” dicono gli altri.
Anche Andrea Orlando aspetta di vedere quale è lo schema. Tutti i suoi parlamentari, in questi giorni, lo spingono a sfidare l’ex premier. Ma non solo. Lo schema è quello di allargare: “Se non si candidasse Orlando — dice un parlamentare a lui vicino – quello che dice Bersani sarebbe un fatto, il Pd sarebbe il partito di Renzi. La sua candidatura potrebbe unire, da Cuperlo a pezzi di cattolici, ma anche veltroniani, Zingaretti, Chiamparino…”.
Però, prima si deve capire cosa farà Emiliano.
I sondaggi dicono che, se c’è lui in campo, non conviene: vince Renzi, Michele è attorno al 30; se non c’è, c’è spazio.
Il tempo grillino è duro per tutti i socialisti europei.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
IPOCRISIA A CINQUESTELLE: SE SI TRATTA DI OLIMPIADE SONO “PALAZZINARI”, SE SI TRATTA DELLO STADIO SONO “COSTRUTTORI”
Lasciando l’hotel romano che lo ospita per andare ad incontrare Virginia Raggi, Beppe Grillo aveva parlato anche di un non meglio precisato “referendum” da tenere sullo Stadio della Roma a Tor di Valle: “Lo stadio? Ancora non so se sarà fatto ma se lo faremo sarà fatto con criteri innovativi e in modo condiviso; prima sentiremo la popolazione interessata dal progetto e con loro potremo costruire una cosa straordinaria”.
Curiosamente, a molti la frase di Grillo era sembrata come l’annuncio dell’indizione di un referendum o di una consultazione popolare.
E questo a scapito dei precedenti, visto che Virginia Raggi in campagna elettorale aveva detto che avrebbe indetto un referendum sulle Olimpiadi salvo poi rimangiarsi la parola.
E anche sullo stadio a quanto pare non si farà nessun referendum: le agenzie di stampa al termine dell’incontro di Grillo con Raggi hanno diffuso una serie di lanci sulle notizie ufficiali riguardo l’incontro.
Da queste si evince che Grillo ha detto a Raggi che la decisione deve essere presa “dagli amministratori capitolini”, senza lasciarsi influenzare “dalle pressioni esterne” (e quindi anche da quelle degli attivisti).
E il referendum?
Al centro del confronto anche il dossier stadio. Al riguardo, sempre a quanto si apprende, Beppe Grillo si è fatto raccontare dal sindaco Raggi tutta la situazione inerente alla possibile realizzazione dell’arena a Tor di Valle, dalla delibera Marino in poi.
Sempre a quanto si apprende Grillo ha manifestato particolare interesse alla questione ambientale e all’impatto zero del progetto e poi ha sottolineato rivolgendosi agli amministratori capitolini che quella finale è una decisione che devono prendere loro e che è importante che non si facciano condizionare dalle pressioni esterne.
Dello stesso avviso anche Davide Casaleggio che ha raccomandato di non lasciarsi influenzare.
Nel corso dell’incontro, durato quasi tre ore, non si sarebbe parlato di un referendum o una consultazione sullo stadio dell’As Roma. All’incontro non hanno preso parte il presidente dell’aula Marcello De Vito e il capogruppo capitolino del M5s Paolo Ferrara.
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
DOPO LA BUFALA SULL’ATTENTATO MAI ESISTITO, TRUMP SE LA PRENDE CON FOX NEWS E CON IL SISTEMA DI ACCOGLIENZA SVEDESE… MA DATO CHE NON SA NEANCHE DI COSA PARLA RIMEDIA UN’ALTRA FIGURA DA PIRLA
Cos’è successo la notte scorsa in Svezia? Secondo il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarebbe successo qualcosa di terribile, un attacco terroristico dovuto al fatto che gli svedesi hanno lasciato entrare nel loro paese troppi immigrati.
Durante un comizio Trump sabato ha utilizzato gli attacchi terroristici nel Vecchio Continente per motivare la sua decisione di vietare l’accesso ai cittadini di alcuni paesi a maggioranza musulmana, ma cosa c’entra la Svezia? Nulla.
«Guardate cosa è accaduto ieri in Svezia, dico la Svezia. Ci ci crederebbe mai?»
Qualche ora dopo Trump ha corretto il tiro e ha spiegato che la sua dichiarazione su quello che era successo “la notte scorsa” in Svezia era in relazione ad un reportage della rete televisiva Fox News sulle difficoltà della Svezia causate dall’eccessivo afflusso di immigrati.
Insomma Trump gioca a scarica barile sui media (sì, quelli accusati di propagandare fake news sul suo conto) ma c’è un problema: a quanto pare Fox News ha trasmesso un’intervista in cui il regista Ami Horowitz accusava il governo svedese di coprire l’impennata di reati, anche sessuali, commessi dagli immigrati.
C’è però da rilevare che Horowitz è americano e vive a New York, mentre gli svedesi fanno sapere che il tasso di criminalità è in costante diminuzione dal 2005, e che se sono aumentati i reati sessuali è perchè sono stati allargati i criteri per classificarli come tali.
Nel frattempo anche l’ambasciata svedese negli Stati Uniti ha twittato a Trump per rendersi disponibile a fornire informazioni ufficiali e attendibili all’amministrazione statunitense riguardo i dati statistici sull’immigrazione e soprattutto sulle strategie adottate dalla Svezia per favorire l’integrazione dei cittadini di origine straniera.
Ed in effetti è questa la differenza principale: la Svezia ha investito molte risorse (economiche e culturali) per rendere il paese sicuro attraverso l’integrazione e continuando ad accogliere gli stranieri.
Questo però non sembra essere stato compreso da Trump che invece continua a raccontare ai cittadini USA che in Svezia non è vero che le cose vanno tutte bene e che l’immigrazione su larga scala funziona alla meraviglia.
In parole povere il Presidente Trump sta accusando gli svedesi di mentire riguardo al proprio Paese, cosa che potrebbe causare un serio incidente diplomatico se non fosse che ormai tutti hanno compreso che persona è Trump e quindi preferiscono lasciarlo parlare e continuare a indottrinare il suo elettorato.
Ma non è solo il Governo svedese a essere irritato dalle dichiarazioni di Trump.
Il conduttore di Fox News Chris Wallace ha duramente attaccato Reince Priebus, il capo di gabinetto della Casa Bianca, rinfacciandogli l’atteggiamento ostile di Trump che avrebbe “passato il segno” accusando i giornalisti di essere nemici del paese e del popolo americano.
Si potrebbe argomentare che oltre al fatto che molti degli attentatori dell’ISIS in Europa erano cittadini europei e non stranieri quello che è successo a Bruxelles, a Parigi, a Nizza e a Berlino è anche la conseguenza della gestione statunitense del conflitto iracheno che ha portato alla deposizione di Saddam Hussein e che ha creato il terreno fertile per la nascita dell’ISIS.
Si potrebbe parlare di come l’ultima guerra in Iraq sia stata basata sulla più grande fake news del secolo: il ritrovamento di prove del fatto che Hussein stesse facendo costruire armi chimiche.
Prove che sono state mostrate dall’allora Segretario di Stato di George W. Bush Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e si sono rivelate essere completamente e indubitabilmente false.
Ma in fondo ha ragione Trump, perchè qualcosa in Svezia è successo davvero.
Il tre febbraio il quotidiano online TheLocal.se riferiva dell’arresto dei responsabili di un attacco dinamitardo ad un centro di accoglienza per rifugiati a Goteborg avvenuto il 5 gennaio.
A quanto pare l’attentato è stato compiuto da un gruppo di neonazisti svedesi. Nell’assalto un dipendente dell’ufficio immigrazione che si occupava di fare le pulizie nel centro è rimasto gravemente ferito alle gambe.
L’ultimo attentato terroristico di matrice islamica in Svezia risale invece al 2010 quando un cittadino svedese di origine irachena si è fatto esplodere a Stoccolma. L’unica vittima è stata l’attentatore.
Di fatto però al netto di tutte le giustificazioni addotte da Trump “la notte scorsa” non c’è stato alcun attentato terroristico o altro grave fatto criminale in Svezia.
Gli svedesi però si sono messi alla ricerca di prove su quello che è successo #lastnightinSweden e incredibile a dirsi: le hanno trovate. U
n’invasione di pupazzi di neve dal nord a causa del riscaldamento globale (un’altra fake news per Trump che sostiene non esista).
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
E BOSSI POTREBBE ESSERE CANDIDATO IN FORZA ITALIA, DA SOLO VALE IL 3%…. ASSE CON MARONI E ZAIA PER EMARGINARE SALVINI
«La sinistra è andata in frantumi. Questo è il nostro momento, abbiamo la vittoria a portata di mano». Silvio Berlusconi ha seguito la due giorni del teledramma Pd in diretta raccontano — neanche fosse il suo partito. E ora suona la carica.
L’esito è più o meno quel che sperava: Renzi indebolito, centrosinistra retrocesso quale terza coalizione, il centrodestra (unito) che l’ultimo sondaggio attesterebbe primo col 33 per cento.
Sempre che i cocci di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia si possano ancora ricomporre. Già , questo il punto. E a questo il Cavaliere ora vuole lavorare, nonostante Salvini, possibilmente aggirando l’ostacolo.
«Dobbiamo ricostruire il centrodestra, non abbiamo alternative, ma non certo per consegnarlo a Matteo », va ripetendo.
E allora eccolo il piano di accerchiamento messo a punto negli ultimi giorni per neutralizzarlo.
Berlusconi, va da sè, sogna di essere ancora lui in campo e alla guida della coalizione, di essere candidabile al Senato dopo un colpo di spugna della Corte Europea, tanto più con un sistema proporzionale che non obbligherebbe alla scelta preventiva di un candidato premier.
Ma il tempo non gioca a suo favore e le ultime vicende pd potrebbero precipitare in effetti verso il voto anticipato. Allora bisogna correre ai ripari. Salvini è già al lavoro per organizzare primarie per la leadership del centrodestra l’8 e 9 aprile assieme alla Meloni e a Fitto, col solo obiettivo di mettere fuori gioco (e per sempre) l’ottantenne capo forzista?
Bene, l’ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi e al fuori gioco risponde “alla Sacchi”, come dice lui, cioè aggredendo, con la tecnica cara all’allenatore del suo Milan che più ha amato.
E l’uomo sul quale punta per spaccare i nemici interni è proprio un leghista: il governatore veneto Luca Zaia.
Lo ha sentito nei giorni scorsi, un mezzo impegno per vedersi al più presto, anche in una località del suo Nordest, il tutto possibilmente in via riservata.
L’amministratore è già sponsorizzato per la leadership dal collega lombardo Roberto Maroni (vicino a Berlusconi e avversario di Salvini), è gradito per quanto possa ancora contare a Umberto Bossi — tornato ospite a Villa San Martino ad Arcore come ai vecchi tempi — ed è uno dei presidenti di Regione col più alto tasso di gradimento. Il Cavaliere non ha dubbi: «E’ su di Luca che dobbiamo puntare, gli ho parlato, vedrete che la spunterò».
Cosa possa offrire su un piatto d’argento al governatore, al punto da indurlo a fermare il treno già in corsa di Salvini, non è molto chiaro neanche ai fedelissimi berlusconiani.
Sta di fatto che i più avveduti e smaliziati hanno notato come dopo mesi di assoluto silenzio sulla politica nazionale, il restio Zaia la scorsa settimana è partito alla carica contro il leader Pd, quasi da avversario alla pari: «Renzi sia sincero, dica che vuole ridare vita alla Dc». E ancora: «Il Pd ormai è un frullatore di correnti».
Ma Berlusconi — che nelle interviste predica unità del centrodestra — non si ferma qui, nell’accerchiamento a Salvini.
Ha fatto sondare anche quella candidatura dell’amico Bossi in Forza Italia, ventilata nei giorni scorsi. Ebbene, gli hanno detto che varrebbe da sola il 3 per cento. Tre punti per Fi e ovviamente tre in meno per la Lega: non pochi se si considera che i due partiti in questo momento sono dati alla pari, in una sorta di derby attorno al 13 per cento. Giorgia Meloni sta dalla parte di Salvini.
Ieri ai due si sono rivolti Gianni Alemanno e Francesco Storace col loro appello all’unità della destra sovranista, lanciando il loro nuovo movimento.
Il Cavaliere lavora sotto traccia anche alla nuova squadra di parlamentari, salvando giusto una trentina di vecchie “glorie”.
Nelle ultime settimane ha spedito in vari talk tv di seconda fascia e testato un drappello di «volti giovani e rassicuranti », under 40 selezionati tra un centinaio nei “talenty” allestiti ad Arcore.
Dalla ex vicesindaca di Padova Eleonora Mosco al sindaco di Perugia Andrea Romizi, dal consigliere lombardo Pietro Tatarella al capogruppo pugliese Andrea Caroppo. Sarà la nuova squadra in batteria per tg e talk.
Ma l’allenatore resta sempre lui, Silvio.
Carmelo Lo Papa
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
UNA TESTIMONE HA CERCATO DI BLOCCARLO… SARA’ STATO AFFETTO DA DELIRIUM SOVRANISTA (O SI SARA’ NASCOSTO SU UNA PALMA?)
Un ragazzo italiano, di circa vent’anni, ben vestito, con un cappotto montgomery. Forse uno studente, molto probabilmente un italiano, che fugge verso la Galleria.
E’ questo il profilo di uno dei vandali che, sabato sera a tarda ora, hanno dato fuoco alle palme di piazza Duomo a Milano,
L’identikit è stato fatto oggi negli uffici della Polizia locale da una donna, testimone di quanto è accaduto in piazza nella notte tra sabato e domenica.
“Ho cercato di fermarlo, ma lui si è divincolato, gli ho chiesto se si rendesse conto di quanto aveva fatto, ma è scappato. Sarei comunque in grado di riconoscerlo”, ha raccontato agli agenti.
La testimonianza viene incrociata con i filmati delle telecamere puntate nella piazza e delle vie vicine, che mostrano diverse persone avvicinarsi alle alte cancellate che proteggono l’aiuola, visto che è ancora aperto il cantiere, proprio nei momenti in cui tre palme vengono prese di mira e una prende fuoco.
L’attenzione sull’atto vandalico di piazza Duomo è alta, anche per le polemiche dei giorni scorsi sull’arrivo delle palme e dei banani in piazza Duomo.
Per questo dagli investigatori arriva l’appello al gruppo di ragazzi che avrebbe provocato l’incendio a uscire allo scoperto e a presentarsi negli uffici della Polizia locale.
Un ringraziamento alla testimone per il suo senso civico arriva dall’assessora alla Sicurezza Carmela Rozza.
“Stiamo analizzando anche i video forniti dai privati delle telecamere rivolte verso piazza Duomo – aggiunge il comandante della Polizia locale Antonio Barbato – per cercare di avere una chiara immagine del volto del giovane che, dopo aver acceso il fuoco, sembra si sia diretto verso la Galleria”.
Ribadisce Rozza: “Fossi in quel ragazzo eviterei di farmi rintracciare dalla Polizia locale e mi presenterei chiedendo scusa per il danno fatto, sia reale che di immagine alla città di Milano”.
Mentre gli investigatori stanno cercando di risalire agli autori del gesto vandalico, su Facebook gira il post scritto giovedì scorso da un gruppo di sedicente estrema destra che annunciava: “Noi bruceremo le palme ed i banani. Unisciti a noi. Simbolicamente daremo fuoco, per qualche attimo, ad uno dei banani piantati in piazza del Duomo a Milano”.
Magari la prossina volta possono combattere il sionismo bucando i pompelmi Jaffa o il capitalismo sgasando la Coca Cola.
Ovviamente non arriveranno mai ad annacquare la Vodka, altrimenti il loro amico imperialista Putin, ex agente del Kgb comunista, si incazza.
Godetevi le palme per ora, contro le insolazioni ideologiche fanno ancora ombra a sufficienza.
(da agenzie)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
LA RESPONSABILITA’ PRIMARIA E’ DI RENZI, MA PURE DI CHI HA TACIUTO ANCHE IERI E CHE ORA DOVRA’ RIEMPIRE LA PROPRIA DECISIONE DI CONTENUTI POLITICI E NON SOLO DI CAVILLI BUROCRATICI
Tanto fu tormentata e complessa la nascita del Partito democratico, quanto sarà lenta e penosa la sua agonia.
Ma la “cerimonia degli addii” è cominciata. Se non si è consumata definitivamente al Parco dei Principi è solo per il solito gioco del cerino. nessuno, di fronte a uno sgomento “popolo della sinistra”, vuole assumersi la responsabilità formale della rottura.
Ma il partito “nato morto” (secondo la cruda ma purtroppo vera definizione di Massimo Cacciari) ha perso l’ultima occasione per dimostrarsi all’altezza della Storia. Non c’erano grandi speranze, dopo l’inutile spargimento di veleni degli ultimi giorni. Ma all’assemblea di ieri nessuno, tra quelli che avrebbero dovuto evitare lo strappo, è stato in grado di riempire il ruolo, con la serietà e la solennità che il momento richiede.
Gianni Cuperlo ha evocato un’immagine: la corsa suicida di “Gioventù bruciata”, dove il leggendario James Dean e il suo rivale Buzz si lanciano la “sfida senza pareggio”.
Due macchine a tutta velocità verso il burrone: vince chi si butta dalla macchina per ultimo. Citazione drammatica, ma perfetta. Renzi e i suoi avversari non hanno fermato la corsa, nè si sono buttati dalle rispettive macchine, che ora viaggiano serenamente verso il baratro.
La responsabilità primaria pesa tutta sull’ex segretario.
Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella “comunità di senso e di destino” che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd.
Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d’uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso.
Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map “da combattimento” e i suoi tre anni di governo.
Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla “sfida” ai “ricatti”) e il solito schema concorrenziale (“Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso”).
Soprattutto, non ha fugato l’atroce sospetto rivelato dal “fuorionda” di Delrio: “I renziani pensano che la scissione convenga, perchè così diminuiscono le poltrone da distribuire…”. La vera posta in gioco può essere il potere, e non l’identità ?
La responsabilità secondaria grava sugli “scissionisti”.
Quelli sicuri (come Rossi), quelli probabili (come Bersani e Speranza) e quelli indecifrabili (come Emiliano).
I primi hanno taciuto, mentre nel giorno dell’Armageddon democratico sarebbe stato doveroso sentir parlare dal palco (e non dalle telecamere Rai) chi ha sempre detto di avere a cuore il destino della “ditta”.
Il terzo ha tentato una furba mediazione finale, imprevista e improbabile. Ora tutti i “compagni del Teatro Vittoria” avranno comunque un gigantesco problema: riempire la scissione di nobili contenuti politici, e svuotarla di incomprensibili cavilli burocratici. Una grande forza di sinistra, che pensa se stessa come partito riformatore di massa, può sfasciarsi solo in nome dei valori fondanti: una diversa idea dell’Europa, della difesa del welfare universalistico e dei diritti del lavoro, della Costituzione formale e materiale.
La vera posta in gioco può essere la data di un congresso o la “gazebata” delle primarie?
Sullo sfondo, rimane la testimonianza più convincente, ma anche più dolente, di chi le guerre intestine del Pd le ha patite sulla sua pelle.
Veltroni, Fassino, lo stesso Cuperlo difendono le ragioni di un’idea che, se mai è esistita, si è smarrita da tempo, seminando il campo di troppe macerie.
E anche qui sta la miopia di chi oggi, nel Palazzo d’Inverno renziano, crede di poter resistere tranquillamente ma ferocemente all’amputazione di una sua parte.
Solo chi resta in macchina con il piede fisso sull’acceleratore può non capire che, dopo la scissione, il congresso-lampo con il “candidato unico” sarà una farsa.
E il tentativo di fare del Pd una forza popolare, riformista e progressista, sarà precipitata per sempre nel burrone.
Al suo posto, invece del grande partito-baricentro del sistema politico italiano, resterà un medio partito di centro, che non intercetterà il mitico “voto moderato”, ma raccoglierà tutt’al più qualche rottame della nomenklatura ex democristiana.
Nel frattempo, arriveranno il referendum sui voucher e le elezioni amministrative.
Con che faccia li affronta, questo centrosinistra in frantumi, è impossibile capirlo.
E fanno pietà i “volontari carnefici” dei due fronti divisi, che fanno calcoli patetici, sondaggi alla mano, sul “potenziale elettorale” del Pd ridotto a Renzi e della Cosa Rossa ridotta a D’Alema.
Dopo un trauma come questo, sono conti della serva, di cui le urne faranno giustizia.
E sempre nel frattempo, come già successe a Prodi nel 2008, sul governo Gentiloni precipiteranno tutti i tormenti e i risentimenti di questa sinistra pulviscolare e neo-proporzionale.
Un governo che deve durare fino al 2018, e che senza più l’ombrello di Draghi deve gestire una legge di stabilità che incorpora già 20 miliardi di clausole di salvaguardia e una crisi delle banche sempre più acuta. Con che spalle li sostiene, questo premier “a responsabilità limitata”, è difficile immaginarlo.
In questo penosa “eutanasia democratica” riecheggia una delle grandi figure della sinistra novecentesca: quel Pietro Ingrao che nel 1993, dopo la Bolognina e la svolta di Occhetto (che non condivideva), decise comunque di “restare nel gorgo”, perchè il neonato Pds era l’unico luogo di un possibile cambiamento di un’Italia devastata dal dopo Tangentopoli. Allora come oggi, il Pd sarebbe stato il posto per azzardare lo stesso tentativo.
Ma è troppo tardi.
Il “gorgo” non è più sinonimo di un formidabile movimento, ma solo metafora di un inesorabile inabissamento.
E mentre risucchia le schegge impazzite del centrosinistra, quel “gorgo” alimenta l’onda populista e sovranista.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 20th, 2017 Riccardo Fucile
40 DEPUTATI E 20 SENATORI, I NUMERI IN PARLAMENTO DELLA COSA ROSSA DI BERSANI E D’ALEMA
Quanto vale la Cosa rossa in Parlamento?
È una corsa frenetica, in queste ore, per capire quanto possono pesare in Parlamento gli scissionisti potenziali del Partito democratico.
Il Corriere della Sera prova a fare i conti
“La conta in Parlamento dà attualmente una cifra che per la Camera oscilla tra i 40 e i 47 deputati e per il Senato di 20 senatori. Occorrerà capire chi deciderà davvero di compiere il gran salto e chi resterà fedele al partito. I bersaniani sono il gruppo più folto. Oltre a Speranza, ci sono Davide Zoggia, Nico Stumpo, Roberta Agostini, Eleonora Cimbro e i senatori Miguel Gotor, Paolo Corsini e Federico Fornaro. Se anche Emiliano, come pare, decidesse di smarcarsi, con lui ci sarebbero Francesco Boccia e Dario Ginefra”.
Non solo. C’è poi, sottolinea il Corriere della Sera, c’è “l’incognita Rosy Bindi, silente in questi giorni, che però per ricandidarsi nel Pd avrebbe bisogno di un’ennesima deroga, che i renziani ormai dominanti non sarebbero entusiasti di concedere”.
E soprattutto c’è anche Massimo D’Alema, il cui consenso, almeno a vedere il parterre del movimento “ConSenso”, spazia dalla Cgil all’Arci.
A questa galassia si aggiunge poi il governatore della Toscana, Enrico Rossi che “non conta su una rappresentanza parlamentare, ma sta lentamente costruendo una rete capillare sul territorio”.
Repubblica dà già il nome dei gruppi parlamentari che nasceranno dalla scissione nel Pd: Nuova sinistra-diritti e lavoro.
I numeri: “alla Camera vengono dati per sicuri 22 deputati bersaniani in uscita.
Si uniranno ai 16 che firmarono per la candidatura di Arturo Scotto alla segreteria di Sinistra italiana. Scotto si è poi legato al nuovo progetto Pisapia e unirà le forze con i fuoriusciti del Pd.
Così si costituisce un gruppo di 38 deputati. Al Senato Scotto non ha truppe. Ma i bersaniani sono tra i 12 e i 15, sufficienti per formare un gruppo autonomo, avere un capogruppo, ottenere i finanziamenti destinati alle forze presenti alle Camere”.
(da “La Repubblica”)
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