Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
BERDINI NON CI PENSA A DIMETTERSI MA E’ DIFFICILE TROVARE CHI PRENDA IL SUO POSTO PER AVALLARE LO STADIO
Paolo Berdini resiste ancora un giorno. La ragione sembra essere sempre la stessa: non è stato ancora trovato chi lo possa sostituire.
Ma i contatti tra Genova dove si trova Beppe Grillo in convalescenza e Milano dove ha sede la Casaleggio associati sono continui e al vaglio ci sarebbero diversi nomi. L’assessore capitolino all’Urbanistica nei fatti aspetta di essere cacciato, non sarà lui a fare un passo indietro anche perchè – viene fatto notare – le sue dimissioni sono state respinte.
Ormai però il sindaco di Roma Virginia Raggi e Berdini sono ai ferri corti dopo la lettera firmata dall’assessore comparsa oggi sul Fatto Quotidiano: “Continuo a leggere interviste e dichiarazioni. Sinceramente non so dove trovi il tempo. C’è da lavorare e da lavorare tanto — ha commentato la sindaca – noi lavoriamo anche fino a notte fonda. Lui sa bene che ci sono dei dossier da portare avanti e per senso di responsabilità nei confronti di Roma e dei cittadini dovrebbe farlo. Poi vi dico, la pazienza delle persone ha un limite…”.
Parole che lasciano intravedere una fine annunciata e in questa chiave Berdini ha voluto rivendicare ciò che ha fatto in questi mesi.
Tutti a Palazzo Senatorio sanno che è solo questione di tempo.
Il sindaco — spiegano — sta facendo le sue verifiche sul lavoro svolto da Berdini. In serata ha incontrato i consiglieri M5S e sono state tante le voci critiche si sarebbero levate rispetto all’operato dell’assessore, ma ci sarebbero anche alcuni consiglieri contrari ad allontanarlo.
Il nodo però resta comunque il nome del sostituto in un momento così delicato in cui in ballo c’è la realizzazione dello Stadio della Roma.
Così si è svolta una votazione tra i consiglieri che hanno deciso di affidare l’ultima parola sulla permanenza o meno in giunta dell’assessore ad una due diligence, già avviata, sul suo operato.
Alfonso Bonafede, emissario di Grillo in Campidoglio, arrivato a Palazzo Senatorio alle dodici e mezza di questa mattina, lasciando l’ufficio in tarda serata ha ribadito che “la sindaca da tre giorni sta facendo le sue valutazioni”.
Mentre il vicesindaco Luca Bergamo ha aggiunto: “Novità su Berdini le saprete tra qualche giorno”.
Giusto il tempo necessario per trovare un nome e non cacciarsi di nuovo in una ricerca spasmodica come fu per l’assessore al Bilancio.
La sindaca è comunque intenzionata, in una fase come questa dove pesano il dossier sullo stadio della Roma e il lavoro da portare avanti sull’edilizia popolare, a non tenere per sè le deleghe ed è per questo che ci vorrà qualche giorno.
Durante la riunione di maggioranza, alla quale hanno partecipato anche i consiglieri regionali Davide Barillari e Gianluca Perilli, si è discusso del tema stadio, secondo quanto viene riferito.
Presente in Campidoglio anche Paolo Pace, presidente del municipio di Tor di Valle dove dovrebbe sorgere lo stadio dell’As Roma.
L’avvocato Luca Lanzalone, che da qualche tempo affianca il Campidoglio sul dossier Stadio della Roma, tuttavia smentisce: “Se abbiamo parlato di stadio? Oggi no l’incontro è domani. Abbiamo parlato di tutt’altro. Se abbiamo parlato di Berdini? Per carità , non mi compete e non mi sembra il caso”.
A chi ha chiesto se l’eventuale mancanza dell’assessore all’urbanistica inciderà sul dossier risponde: “Non spetta a me dirlo. Se sarà più facile? Non credo, è un discorso corale non legato a una sola persona”.
Il responso sembra scritto: si va verso una riduzione delle cubature di circa il 25%. Berdini chiedeva invece una revisione radicale di tutto il progetto.
Intanto dal web parte l’appello al garante Beppe Grillo: “Beppe facce vota’”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
UNA FEROCE OFFENSIVA DAL DANNO INCALCOLABILE CHE SI E’ PROTRATTA PER TUTTO IL 2016… IL GOVERNO NON DICE NULLA, I SOVRANISTI D’ACCATTO TACCIONO PER NON SCONTENTARE IL LORO PADRONE
Le intrusioni di hacker al ministero degli Esteri, ma anche alla Rappresentanza italiana a Bruxelles e alla Difesa sono continue.
La nostra intelligence registrando in tempo reale queste incursioni ha lanciato l’allarme alle autorità competenti da tempo, evidenziando gli attacchi che sarebbero durati almeno per tutto il 2016. Eppure si è preferito negare.
Ora l’Espresso è in grado di ricostruire ciò che è avvenuto e che fino adesso è rimasto coperto da segreto.
Qualche giorno fa il quotidiano ‘The Guardian’ ha rivelato che la Farnesina è stata vittima di una cyber intrusione nella primavera del 2016. Le nostre autorità hanno confermato, ma si sono affrettate ad assicurare che nessun documento sensibile è stato trafugato e che in ogni caso, una volta scoperto l’hackeraggio, hanno introdotto nuovi sistemi per rafforzare la sicurezza.
E’ ottobre quando al ministero degli Esteri si accorgono che tutta la rete informatica è controllata da un’entità esterna.
La nostra intelligence ha lanciato l’allarme da tempo, nel 2015 e ancora nel 2016, ma nulla. S’è preferito negare l’evidenza, fino a che l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, primo segretario generale donna della Farnesina, nominata solo pochi mesi prima, prende sul serio la minaccia e cerca di porre rimedio.
E’ molto preoccupata, l’intera rete potrebbe essere compromessa, inclusi i server dei passaporti diplomatici e dei visti.
Il rischio è che entrino in territorio italiano o circolino con documenti italiani persino potenziali terroristi. Bisogna intervenire in fretta.
Chiama così a rapporto le miglior professionalità ed è ferrea: l’imperativo è risolvere il problema. Al tavolo si siede un team interministeriale sotto l’alta direzione del CNAIPIC, il Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia Postale.
Lo stesso che in quei mesi si interroga sulle potenzialità sovversive del malware dei fratelli Occhionero, dimenticandosi di avvertire il capo della Polizia.
Dopo due mesi di lavoro si comprende che tutta la rete, ambasciate comprese, è stata bucata.
Una feroce offensiva che ha dato accesso a tutte le informazioni sul personale diplomatico, militare e probabilmente dei servizi segreti operante in Italia ed all’estero, a tutte le mail, alti vertici compresi, nonchè a tutta la documentazione informatizzata proveniente ed indirizzata verso le sedi diplomatiche italiane, insomma un danno incalcolabile.
Gli hacker possono prendere qualunque documento memorizzato nella rete del ministero degli Affari Esteri.
Non sono riusciti ad aggredire i documenti classificati, ma non vi è certezza che non se ne siano impossessati perchè se è vero che non hanno avuto accesso alla rete di trasporto criptata, hanno però attaccato quella dello storage.
Un problema a cui ancora non è stata individuata una soluzione.
L’aggressione è infatti proseguita dopo la primavera del 2016, anche se si è preferito negare. Meglio dire di non essere attaccati, soprattutto se si è colpiti duramente.
E’ la regola con cui l’Italia risponde alla cyber guerra in corso: far finta di niente e dire che va tutto bene.
Le talpe stanno facendo intrusioni da anni, rimangono in sonno per un periodo e poi ritornano ad agire.
Va avanti almeno dal 2013. Eppure dal ministero si affrettano a dire: «a seguito del primo attacco c’è stato un intervento di rafforzamento», «i dossier più importanti vengono consegnati solo a mano», di più: per fortuna l’allora ministro degli Esteri e ora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni «non adoperava le email, lui è un uomo tutto penna e inchiostro».
Sembrano essere queste le uniche difese a disposizione del Paese quando si parla di protezione dei dati informatici. Tanto che la sicurezza internet della Farnesina è stata affidata prima a una multinazionale fondata in Russia, la Kaspersky, poi finita al centro di diversi scandali internazionali, quindi agli americani.
Ma gli attacchi non si limitano al ministero degli Esteri.
Lo scorso anno pirati informatici sono entrati nella rete della Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea guidata prima da Carlo Calenda, poi diventato ministro dello Sviluppo economico, e quindi dall’ex ambasciatore al Cairo Maurizio Massari. Decine e decine di gigabyte contenuti nei server sono finiti nelle mani di hacker. Documenti riservati in grado di determinare effetti gravissimi sulle partite economiche e politiche, a partire dalle decisioni commerciali ed energetiche comprese quelle sulla costruzione di gasdotti dalla Russia verso l’Europa.
E poi c’è il ministero della Difesa.
Anche qui un nuovo attacco nel corso del 2016. Gli hacker sono entrati nella mail del sottocapo di Stato Maggiore e dell’ufficio del consigliere diplomatico presso la Difesa, quello che svolge, in raccordo con le strutture del ministero, le attività di supporto al ministro per i rapporti internazionali e comunitari.
Le aggressioni a MAE e Difesa sono continue e incrociate. La tecnica è sempre la stessa: un attacco persaviso e persistente che si è mosso attraverso la rete degli addetti delle Forze Armate all’estero e nei teatri di maggiore rilevanza strategica dall’Est Europa alle nostre basi nella penisola arabica.
Un’offensiva costantemente in atto che desta non poche preoccupazioni ai massimi vertici militari per la difficoltà di arginare la continua fuoriuscita di documentazione e di informazioni che possono effettivamente minare la sicurezza nazionale.
Il rischio è enorme tanto che la prima reazione un anno e mezzo fa è stata quella di spegnere l’intero sistema informatico.
Sono seguite riunioni ai massimi livelli e alla fine s’è capito ed ammesso che per mesi qualcuno s’era infilato nella rete di via Venti Settembre.
«Niente di criptato relativo alla sicurezza nazionale è stato sottratto», hanno garantito e «nessun dato sensibile è stato compromesso», tanto che la Difesa ha prontamente rilevato la minaccia e ha attuato con successo le attività di contrasto all’azione ostile.
Invece quell’aggressione è continuata sicuramente fino a tutto il 2016. Alcuni computer sono connessi con quelli della Nato e gli hacker, secondo gli analisti, potrebbero usare l’Italia come porta d’accesso ai segreti militari e strategici del Patto Atlantico.
Più o meno in contemporanea con il primo attacco documentato in Italia, sono stati aggrediti anche altri Stati europei: in Belgio, viene intercettato il cablo con cui il Pentagono chiedeva agli alleati «copertura strategica» per la base di Souda Bay, a Creta. E’ il punto di riferimento statunitense per il Medio Oriente, da dove si monitora la situazione della Siria e dell’Iraq.
Del resto, notano i nostri esperti in cyber security, la stessa metodologia di attacco alla Farnesina, fatta da un gruppo specializzato in sottrazione di documenti diplomatici, è stata perpetrata in Grecia, dove sono state trafugate le linee di trattativa tra il governo e la BCE, in Portogallo, in Norvegia e in paesi come la Finlandia che non fanno parte della NATO, ma sono vicini alle posizioni del Patto Atlantico.
Floriana Bulfon
(da “L’Espresso”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
VIDEO ONLINE E CLIP VIRALI CON MIGLIAIA DI VISUALIZZAZIONI PER QUELLO CHE ORMAI E’ CONSIDERATO UN INNO ANTIRAZZISTA
Da Genova, Mohamed Kaabour e il figlioletto Adam cantano a cappella sulle note di Toto Cutugno.
Da Padova gli risponde Ada Ugo Abara: “Sono un’italiana, un’italiana vera”.
Il testimone non si ferma: vola a Reggio Emilia da Marwa Mahmoud e arriva a Roma da Paula Vivanco. Tutti assieme a squarciagola, chi intonato, chi un po’ meno: “Lasciateci cantare, con la chitarra in mano, lasciateci cantare siamo italiani”.
I video postati su Facebook diventano subito virali. Con alle spalle l’ultimo Sanremo, il movimento degli “Italiani senza cittadinanza” ricorda così, cantando, lo stallo della legge sullo ius soli, parcheggiata da mesi al Senato.
Legge ferma da 15 mesi: “In piazza il 28 febbraio”.
Un passo indietro: la legge sulla cittadinanza è ferma al Senato da ben 15 mesi. Oggi chi nasce in Italia da genitori stranieri resta straniero fino alla maggiore età . Di una riforma della legge (ferma al 1992) si parla da anni.
Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato lo ius soli temperato, che consente ai figli di immigrati nati o cresciuti qui di diventare italiani.
Da allora però il testo è rimasto chiuso nei cassetti della commissione Affari costituzionali del Senato, sotto il peso di oltre 7mila emendamenti presentati in gran parte dalla Lega Nord.
A inizio mese, la conferenza dei capigruppo ha deciso che i senatori dovrebbero iniziarne l’esame a partire dal 14 febbraio, ma solo dopo il termine dei lavori in commissione. Insomma il rischio è di tempi ancora lunghi, tanto che gli “Italiani senza cittadinanza” si preparano a tornare in piazza il 28 febbraio a Roma per protesta.
La protesta con la canzone di Cutugno.
Dopo aver manifestato, aver scritto cartoline ai parlamentari e una lettera aperta al direttore di Repubblica, gli “Italiani senza cittadinanza” si sono messi a cantare sul web. Il senso dell’iniziativa è nelle parole scritte su Facebook da Mohamed Rmaily: “Ho deciso di fare il video per la nostra causa di ‘italiani senza cittadinanza’ con la canzone che forse più di tutte rappresenta l’essere un italiano vero. Con la maglietta della Fir (Federazione italiana rugby). E con le medaglie vinte quando giocavo a rugby con la mia squadra, che mi ricordano l’amarezza passata nel non poter partecipare alle selezioni nazionali giovanili. Tra le tante discriminazioni che subiamo come ‘italiani senza cittadinanza’, infatti, c’è anche l’impossibilità di poter giocare con le nazionali italiane e poter manifestare i nostri sogni sportivi per la mancanza del passaporto del Paese dove siamo nati e cresciuti. Ora, io questo treno in partenza non lo potrò più prendere (si dice che “i treni passano una solo volta nella vita”), ma non neghiamo ai sogni di tanti bambini e bambine di poter volare in alto e rappresentare i colori della nostra Nazionale e del nostro tricolore nel mondo. #RiformaCittadinanzaSubito per permettere ai sogni di non avere confini. #Senatorispondi!».
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
ALLA FINE EMERGE CHE CONTI HA REGALATO AI TERREMOTATI L’INTERA CIFRA CHE HA GUADAGNATO NELLE 5 SERATE E CHE TOTTI HA GIRATO IL COMPENSO DELLA SUA APPARIZIONE PER L’ACQUISTO DI UN MACCHINARIO PER LA FAMIGLIA DI UN RAGAZZO DISABILE… PER SALVINI INVECE LA MONETA E’ “SOVRANA” (NELLE SUE TASCHE)
Si è conclusa con ottimi risultati in termini di ascolti la sessantasettesima edizione del Festival della Canzone italiana di Sanremo.
La media degli ascolti della serata finale di Sanremo è stata di 12 milioni 22 mila spettatori con il 58.4% di share, il miglior risultato dal 2002. Le cinque serate del Festival di Sanremo 2017 hanno raggiunto in media il 50.7%, il miglior share dal 2005, con 10 milioni 848 mila spettatori.
Un risultato eccezionale con buona pace di tutti coloro che per varie ragioni avevano lanciato un appello per chiamare a raccolta gli indignati che chiedevano il boicottaggio del Festival.
Una delle critiche principali al Festival riguardava il fatto che la Rai avrebbe potuto devolvere il denaro destinato a cachet di artisti e conduttore a favore delle popolazioni terremotate (come ha sostenuto ad esempio Matteo Salvini).
Per costoro il Festival era solo un enorme spreco di denaro pubblico ma non è così perchè — da quando lo conduce Carlo Conti — il Festival è tornato ad essere in attivo generando, principalmente grazie agli incassi della raccolta pubblicitaria, utili pari a sei milioni di euro nelle scorse edizioni.
Negli ultimi due anni il Festival ha chiuso in attivo.
I costi dell’edizione 2016 Festival si aggirano attorno ai 16 milioni di euro (quest’anno dovrebbero essere 15,5) mentre con la raccolta pubblicitaria la Rai ha incassato intorno ai 21 milioni di euro ai quali vanno aggiunti gli incassi dei biglietti e altri ricavi che portano i guadagni netti a 24,6 milioni nel 2016 e 23,9 nel 2015.
Senza investire quei soldi la Rai non avrebbe potuto portare gli utili intorno ai sei milioni di euro.
E quest’anno Fabrizio Piscopo, Ad di Rai Pubblicità puntava a 25,5 milioni di euro di raccolta e soprattutto ad abbattere il muro del 50% di share. È legittimo ritenere che quest’anno il Festival sia stato un successo anche dal punto di vista economico, in linea con i conti fatti da Silvia Truzzi sul Fatto che parlava di “sette milioni di buone ragioni” per tacere sui costi del Festival.
In conferenza stampa Carlo Conti ha mostrato un bonifico da 100 mila euro a favore della Protezione Civile “pari alla cifra netta per la conduzione del Festival” sottolineando che essendo il netto su quella cifra ci pagherà le tasse: “altrettanto pago di tasse e sogno che queste tasse vadano agli eroi di tutti i giorni che ho portato sul palco”.
Il riferimento è stato soprattutto agli uomini della Protezione Civile, della Croce Rossa, del Soccorso Alpino, dei Vigili del Fuoco e delle forze dell’ordine che sono stati invitati alla serata inaugurale del Festival 2017.
Visto che si è parlato tanto di numeri, voglio dirlo. Visto che la vita è stata generosa con me, farlo è un dovere proprio perchè so che cosa significa non riuscire ad arrivare a fine mese o non riuscire a comprare un paio di jeans. È bello quando non lo dici, lo fai in maniera segreta, doverlo dire mi ha fatto perdere un pò di questa forza ma forse stavolta dovevo farlo
Un dovere, ha sottolineato Conti e non quindi qualcosa che gli è stato imposto dalle pressioni e dalle critiche altrui.
Conti ha un contratto con la Rai pari a 650.000 euro l’anno che comprende non solo le cinque serate del festival, ma la direzione artistica della manifestazione con diversi mesi di impegno nella selezione delle canzoni e una serie di altre trasmissioni in Rai durante l’anno.
La Rai ha diffuso un comunicato nel quale viene precisato
In merito alle indiscrezioni che circolano su organi di stampa e in rete sulla cifra percepita da Carlo Conti per il Festival di Sanremo si precisa che il compenso lordo dell’artista, uno dei volti di punta dell’azienda, non è legato al singolo evento ma inserito in un contratto di esclusiva che comprende la conduzione, la direzione artistica del Festival, di Radio Rai e la realizzazione, in qualità di autore e conduttore, di altre trasmissioni. Rai sottolinea che il Festival di Sanremo non pesa sulle risorse derivanti dal canone, ma da almeno due anni è in attivo grazie al contenimento dei costi e ad introiti pubblicitari e ricavi commerciali per un totale stimato quest’anno di 23 milioni di Euro.
In pratica Conti ha devoluto 100.000 euro e altrettante ne ha pagate di tasse, corrispondenti quindi alla intera tranche del suo lavoro in Rai per le serate del festival, un bel gesto, sottolineato da tutti i media.
Anche Francesco Totti, che è stato ospite durante la seconda sera ha devoluto il compenso da 50 mila euro alla famiglia di un ragazzo disabile di Roma per l’acquisto di un macchinario che lo aiuterà a rendere più semplici gli spostamenti.
Stranamente chi ha pontificato sugli altri che “dovevano devolvere i loro guadagni ai terremotati” invece tace.
Eppure chi guadagna 13.000 euro al mese al grido di “prima gli italiani”, cosa aspetta a mettere in pratica il suo slogan e ad aiutare gli italiani vittime del terremoto?
O la moneta è sovrana solo se rimane nelle sue tasche?
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
“SE E’ COSI’ SI AVVICINA LA SCISSIONE”… CONGRESSO VISTO COME SFIDUCIA AL GOVERNO
Alle 19,30, si materializza lo spettro della scissione. Roberto Speranza, seduto vicino a Davide Zoggia, sussurra: “Vedi, il re è nudo. Non hanno fatto votare il sostegno al governo fino al 2018, perchè il congresso in tempi brevi gli serve per poi tirare giù il governo e andare al voto”.
Il che, negli effetti, porta a una linea riassunta in una parola, che fa tremare le vene ai polsi, per chi è cresciuto col mito della disciplina di partito: scissione: “Se l’obiettivo — dichiara Speranza – è un congresso- lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd, diventa il partito dell’avventura. Questo per noi crea un problema enorme. Non si capisce come si può andare al voto senza una legge elettorale che può garantire un minimo di governabilità ”.
Il riferimento è all’ordine del giorno presentato dalla minoranza, non messo ai voti.
E a quello su congresso subito, stravotato. Pare una questione procedurale, ma è sostanza politica.
La proposta era: una conferenza programmatica, come aveva chiesto il ministro Orlando, poi un congresso a ottobre, dunque voto.
Uno degli estensori del documento dice: “Si era aperta una trattativa e alcuni renziani erano anche d’accordo, ma Renzi e soprattutto Orfini l’hanno chiusa, e hanno optato sulla forzatura votando solo il loro ordine del giorno, così Renzi si tiene le mani libere sul governo”.
È il momento più teso del pomeriggio.
Dalla sala qualcuno urla: “Votiamo per parti separate”. La forzatura suona anche come uno schiaffo al protagonista dell’unica, vera, mediazione alla luce del sole, come si sarebbe detto una volta. Appunto Andrea Orlando.
Il quale, non a caso, alla fine non ha partecipato al voto. Nel suo intervento il guardasigilli aveva suggerito un percorso diverso, bacchettando al tempo stesso la minoranza per la “campagna di delegittimazione” quotidiana del segretario e Renzi perchè “i caminetti sono iniziati perchè manca una proposta politica forte”.
E fare le primarie per legittimare il leader senza discutere in una conferenza programmatica di una piattaforma politica è come “fare le tagliatelle con una macchina da scrivere”.
“Andrea candidati”, “a questo punto è una via obbligata”.
Il pressing sul guardasigilli parte dai suoi, che anche sul territorio danno segnali di insofferenza, come in Veneto dove i “turchi” e “sinistra” si sono riuniti.
Per ora, Orlando ha declinato l’offerta, anche perchè non è chiaro il dove candidarsi. Perchè la scissione è un’ipotesi molto concreta. Anzi cresce.
Perchè dietro il dibattito, criptico, sul congresso c’è tutto il tema del voto, in tutte le sue sfumature. Che vanno dalla “responsabilità verso il paese” alla formazione delle liste.
Detto in termini prosaici, la sinistra non condivide l’accelerazione sul governo, che in altri tempi si sarebbe chiamata la linea della “crisi e dell’avventura” e al tempo stesso non si fida di Renzi: “Lui — dicono — vuole una rilegittimazione, per avere le mani libere sul voto e farsi le liste come vuole lui e nelle liste fare l’epurazione”.
In questo quadro, se di qui a domenica non ci saranno novità , meglio non partecipare al congresso. Michele Emiliano, e non solo lui, sabato aveva già avuto l’idea di non partecipare alla direzione, prevedendo come sarebbe andata. “Non diamogli alibi” gli hanno detto gli altri.
Con l’ordine del giorno si ripresenta il convitato di pietra, il governo e il voto anticipato.
Argomento sul quale provano a “stanare” Renzi sia Bersani sia Roberto Speranza, dopo che l’ex premier non aveva chiarito la mission del governo nè il percorso sulla legge elettorale: “La prima cosa che dobbiamo dire — scandisce Bersani – è quando si vota. Non possiamo lasciare un punto interrogativo sulle sorti del nostro governo. Io propongo che noi non solo diciamo, ma garantiamo all’Europa, ai mercati agli italiani, la conclusione normale e ordinata della legislatura”.
L’intervento dell’ex segretario ha un grande valore simbolico. E prepara la grande rottura perchè — questo è il ragionamento — “se esce lui, non si può dire che se ne vanno quattro gatti, ma non c’è più il Pd”.
Negli ultimi giorni ci sono stati contatti anche con Pisapia. Solo la disponibilità di Orlando, di qui a domenica, potrebbe cambiare lo schema.
E il terreno su cui in parecchi cercano di convincerlo è il governo: “Se Renzi forza sul governo come evidente, si rende protagonista della crisi istituzionale e tu ti devi intestare la linea della responsabilità ”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
NEL FINE SETTIMANA L’ASSEMBLEA, DOVE RENZI HA LA MAGGIORANZA… VOTO PER ORA CONGELATO
Quasi cinque ore di riunione. Il centro Alibert vicino piazza di Spagna è assediato da cronisti e fotografi, agenti anti-sommossa e anche da un gruppo molto agguerrito di precari dell’Istat, almeno all’inizio: a un certo punto, Matteo Orfini li fa ‘sparire’ chiamandoseli al Nazareno per un confronto.
Ben tre vie del centro di Roma rimangono più o meno bloccate per tutto il pomeriggio dalla direzione del Pd.
Ma alla fine di un dibattito teso, a tratti frenato – i renziani in prima fila al cospetto dell’amato segretario, la minoranza nelle retrovie tutti seduti vicini vicini da D’Alema a Emiliano, Bersani e Speranza e Minniti capitato lì per caso – al termine di tanto parlare e molti giochi di sguardi, ognuno a studiare le mosse dell’altro, Matteo Renzi ottiene quello che vuole: il congresso del Pd da subito, con primarie ad aprile.
Nel weekend sarà un’assemblea nazionale a decidere le regole e subito dopo una nuova direzione le voterà . “Fuori dai caminetti, vediamo la base con chi sta”, è il mantra del segretario.
Il Renzi vero viene fuori alla fine. Nelle repliche.
Quando si butta alle spalle le premure usate nell’intervento inziale: non erano da lui. E infatti dopo aver ascoltato Bersani con espressione di sufficienza, dopo aver sentito Emiliano che a un certo punto lo implora pure: “Matteo, non mi guardare con la faccia che facevi con Bersani, fammi un’altra faccia…”, Renzi affonda.
Sicuro dell’asse con Dario Franceschini. E certo di avere la maggioranza dei delegati in assemblea nazionale: probabilmente si terrà sabato all’hotel Parco de’ Principi di Roma, ma potrebbe tenersi domenica se sarà necessario il quorum per votare.
A sera i renziani si studiano lo statuto. In ogni caso, all’indomani una nuova direzione ratificherà il tutto ed è congresso. E’ una forzatura, decisa sulle rovine degli altri. Nelle repliche Renzi fa Renzi. O la va o la spacca: così, dopo due mesi di tentennamenti.
E attacca così: “Non siamo soli a rappresentare il Pd. Ci sono centinaia di migliaia di iscritti e la chance per un loro coinvolgimento è il congresso. Dopo due mesi che avanziamo proposte, salvo il giorno dopo cambiare posizione, un punto va messo. Non io, non noi ma l’assemblea. Abbiamo cambiato linea una volta alla settimana per le esigenze di tutti… Abbiamo proposto il congresso e ci è stato risposto: no. Abbiamo proposto la conferenza programmatica ed è stato no. Le primarie no. C’è un limite a tutto. De Luca ha detto che siamo un po’ masochisti”. Tra parentesi: il governatore campano ha appena spezzato una lancia a favore di Renzi: “Dico no all’interdizione del segretario eletto di esprimere la sua posizione..”.
De Luca non si è spostato sul collega meridionale Emiliano, almeno per ora: finisce l’intervento e se ne va non senza una pacca sulla spalla per Renzi.
Per questo Renzi lo cita: “Masochisti o sadici… Ma il sadico è colui che è buono con i masochisti e io non posso essere sadico. C’è un limite a tutto. Va bene tutto ciò che serve per creare un clima per sentirsi a casa ma quando si ha paura di confrontarsi con la propria gente con le modalità dell’ultimo congresso io credo che l’ennesimo passo indietro non sarebbe capito neanche dai nostri. Andiamo al congresso con il sorriso sulle labbra, così saremo un partito ancora più democratico, se altri vogliono farsi governare da un algoritmo è un problema loro”.
Il resto è la conta. Su due documenti diversi e completamente opposti.
C’è quello renziano a prima firma di Franco Mirabelli: senatore fedelissimo di Dario Franceschini. E’ il documento che chiede il congresso subito: breve, non esplora altri temi, nè il governo, nè la data del voto.
E poi c’è il documento della minoranza bersaniana, dalemiana, quella di Michele Emiliano che con un piede è già candidato al congresso ma acconsente a fare squadra con gli altri per frenare il segretario e celebrare l’assise in autunno.
La minoranza prova a inserire nel documento il cavallo di Troia della fiducia a Gentiloni fino al 2018.
Il premier tra l’altro è presente al centro Alibert, con Padoan, Delrio, Minniti, lo stesso Franceschini: la corrente dei ministri è ampiamente rappresentata e non mostra crepe con Renzi, a parte Orlando che prova a dare man forte a chi frena.
“Ma scusa Andrea: la tua proposta di conferenza programmatica è di quattro puntate fa…”, gli risponde Renzi nelle repliche.
Il documento renziano viene approvato. L’altro non viene votato. Merito (o demerito a seconda dei punti di vista) di Piero Fassino, altro dell’area di Franceschini che spezza una lancia per il segretario: “Il documento della minoranza parla anche del sostegno al governo Gentiloni, attenzione a cosa mettiamo ai voti”.
“Favorevoli…”, comincia il presidente Orfini mostrando la delega. Alzate di mano indicano che il segretario non ha ancora perso la direzione. “Contrari?”. Tutte le prime file si girano verso le retrovie per vedere cosa fa il gruppetto della minoranza, Renzi continua a smanettare con lo smart phone. Orlando non vota, per dire. Gli altri alzano la mano per dire no. Buona la prima: assemblea e congresso.
La direzione di oggi chiude formalmente la corsa per le elezioni a giugno.
Almeno per ora. L’obiettivo rimane sullo sfondo. Ma sfocato, come un sogno dimenticato. Renzi ormai ha trovato un’altra occupazione: il congresso.
E nel frattempo inaugura un nuovo asse con il governo: “Dobbiamo evitare la procedura di infrazione”, dice per andare incontro a Padoan.
E dal Tesoro stanno cercando un modo per fare la manovrina che chiede l’Europa nel modo più indolore possibile. La trattativa è in salita ma si è capito che Bruxelles non gradisce una corsa al voto: è qui che Renzi cede. Si lancia sul congresso
“Caro Pier Luigi, se qualcuno vuole usare il congresso per decidere la linea sulle elezioni lo faccia. Io lo ritengo irrispettoso verso il presidente della Repubblica, il governo e i parlamentari…”, è la risposta a Bersani.
E nemmeno il tema di aspettare la legge elettorale può frenare il congresso: “Anche nel 2013 non c’era la legge elettorale, c’era appena stata la sentenza della Consulta sul Porcellum come oggi sull’Italicum e io cominciai la campagna congressuale da Bari”, è la frecciata a Emiliano che allora lo appoggiava.
“Sembra una riunione dei Ds con un saluto di Renzi e di Delrio”. A metà direzione una fonte renziana si lascia andare così. “Sembrano tornati i vecchi riti, le vecchie terminologie…”.
Il segretario continua a non sentirsi a casa. E la sensazione è reciproca con la minoranza tentata dalla scissione.
Una cosa li accomuna: ne sono terrorizzati entrambi. Ma ora Renzi ha deciso: “Vediamo che fanno”, dicono i suoi che danno per certo l’addio di D’Alema e una parte dei bersaniani, forse. Ma ormai non è più questo l’incubo del segretario, se mai lo è stato.
Piuttosto, nonostante abbia vinto oggi in direzione, il timore che gli resta è quello espresso da Gianni Cuperlo: “Bene il congresso, ma attenti a scegliere una guida adatta ad una nuova fase”.
Tradotto: si può vincere un congresso ma non le elezioni. E con questo cupo presagio si svuota la sala dell’Alibert e il traffico di Roma riprende a circolare.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
TRA BANCHE PUGLIESI, CAMINETTI E TELECOM, MATTEO NE HA PER TUTTI
I caminetti, la privatizzazione di Telecom, le banche pugliesi e quelle venete.
E poi, le reazioni di alcuni parlamentari (anche renziani).
Matteo Renzi, nella Direzione con cui ha annunciato il suo via libera al Congresso dopo le pressanti richieste di una fetta del Partito Democratico, ne ha per tutti.
Nel suo lungo intervento, dove alterna riflessioni sulla politica interna, assunzioni di responsabilità per gli errori e richiami su quanto sta avvenendo in Francia e negli Stati Uniti, il segretario del Pd non ha risparmiato attacchi e veleni a chi lo ha attaccato negli ultimi mesi e, in particolare, dopo la sconfitta al referendum.
Ce l’ha prima di tutto con Massimo D’Alema, che si trova in platea accanto a Roberto Speranza, Michele Emiliano e Guglielmo Epifani.
È quando parla di banche e di Telecom che si capisce che il Congresso è, nei fatti, aperto.
Il segretario non li cita esplicitamente, i suoi avversari, ma accende i riflettori su alcune questioni affrontate proprio da Bersani e D’Alema, quando erano al governo. Renzi chiede di riflettere sulle privatizzazioni fatte: “Abbiamo fatto bene su Telecom, nel corso degli ultimi 15 anni? Abbiamo fatto bene su Ilva in questi ultimi 15 anni? Mi piace poter discutere assieme a voi, in modo trasparente. Sulle banche: non vedo l’ora che parta questa commissione d’inchiesta sulle banche, è sembrato per mesi che il problema fosse soltanto di due-tre banchette toscane, ma sarà interessante discutere di Banca popolare di Vicenza, delle banche pugliesi, della Banca Popolare di Bari e di Banca 121”.
Quest’ultima, l’ex Banca del Salento acquisita da Mps nel 2002, fu una delle prime operazioni opache con cui il Monte Paschi ha imboccato la strada che l’ha portata alla crisi che ancora in questi giorni l’attanaglia.
Per quanto D’Alema abbia negato di aver avuto un filo diretto con gli allora vertici, poi passati nella governance del Monte Paschi, l’ex premier è sempre stato visto come sponsor dell’operazione.
Così come quando Renzi, parlando della Banca Popolare di Bari, si riferisce evidentemente a Francesco Boccia, deputato pugliese che si è opposto fin dall’inizio alla riforma del governo Renzi, poi stoppata dal Consiglio di Stato, sulle Popolari per la trasformazione in spa e l’abolizione del voto capitario (un socio, un voto, al di là della quantità di azioni possedute).
Il riferimento a D’Alema, in particolare su Telecom, poi non sfugge.
Non è la prima volta che Renzi lo attacca per quello che in passato già definì come “un regalo ai capitani coraggiosi”. Insomma, banche e aziende di Stato diventano terreno di scontro e di accuse nella Direzione del principale partito di sinistra in Italia.
Tornano poi i famosi “caminetti”.
Il segretario Pd li cita in apertura del suo intervento:”Parliamo con franchezza e chiarezza. Dal giorno dopo il referendum la politica italiana ha messo le lancette indietro: è tornata a riti che avevamo dimenticato. Sono tornati i caminetti e la domanda è stata quanto dura la legislatura e quando si fa il congresso e non cosa proponiamo al Paese”.
Renzi se la prende poi con Emiliano, altro candidato alla segreteria del Pd, tra i più duri nelle ultime settimane con l’ex presidente del Consiglio.
Un’escalation di attacchi frontali da quando Renzi si schierò per l’astensione sul referendum sulle trivelle, in netta contrapposizione con il governatore della Puglia.
Da allora Emiliano ha preso di mira l’immagine del Pd come “partito dei petrolieri”. Renzi replica in Direzione: “Chiedo rispetto non per me ma per i nostri iscritti. Quando si dice che siamo il partito dei petrolieri o che abbiamo fatto gli interessi dei potenti gli iscritti non rinnovano la tessera, quando si dice che abbiamo violato lo Statuto non solo un uomo di legge si sente male ma viene meno il sentimento di fiducia tra noi”.
Infine, Renzi non risparmia una stoccata ai parlamentari, anche quelli “renziani”, che non hanno nascosto la loro irritazione dopo l’sms inviato dal segretario al conduttore di DiMartedì Floris sui vitalizi ai parlamentari. “C’è stata una forte reazione dei parlamentari su un sms, che avrei potuto risparmiarmi, sui contributi pensionistici. Spero che ci sia la stessa reazione per spiegare le ragioni per cui tre anni fa è stata allungata la legislatura”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
UGO FORELLO SFIDUCIATO DAL PARLAMENTARE… LA BASE: “GIOCATE A FARE LE CORRENTI, VERGOGNATEVI”
“In questa tornata non c’e’ il Movimento Cinque Stelle. Inutile far finta di nulla e chiudere gli occhi”. Riccardo Nuti, il deputato M5S sospeso dal Movimento dopo l’inchiesta sulle firme false, ‘sfiducia’ ufficialmente il candidato sindaco grillino di Palermo Ugo Forello. E lo fa su Facebook, rispondendo a un’attivista, Daniela M., che gli risponde così: “Sono basita dalle tue parole. Giocate a fare le correnti? Complimenti. Chi tiene al M5S va al di là delle questioni personali”.
Nuti, ritenuto dalla Procura di Palermo il regista del pasticcio delle firme false, replica: “Nessuna corrente e nessun gioco ma possiamo mai appoggiare persone che il M5S ha attaccato in Commissione Antimafia nel 2014? Possiamo mai appoggiare la stessa persona che abbiamo denunciato alla Procura con un esposto?”.
Nei mesi scorsi, proprio durante lo scandalo dell’inchiesta sulle firme false che ha creato non poche polemiche all’interno del M5S di Palermo, era scoppiata un’ulteriore scintilla all’interno del Movimento. In un esposto presentato alla Procura e all’Ordine degli avvocati di Palermo dai deputati Riccardo Nuti, Claudia Mannino e Giulia Di Vita, tutti indagati e sospesi, e dai colleghi Loredana Lupo e Chiara Di Benedetto, non indagate, i grillini accusano l’avvocato Ugo Forello, oggi candidato a sindaco di Palermo del M5S dopo avere vinto le ‘comunarie’, ad avere “pilotato le dichiarazioni” della deputata ‘pentita’, Claudia La Rocca.
Forello per questo motivo è indagato dalla Procura di Palermo. Il gip Lorenzo Matassa, dopo l’opposizione dei legali dei firmatari dell’esposto, nei giorni scorsi ha rinviato l’udienza al prossimo 8 marzo, quando dovrebbe essere deciso se proseguire l’inchiesta sul candidato sindaco.
Per i parlamentari indagati, infatti – oltre Nuti, Giulia Di Vita e Claudia Mannino – Forello sarebbe stato il ‘gran manovratore’, colui che avrebbe orchestrato le dichiarazioni della deputata regionale ‘pentita’, quella Claudia La Rocca che ha permesso di rompere il muro di omertà .
Ma Riccardo Nuti proprio non digerisce la candidatura di Forello. “Se uno si mette la maglietta M5S, mica significa che lo è veramente. Gela non ti ricorda nulla?”.
A Gela il sindaco Domenico Messinese era stato espulso dal M5S dopo alcune polemiche coni vertici.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 13th, 2017 Riccardo Fucile
RINVIATE A GIUDIZIO 17 PERSONE, TRA CUI IL SOTTOSEGRETARIO CASTIGLIONE (NCD)
E’ bufera sull’Ncd, il partito del ministro degli Esteri Angelino Alfano, dopo che la Procura distrettuale di Catania ha confermato la notizia apparsa oggi sul quotidiano “La Sicilia” con la richiesta di rinvio a giudizio di 17 persone per turbativa d’asta nell’ambito dell’inchiesta sulla concessione dell’appalto dei servizi, dal 2011 al 2014, al Cara di Mineo.
Si tratta del centro di accoglienza più grande d’Italia, istituito dal governo Berlusconi, dove vivono quasi 4000 persone, compresi i 450 operatori, molti dei quali – per loro stessa ammissione testimoniale -sarebbero stati assunti con voto di scambio, a favore del Pdl prima e dell’Ncd poi.
A Mineo l’Ncd può vantare un percentuale bulgara di voti: il 39 per cento alle amministrative del 2014 rispetto al 4 per cento della media nazionale.
Tra gli indagati il sottosegretario all’Agricoltura, Giuseppe Castiglione (Ncd), in qualità di soggetto attuatore del Cara, insieme con il suo grande accusatore Luca Odevaine, il sindaco di Mineo, Anna Aloisi (Ncd), ex presidente del consorzio dei Comuni «Calatino Terra d’ Accoglienza»; l’ ex direttore del consorzio, Giovanni Ferrera; gli ex vertici dell’ Ati interessati.
L’udienza preliminare è stata fissata per il 28 marzo prossimo, davanti al Gup Santino Mirabella. La richiesta di rinvio a giudizio è stata avanzata dal procuratore Carmelo Zuccaro e dai sostituti Raffaele Vinciguerra e Marco Bisogni.
La Procura ha chiesto il rinvio a giudizio, per reati amministrativi, anche del consorzio Sol.calatino scs.
Nel provvedimento, di 14 pagine, firmato dai sostituti Raffaella Agata Vinciguerra e Marco Bisogni, e vistata dal procuratore Carmelo Zuccaro e dall’aggiunto Michelangelo Patanè, è stata stralciata la posizione di cinque indagati, su cui sono in corso ancora accertamenti e valutazioni.
Al centro dell’inchiesta le gare d’appalto per la gestione dei servizi del Cara fra il 2011 e il 2014, intervallata da sette proroghe avallate da un protocollo con la Prefettura di Catania.
Secondo l’accusa, Castiglione, che entra nell’inchiesta non per l’attuale incarico ma perchè all’epoca dei fatti soggetto attuatore del Cara, assieme a Odevaine e Ferrera, quest’ultimi due in qualità di presidente e componente la commissione aggiudicatrice, avrebbero «predisposto il bando di gara con la finalità di affidamento all’Ati appositamente costituita».
La Procura distrettuale di Catania ritiene, inoltre, che le coop interessate si «costituivano appositamente in Ati» dopo avere «ricevuto rassicurazioni sull’aggiudicazione degli appalti», il cui «bando era concordato con lo stesso Castiglione, Odevaine e con Ferrera».
A Castiglione e al sindaco di Mineo, Anna Aloisi, e Paolo Ragusa, in qualità di presidente del consorzio Sol Calatino, è contestata anche la corruzione «per la promessa di voti per loro e i gruppi politici nei quali gli stessi militavano (Pdl, lista Uniti per Mineo e Ncd)» in cambio di «assunzioni al Cara».
Ferrera e Odevaine sono indagati anche per falso ideologico per l’assunzione di quest’ultimo al Cara di Mineo come esperto di fondi Ue.
Un `faro’ sull’appalto da quasi 100 milioni di euro era stato acceso anche dall’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che alle Procure di Catania e Caltagirone ha inviato la documentazione sull’appalto per la gestione della struttura, definendo la gara «illegittima» e lesiva dei principi di «concorrenza» e «trasparenza».
(da agenzie)
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