Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
MOLTO SUD E TANTE VECCHIE GLORIE… E IL MINISTRO GALLETTI FA IL CARLO CONTI
Sarà il clima sanremese, ma a un certo punto Pier Ferdinando Casini decide di continuare il suo
intervento seduto sulle scale, alla Maria De Filippi.
Look casual, in maglione blu e senza cravatta, preferisce non parlare dal podio ma camminare avanti e dietro sul palco, con il microfono in mano.
“Non ho incarichi e non li voglio”, dice, definendosi un iscritto qualsiasi che ha giusto qualche suggerimento da dare.
Di fatto, però, è lui il padre di “Centristi per l’Europa”, il nuovo movimento che è stato battezzato oggi al teatro Quirino di Roma e che nasce dalla costola del’Udc, dopo il divorzio con Lorenzo Cesa sul sostegno al referendum del 4 dicembre.
Sala piena, clima sobrio, molto Sud in platea e qualche striscione, come quello della delegazione di Bronte, “la città del pistacchio”, si precisa per i meno avvezzi.
Con Casini in questo progetto c’è Giampiero D’Alia, a cui viene affidato il ruolo di coordinatore, e il ministro Gianluca Galletti che per l’occasione fa il bravo presentatore (“Faccio un po’ il Carlo Conti della situazione”, scherza).
Il simbolo non è stato ancora depositato ma dovrebbe essere in campo già alle prossime amministrative.
C’è un concetto, però, che ripetono tutti, a scanso di equivoci: “Nessuna intenzione di fare un nuovo partitino”.
“Noi — spiega il ministro dell’Ambiente – siamo qui con un’ambizione molto più grande, quella di riunire tutti i moderati italiani sotto una stessa casa”.
Aggiunge D’Alia: “Noi vogliamo costruire un partito insieme ad altri che la pensano come noi, che hanno la stessa visione di società . E’ un percorso che è all’inizio”. “Questo movimento può essere un lievito”, è invece l’immagine scelta da Casini.
Tuttavia, nessuno dei possibili interlocutori (Ncd, Idea, Popolari per l’Italia, Scelta civica, Ala) è in platea ad ascoltare come nasce questa nuova creatura e, soprattutto, cosa vuole diventare da grande.
Ci sono invece vecchie guardie come Francesco D’Onofrio, o parlamentari con Ferdinando Adornato, i senatori Luigi Marino e Aldo Di Biagio.
Dovevano chiamarsi centristi per l’Italia, poi hanno deciso che il cuore della loro azione va cercato in Europa.
“Questo movimento — spiega Casini — nasce con un atto di sfida perchè oggi chiamare un movimento ‘per l’Europa’ significa essere dei pazzi considerando l’impopolarità dell’Europa”.
Il suo suggerimento, tuttavia, è quello di non parlare dell’Ue “in maniera retorica” perchè “i voti così non si prendono”.
“Il vostro compito — dice con un atteggiamento più da zio che da fondatore — è chiedere che ci sia una spinta profonda verso una nuova Europa” perchè ora si è di fronte a “un bivio”: “se va avanti si salva, ma se rimane ferma non può che andare indietro e a quel punto — osserva – non ce ne sarà per nessuno, neanche per la Francia e la Germania”.
Non a caso, dunque, la colonna sonora della mattinata è l’Inno alla gioia, che parte a mo’ di stacchetto ogni volta che cambia l’interlocutore sul palco.
Oltre ai big, prendono la parola anche una laureata di Salerno, il vice presidente dei giovani Popolari europei, un militante di Bergamo e il sindaco di Rosarno. Il suo è uno tra gli interventi più applauditi, soprattutto quando parla dell’emergenza immigrazione.
D’altra parte, è chiaro chi da questi parti è considerato il “nemico” politico: i populismi, l’antipolitica, Salvini e Meloni e, ovviamente il M5s.
Casini non le manda a dire, soprattutto al leader della Lega. “A vederlo in tv con i moon boot per far vedere che è stato nei luoghi del terremoto – attacca – fa venire il latte alle ginocchia. E’ un incompetente, ci fa rimpiangere Bossi. Quando dice usciamo dall’euro non sa di cosa parla”, “non ha ancora capito che sta lavorando per Grillo e che Grillo sarà l’unico che andrà all’incasso”.
E a proposito di M5s, pur rivendicando uno storico garantismo, Casini incalza anche sull’esperienza romana.
“Per le modalità con cui sta governando la Raggi, chiunque — sottolinea – sarebbe stato preso a calci nel sedere. Ma per la Raggi ci sono sempre giustificazioni”.
Ed è proprio per non far “risucchiare le forze moderate dall’estremismo”, come dice Galletti, che nasce “Centristi per l’Europa”.
“Deve nascere un movimento politico — afferma ancora più chiaramente l’ex presidente della Camera – per bloccare l’avanzata in Italia e in Europa del populismo, è necessario fare appello all’unità dei moderati, non è possibile che ci siano divisioni davanti a legioni di barbari che se vincono non ce ne sarà per nessuno”.
Se, tuttavia, sono molto chiari i nemici politici, meno chiaro e chi siano gli amici. Un’ambiguità che pare voluta, visto che Casini manda messaggi sia a Berlusconi da una parte che a Renzi dall’altra. Messaggio al Cavaliere: “Un partito come Forza Italia fino a qualche anno fa era al 30%, oggi è un successo se i sondaggi lo danno al 13” ed “è chiaro che se alla fine di tutte queste riflessioni Berlusconi andrà a fare le liste con Salvini vorrà dire che Salvini assume la leadership di quello che un giorno era il centrodestra”.
Messaggio al segretario del Pd: “Da Renzi voglio capire una cosa: se il Jobs Act lo ha fatto solo per promuovere la sua immagine tra i moderati o se questi contenuti li rinnega. Perchè se dovesse accettare di costruire una coalizione sbracata a sinistra” per esempio con Pisapia che quei provvedimenti li ha avversati, “vorrebbe dire che ci siamo sbagliati tutti e che Renzi adesso, in una situazione di oggettiva difficoltà , rifiuta l’alleanza con quei moderati che gli hanno fatto vincere le elezioni e va verso una deriva. Che Dio gliela mandi buona”.
L’idea, insomma, sembra essere quella di collocarsi al centro della scena politica e cercare di capire con chi sarà possibile dialogare nei prossimi mesi.
Certo, molto dipenderà dalla legge elettorale. Da queste parti hanno un’idea abbastanza precisa: “Serve il premio alla coalizione perchè — spiega Galletti – questo permetterà alla prossima legislatura di avere un elemento di governabilità indispensabile”.
Quanto al sistema proporzionale, Casini osserva: “Per anni abbiamo sempre sostenuto la proporzionale e arriva proprio adesso che i grandi partiti non ci sono più. E’ fuori tempo massimo”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
VA IN SCENA LO SCONTRO TRA PABLO IGLESIAS E IL NUMERO DUE INIGO ERREJON, CRUCIALE PER IL FUTURO DEL PARTITO ANTISISTEMA, TERZA FORZA POLITICA DELLA SPAGNA
Movimentisti contro riformisti.
A Madrid va in scena lo scontro fra il leader di Podemos Pablo Iglesias e il suo numero due, Inigo Errejon, cruciale per il futuro del partito antisistema che in meno di tre anni è diventato la terza forza politica della Spagna.
Il movimento è arrivato al congresso spaccato quanto potrebbe esserlo un qualsiasi ‘vecchio’ partito socialista o conservatore. Lacerato da un duello fra capi per il potere interno.
A Vistalegre II 10mila delegati e militanti sconcertati che invocano ‘Unità , Unità !’. E alcuni riprendono, e lanciano ai dirigenti attuali, il “non ci rappresentate!” che gli indignados di Puerta del Sol nel maggio 2011 gridavano contro governo e partiti tradizionali.
Protagonisti dello scontro che potrebbe rompere il partito Iglesias, finora leader carismatico incontestato, e il suo ‘numero due’ Inigo Errejon. Amici da 10 anni, i due cofondatori del partito hanno presentato liste rivali alle primarie per la nuova direzione.
Iglesias ha cercato fino all’ultimo di negoziare una fusione. I due sono stati protagonisti davanti alle tv e a tutto il paese di un accalorata discussione sui banchi del Congresso, seduti uno accanto all’ altro.
Alla fine Errejon ha detto no, e si è lanciato all’assalto del partito. Iglesias ha drammatizzando la scelta — ‘o lui o io!’ — annunciando le dimissioni se la sua lista non vincerà .
Iglesias ha aperto il Congresso al Palacio Vistalegre di Madrid con un forte richiamo all’unità e il tema del superamento delle divisioni è stato ripreso anche dal suo rivale. Ma la frattura esiste e i sostenitori del primo hanno salutato con il pugno chiuso, mentre quelli del secondo hanno levato le due dita del segno della vittoria.
Errejon non è candidato alla segreteria contro Iglesias, ma propone un documento politico alternativo. E i due guidano liste rivali per il Consiglio cittadino. Non è chiaro cosa succederà se prevarrà la linea di Errejon. Iglesias ha già detto di non voler guidare un partito con un progetto politico diverso dal suo.
Un tempo inseparabili, il 38enne Iglesias e il 33enne Errejon si sono progressivamente distanziati durante il lungo anno di stallo della politica spagnola.
Alle elezioni di giugno Podemos si è alleato con Izquierda unita, storico partito della sinistra spagnola, ma assieme non sono riusciti a battere il partito socialista (Psoe), seppur indebolito.
Intanto il Psoe ha cacciato il leader Pedro Sanchez, che aveva inutilmente tentato un’intesa con Podemos, e dato il via libera a fine ottobre al governo conservatore di Mariano Rajoy.
Errejon punta ad alleanze puntuali con il Psoe e se passerà la sua linea questo potrebbe destabilizzare l’esecutivo di Madrid, che non ha la maggioranza assoluta e deve negoziare via via l’appoggio necessario per governare.
La differenza di vedute è diventata ufficialmente guerra aperta la settimana scorsa quando le due parti non sono riuscite ad accordarsi su un documento comune.
Lo scontro interno ha spaccato Podemos e rovinato amicizie nel partito nato dal movimento degli indignados.
La numero tre di Podemos, Carolina Bescansa, ha deciso di non ripresentarsi nella direzione e non ha voluto associarsi a nessuno dei due progetti contrapposti. L’atmosfera è dunque decisamente diversa dall’assemblea che in questo stesso palacio de Vistalegre battezzò il nuovo partito nell’ottobre 2014.
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
UNA SEZIONE PROTESTA PER LE INGERENZE DEI VERTICI SALVINIANI E VIENE AZZERATA…E I MILITANTI NI RIVOLTA STRACCIANO LE TESSERE
Una parte di profondo nord contro i vertici della Lega. 
In Franciacorta, nel bresciano, vengono azzerate sezioni del partito e i militanti sono in rivolta; il tutto a causa degli interessi di via Bellerio per la municipalizzata locale, Cogeme.
“Siamo fieri di non far più parte di questo movimento” ha detto Alessandro Orisio, consigliere comunale a Urago D’Oglio ed ex fedelissimo in casacca verde, durante una diretta Facebook dello scorso 31 gennaio in cui è stata denunciata la situazione. “Negli ultimi otto mesi — ha spiegato Orisio — si sono succeduti ben 3 cda in Cogeme. Il primo è stato eletto con all’interno figure quali Giulio Centemero, persona vicina a Matteo Salvini e membro del comitato amministrativo della Lega, ovvero persone che del nostro territorio locale nulla conoscevano”.
La sezione della Lega di Urago è stata azzerata. A Pontoglio è pure lì crisi. A pochi chilometri più in là , a Castrezzato, qualcosa di simile s’è consumato qualche mese prima e a Rovato, infine, fu addirittura il sindaco (sempre leghista), dopo essere stato sfiduciato, ad accusare i vertici di via Bellerio.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il voto espresso l’8 luglio 2016 nel Cda di Cogeme, quando lo si sarebbe dovuto rinnovare a seguito dell’ingresso in A2a di Lgh (gruppo del quale anche la multi utility franciacortina fa parte).
Urago D’Oglio conta per il 3,9 per cento, ma i leghisti che controllano l’amministrazione, compreso il primo cittadino Antonella Podavitte, alla vigilia del voto danno l’idea di non volersi adeguare agli ordini di partito.
Sul cellulare di Massimo Frigè, il segretario della Lega locale, arriva un messaggio del tipo: “Falla stare a casa (riferito al sindaco). Se salta tutto per colpa di Urago non so come va a finire”.
Ingerenze nella vita amministrativa di una borgata, giudicate intollerabili. Alla fine verrà eletto alla presidenza di Cogeme Dario Lazzaroni, ma Urago conquisterà un consigliere.
Ma non finisce qui. Altra frattura si consuma al momento del rinnovo dei vertici di Lgh, nell’ottobre scorso, una volta attuata la fusione con A2a.
Cogeme, assieme ad altre multiutility viene chiamata ad esprimere il proprio voto, pesando per il 31 per cento del capitale.
Sarà l’unico voto leghista espresso in quel contesto, visto che tutte le altre municipalizzate fanno capo a uomini del Pd.
Quel che accade, lo spiega Orisio in conferenza stampa: “A seguito di un accordo tra Lega Nord e Pd, veniva data la presidenza al vice segretario provinciale del Partito democratico Antonio Vivenzi (già consulente di Palazzo Chigi durante il Governo Renzi) e veniva eletto nel consiglio Paolo Formentini. Morale della favola, chi ha contribuito alla nostra espulsione siede oggi nel cda di Lgh e va a bracciatto col Pd”. Circostanza dimostrata anche da una chat Telegram, in cui il vertice della sezione franciacortina della Lega afferma: “L’accordo è stato fatto per avere 3 anni di pace”.
Il segretario della Lega Nord bresciana, Paolo Formentini, non vuole scendere nei dettagli ma dichiara: “In Lgh non avevamo i numeri per fare diversamente. Mi dispiace — aggiunge — quanto successo ad Urago. Del resto a loro era stato chiesto semplicemente di rispettare le decisioni prese a maggioranza ai vertici del partito. Detto questo — conclude — non è affatto vero che in Franciacorta la Lega sia in crisi”. Parole che cozzano contro quanto dichiarano pubblicamente dai militanti di Urago D’Oglio.
Fabio Abati
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
PER IL DOPO BERDINI SPUNTA IL NOME DI UN FEDELISSIMO DELLA RAGGI CHE AVEVA AFFITTATO UN SUO LOCALE AL COMITATO GRILLINO A “SOLI” 9.000 EURO PER DUE MESI
Dei quattro amici al bar che hanno dato il nome a una ormai nota chat e un titolo alle sciagure romane degli ultimi mesi, Daniele Frongia è l’unico rimasto in qualche modo vicino a Virginia Raggi.
Declassato da vicesindaco a semplice assessore allo Sport, isolato nel M5S che lo considerava il vero burattinaio dietro alla sindaca, assieme a Salvatore Romeo e a Raffaele Marra, ora Frongia sogna di riconquistare lo spazio perduto.
D’altronde, le pene altrui degli ultimi giorni hanno portato un vuoto di potere proprio in un momento in cui in cima all’agenda del Campidoglio c’è la questione dello stadio della Roma.
L’addio al rallenty di Paolo Berdini, che sarà silurato appena si troverà un persona capace per sostituirlo, ha dato a Frongia modo di muoversi su un territorio quantomeno sfiorato dalle sue deleghe.
Lo raccontano attivissimo, sotto gli occhi attenti di Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i deputati-commissari, inviati da Grillo in Campidoglio, mentre partecipa alla tessitura della trattativa con i costruttori Parnasi che in lui vedono la sponda più moderata del M5S.
Allo stesso modo starebbe contribuendo al casting per selezionare il successore di Berdini.
Tra i nomi che sono tornati a circolare con insistenza nelle ultime ore c’è pure quello di Francesco Sanvitto.
Architetto, coordinatore del tavolo sull’Urbanistica del M5S a Roma, è uno degli attivisti storici della Capitale, invischiato anche lui nelle liti cittadine.
Inviso a Roberta Lombardi, fino alla scorsa estate era considerato uno degli uomini più blindati della cerchia di Frongia e di Raggi. Fu a lui che pagarono l’affitto dello stabile di via Tirone, in zona Ostiense, dove il M5S piantò le tende del suo comitato elettorale. Novemila euro in due mesi che fecero molto storcere il naso a Lombardi.
Dopo la vittoria del M5S, Sanvitto è rimasto a secco. Non ha ricevuto incarichi pubblici e scalcia per dire la sua sulla questione stadio.
Lo fa, comunque, da Facebook e con toni non certo accomodanti. Ma se è vero che, anche per le sue solide competenze, è un nome che è tornato a circolare, potrebbe essere facilmente riattratto nell’orbita Raggi-Frongia.
Sempre che riusciranno a raffreddarne il carattere. Di certo, la sindaca vuole avere in mano il successore di Berdini prima di sbarazzarsene definitivamente. «Non ho ancora sciolto le riserve» si limita a dire lei che come tutti nel M5S aspetta con angoscia le possibili rivelazioni di Marra nell’interrogatorio dei pm che si terrà tra martedì e mercoledì.
Il gruppo di accompagnamento a Berdini, altra insolita invenzione di Raggi, è solo un modo per prendere tempo. La sua sostituzione è gia stata decisa, nonostante che chi è stato spedito a parlare con l’assessore lo illuda che potrebbe rimanere.
E nonostante continuino le manifestazioni di sostegno verso il paladino anti-cemento. Ieri un corteo si è spinto fino al Campidoglio mentre, inaspettata, è scesa a difendere l’urbanista anche Paola Nugnes, senatrice grillina, in rotta con i vertici: «Berdini è una garanzia contro l’abuso di suolo».
Resta la domanda del perchè, a questo punto, non sia Berdini, che ieri ha disertato la giunta nonostante sia stata approvata una delibera di sua competenza, a forzare le proprie dimissioni e ad andar via.
Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
INTERVISTA AD ASOR ROSA: “LA GIUNTA RAGGI NON PUO’ ESSERE CORRETTA, VA DISMESSA”
Professore, lei è uno degli intellettuali che ha firmato l’appello pro Berdini alla sindaca Raggi… «Mi
scusi, ma la devo interrompere. Io l’appello non l’ho firmato». Ma il suo nome, Alberto Asor Rosa, è scritto tra quello dei firmatari. Vuole dire che qualcuno l’ha firmata a sua insaputa? (sorride)
«Allora: la mail con la lettera è stata mandata anche a me ma io non ho risposto». È dunque valsa la logica del silenzio assenso. «Probabilmente ha funzionato un meccanismo del genere. Però guardi la mia stima per Berdini è senza limiti, ma come ho spiegato ai miei amici l’altra sera io pensavo che fosse più giusto non persuadere la Raggi, ma persuadere Berdini a lasciare la Raggi».
Quindi non soltanto non ha firmato l’appello, ma è persino contrario.
«L’appello non è scandaloso, ma ho una posizione diversa da quella espressa in quel testo».
Però non ha smentito.
«È firmata da miei amici di grandissimo livello culturale e morale, la smentita mi sembrava fuori luogo. Ma se lei me lo chiede, io le rispondo».
Appelli e sit-in sotto il Campidoglio pro Berdini, l’uomo della sinistra. In una amministrazione accusata di essere vicina agli ambienti della destra, l’assessore urbanista sembra essere un po’ una foglia di fico. Che ne pensa?
«Io non capisco più da molto tempo cosa ci sta a fare un uomo come lui in una giunta come questa. Uno come Berdini non sarebbe neanche mai dovuto entrarci. La giunta Raggi non può essere corretta, va il più rapidamente possibile dismessa».
Berdini ha detto sì al M5S perchè ha creduto di poter portare al governo le sue battaglie contro lo sfruttamento del suolo e il metodo “palazzinari”. Un Don Chisciotte?
«Non può comunque e non avrebbe potuto funzionare. Io non ho condiviso la sua scelta, ma la mia non è una condanna del suo comportamento, semplicemente io non l’avrei mai fatto ».
A Repubblica Berdini ha detto: “Mi sono abbandonato, riportando dei pettegolezzi”. Ma si può lavorare con qualcuno che si stima così poco?
«Lui in quella giunta non doveva entrare. Pensava di poter fare qualcosa di giusto ma è un convincimento radicalmente sbagliato. La sua esperienza lì deve terminare il prima possibile ».
Governare Roma sembra una missione quasi impossibile. Come si può salvare la città ?
«Roma non si può salvare senza un lavoro di anni, non esiste una soluzione in grado di risolvere rapidamente la situazione».
Niente politica? Di nuovo un commissario prefettizio?
«Sa cosa le dico? Che arrivo a pensare che ci vorrebbe una dittatura illuminata».
Cosa intende per “dittatura illuminata”?
«Un gruppo di esperti di prestigio indiscutibile. Ci vuole il coraggio di cominciare dallo stato disastroso delle nostre periferie, dove è sempre più terribile andare per le condizioni in cui sono ridotte. Solo con un gruppo di questo livello, la direzione di marcia potrebbe essere invertita».
Beppe Grillo nel 2011 disse: “Meglio una dittatura illuminata che una democrazia di corrotti”.
Ma a Roma anche il M5S è stato investito dagli scandali.
«Serve un periodo di governo che prescinda dalle logiche di affermazione della politica di questa o quella parte. Insomma niente polizze vita, niente strane relazioni. Se c’è un gruppo in grado di farsi accettare, è il benvenuto e forse qualcosa cambierà ».
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
CORRUZIONE E MANCANZA DI MEZZI RISCHIANO DI FAR SALTARE L’INTESA
Mousa è nato in Mali e ha 28 anni, è in Libia da due e lavora come addetto alle pulizie in un negozio di Tripoli, con la speranza di dare una svolta alla sua vita.
Venerdì scorso è stato sequestrato da una banda specializzata in estorsioni a danno di migranti africani. I suoi amici hanno pagato 1300 dinari per la liberazione, il suo stipendio di tre mesi: porta evidenti i segni del trauma ma vuole raccontare la sua storia.
Jane è una signora nigeriana che alcuni mesi fa ha salvato una connazionale ridotta a schiava del sesso dai trafficanti di esseri umani. L’ha assistita sino a quando non è stata rimpatriata.
Come lei – racconta – ce ne sono decine che vengono abbandonate in fin di vita per la strada. Juliette e il marito sono profughi del Rwanda, l’anno scorso dopo l’ennesima irruzione delle milizie nella loro casa di Tripoli hanno deciso di attraversare il mare assieme alle due figlie.
Volevano chiedere asilo in Italia, ma la loro storia non la possono più raccontare perchè sono stati tutti inghiottiti dal Mediterraneo.
Tre storie di ordinaria tragedia, come quelle dei 181 mila disperati sbarcati nel 2016 in Italia, e i circa 5 mila morti accertati in acque libiche.
Numeri dinanzi ai quali l’Italia e l’Europa si sono finalmente attivate attraverso le intese con la Libia, sulla cui attuazione pesano però variabili e incognite.
L’Ue stanzia fondi affinchè le autorità libiche gestiscano in maniera più efficace le attività di intercettazione dei migranti all’interno delle proprie acque territoriali, e li detengano o li rimpatrino.
Il piano si espone però al fuoco incrociato di organizzazioni umanitarie del settore come Unhcr, Iom, Human Rights Watch, Msf, Amnesty International.
Alcuni operatori attivi in territorio libico tengono a sottolineare i loro dubbi, evidenziando ad esempio «forti elementi di sofferenza della Guardia costiera libica, primo fra tutti la mancanza di mezzi navali ed equipaggiamenti adeguati, senza i quali il solo addestramento si rivelerà poco efficace».
Pesa poi il morale dello staff libico, «messo alla prova dal mancato pagamento degli stipendi e dalla presenza di episodi di corruzione locale, agevolata dalla forte disponibilità economica dei trafficanti».
Un secondo elemento – spiegano fonti vicine alle autorità locali – riguarda la reale capacità di isolare i trafficanti e quindi di sostenere le comunità locali senza che i fondi vadano a finire nelle tasche di potentati locali o milizie».
C’è poi il nodo dei centri libici di accoglienza/detenzione, noti per scarsità di risorse e condizioni inadeguate alla permanenza dignitosa dei migranti.
«È sorprendente che non si prendano in considerazione ipotesi alternative alla detenzione, ovvero impiego dei migranti in lavori socialmente utili o strutture private, anche considerando i costi stratosferici della detenzione e rimpatrio – sempre minori che in Italia – ma pur sempre elevatissimi. Visto il numero crescente di migranti, presenti e in arrivo, ci chiediamo quale sarà il costo reale per la Libia, l’Italia e l’Europa».
C’è infine l’aspetto cruciale della genesi dei viaggi della speranza.
Mousa, Jane e Juliette provengono dal «serbatoio», ovvero la fascia dell’Africa nera e subsahariana, che si estende dall’Atlantico alla Nigeria. Tutti hanno fatto tappa ad Agadez, in Niger, primo hub delle rotte della speranza, da dove il traffico si biforca. Una parte entra in territorio algerino e poi in Libia attraverso la provincia sud-orientale di Ghat, o attraverso il confine nord-orientale di Ghadames, la maggioranza invece sceglie di evitare l’Algeria, ed entrare attraverso il confine desertico-montuoso Niger-Libia sino a Sebha, principale snodo dei migranti in Libia.
L’accordo europeo al riguardo dedica un paragrafo specifico delle «Priorità » ai confini meridionali della Libia. «Un aspetto che dovrebbe essere prioritario, o almeno gestito in parallelo a quello relativo alla lotta agli scafisti».
In questo senso, occorre ragionare come se oggi i reali confini dell’Europa non siano definiti dalla sponda sud del Mediterraneo ma si estendano alle frontiere di sabbia del Sahel. Finchè la Libia non avrà trovato la sua stabilità ».
Fancesco Semprini
(da “La Stampa”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
IL BOICOTTAGGIO DEI VIGILI ROMANI NEL 2015 FINIRA’ SENZA COLPEVOLI
Alla fine è andata secondo le previsioni. 
I vigili che si sono dati malati a Capodanno 2015, 767 di cui 628 improvvisamente malati con tanto di certificato medico, finiscono senza alcuna sanzione per il loro comportamento.
Di più: uno dei pochissimi rinviati a giudizio, una vigilessa «chiamata» prima che scattasse la «reperibilità », finisce a sorpresa assolta e si dichiara pronta a chiedere il risarcimento dei danni subiti.
La sua, per di più, potrebbe rappresentare una sentenza pilota, alla quale chiederanno di essere assimilati anche gli altri (pochi) vigili finiti a giudizio sinora.
La storia comincia nel dicembre 2014, quando Raffaele Clemente, comandante della Municipale, fa sapere che il numero di caschi bianchi in servizio a Capodanno è decimato perchè in moltissimi si sono messi in malattia; molti adombrano la ritorsione nei confronti del sindaco Ignazio Marino che ha appena deciso di introdurre la rotazione obbligatoria degli agenti.
Una riforma sostanziale sottoscritta dalla giunta Marino senza l’avallo delle sigle sindacali e che, secondo il Campidoglio, non andrà a intaccare lo stipendio di vigili, maestre e dipendenti degli uffici.
Lo slogan è “chi lavora di più guadagna di più”, declinato in modo da agganciare le vecchie indennità ai ruoli, alle funzioni e alla turnazione: in una parola alla “produttività ”, criterio che sostituisce tutti quei vecchi istituti contrattuali giudicati non applicabili dal Mef.
Per quanto riguarda il personale tecnico-amministrativo, ad esempio, ci saranno trasferimenti verso Municipi e gli uffici maggiormente congestionati dall’afflusso di cittadini: in questo modo, con l’introduzione dei turni per i lavoratori (dalle 8 alle 15 o dalle 13 alle 20), sarà possibile mantenerli aperti dalle 8.30 del mattino alle 20.
I vigili urbani, invece, verranno premiati per la loro disponibilità a orari flessibili e a svolgere funzioni operative.
L’obiettivo è portare più agenti in strada (si parla di 1000-1500 in più rispetto ad ora), sgravando il corpo di polizia municipale da una parte di compiti che attualmente svolgono, dalle verifiche anagrafiche alle notifiche amministrative.
Verrà riorganizzato anche il personale scolastico, in modo da contenere i costi, eliminando alcune indennità (da quella per arrivare puntuali in classe ai premi per i colloqui con i genitori).
Inoltre, con il nuovo contratto decentrato, entrerà in vigore un “sistema integrato di valutazione del personale”: gli obiettivi dei singoli dipendenti verranno legati a quelli della dirigenza in modo tale, dicono dal Campidoglio, “che ognuno abbia interesse a remare nella stessa direzione”.
La novità maggiore riguarda la cosiddetta “misurazione delle prestazioni” che fino a ieri era legata unicamente alla presenza in servizio. Ora, invece, bisognerà raggiungere specifici traguardi e garantire i livelli minimi di presenza annuale sul lavoro. Verranno puniti, dunque, tutti i dipendenti assenteisti.
A Capodanno per le strade di Roma è caos.
I pochi agenti obbligati alla reperibilità non vengono trovati: telefoni spenti, tutti spariti nel nulla. A quel punto scatta l’inchiesta della procura di Roma.
Sessanta medici ammettono di aver compilato i certificati senza visitare i pazienti e vengono iscritti al registro degli indagati per falso e rischiano la radiazione dell’albo. Per altri 38 l’ipotesi di reato è accesso abusivo al sistema informatico e sostituzione di persona perchè avrebbero utilizzato le credenziali telematiche di colleghi (che conoscevano) per collegarsi al database del loro ambulatorio permettendo poi ai pizzardoni di sfruttare i documenti taroccati per giustificare l’assenza.
A un gruppo di pizzardoni, racconta oggi Il Messaggero, viene anche contestata l’interruzione di pubblico servizio per aver incitato i colleghi a disertare il turno con un passaparola sul web.
Ma la prova della loro colpevolezza non c’è e tutti vengono archiviati.
Partono quindi gli accertamenti sui certificati medici, alcuni redatti dai dottori mentre si trovavano in località di villeggiatura, o in alcuni casi compilati con accessi abusivi al sistema informatico.
La contestazione supera lo scoglio dell’udienza preliminare: 22 sanitari finiscono a processo.
Dei 767 vigili assenti il 31 dicembre, solo 7 vengono indagati per truffa. Non arrivano però sul banco degli imputati: il gup rispedisce gli incartamenti in Procura.
Il destino di altri 17 agenti sembra invece segnato. I pm emettono un decreto penale di condanna sibillino: «Rendendosi irraggiungibili nonostante fossero inclusi nei turni di reperibilità , si rifiutavano indebitamente di assumere servizio».
Per gli inquirenti la colpevolezza degli imputati «emerge con evidenza, le investigazioni svolte non lasciano dubbi».
I 17, però, non ci stanno. Impugnano il decreto e scelgono il processo. Ieri, la prima sentenza. A fronte di una richiesta di condanna a 8 mesi, il giudice assolve l’imputata con formula piena.
L’avvocato che difende 2 dei 17 caschi bianchi in questione,dimostra infatti che il Comando ha effettuato le chiamate in modo anomalo: «Spesso hanno contattato gli agenti quando non erano ancora reperibili e, quindi, non avevano alcun obbligo di rispondere alle chiamate», dichiara.
E così alla fine non ci sarà nessun colpevole.
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
LE LORO FAMIGLIE VENGONO DA CINA, AFRICA E RUSSIA: “COSI’ REALIZZIAMO IL SOGNO DI INDOSSARE LA DIVISA”
L’Italia non sta cambiando, è già cambiata.
È musulmano, “anche se non praticante “, stava nella provincia di Enna. Figlio d’immigrati magrebini, padre fruttivendolo e venditore di tappeti, faceva il perito elettronico e il volontario della Misericordia, adesso Yassine Jouirra è carabiniere a Melzo, alle porte di Milano: “Dove c’è da lavorare, vado, e un domani mi piacerebbe entrare nell’investigativa”.
Miriam Moubakir è una donna carabiniere che non ti aspetti per il mix, otto anni nei paracadutisti della Folgore e laurea con 110 e lode in Storia dell’arte a Firenze.
Meno di trent’anni, figlia di un’italiana e un marocchino, sta in una stazione nel centro di Bologna, e se ogni tanto per le traduzioni collabora con l’Anticrimine, il suo sogno è, dice con accento toscano, “entrare nel nucleo di tutela del patrimonio artistico e museale, sono innamorata delle opere d’arte che abbiamo”, e si capisce che potrebbe parlarne incantata per ore.
Figlia di una russa e di un bellunese, Marigianna Romor in questo preciso momento, a ventitrè anni, fa il piantone, per giunta sotto la neve in Val Badia: “Qui in regione stanno aumentando di anno in anno i turisti russi e quando i colleghi vengono a sapere che scrivo anche in cirillico mi ripetono che sono fortunata, ma non è solo fortuna”, infatti è andata alla scuola tedesca del Sacro Cuore e poi al liceo classico linguistico tedesco, parla russo, tedesco – leggeva Kant in originale – e ladino.
Il più famoso del gruppo, nel senso che è l’unico finito sui giornali, e soprattutto sui siti, compresi quelli cinesi, è Yue Cai.
Alto, magro, 27 anni, nato a Shanghai, ha fatto il liceo scientifico. Più che un carabiniere, sembra un fotomodello, o un d.j., gli rovina un po’ lo stile internazionale lo spiccato accento romano, degno di Er Piotta: eppure è stato lui, quando nell’estate dell’anno scorso c’è stata una sorta di rivolta dei cinesi a Sesto Fiorentino, ad impedire che la situazione degenerasse e a spiegare che i controlli dell’Azienda sanitaria li subiscono tutti, mica solo i cinesi.
Arbjon Vela è figlio di un tecnico di laboratorio dell’università di Tirana, immigrato a Fano quando lui aveva cinque anni e mezzo: adesso è iscritto a Scienze politiche a Bologna ed è tornato da poche ore da una faticosa trasferta con il Battaglione.
Era di turno anti sciacallaggio nella zona terremotata di Macerata e ha seguito il trasferimento di alcune opere d’arte dalle chiese: ci sono furti, trovato qualche ladro?, domandiamo. “No, meglio per loro “, è la risposta.
Sono giovani carabinieri, “con la faccia un po’ così”, e se sanno ripetere, esattamente come i colleghi più anziani, di “essere al servizio degli altri”, nello stesso tempo rivendicano di rappresentare una novità , di sentirsi a cavallo di due culture.
Come emerge dal sogno professionale di Yue Cai: “Eravamo immigrati a Roma in quattro, mia nonna, i miei e io. Sì, sono figlio unico, hanno risparmiato, mi hanno fatto studiare e un giorno, quando sarò pronto, mi piacerebbe – dice – andare in servizio all’ambasciata italiana e mostrare a Shanghai, e a Pechino, che in Italia c’è uno di noi che si è così integrato da diventare carabiniere ”
Nei racconti di Cai e degli altri emergono tanti piccoli normali dettagli della “scuola della strada” che, sotto la guida dei più anziani e “smagati” colleghi, hanno cominciato a praticare: “Anche per scrivere le denunce c’è una procedura, il maresciallo mi spiega quale sia la nostra e mi tratta come una sorella minore”, dice Moubakir, la parà laureata.
“Partecipo anche ai servizi di pattuglia e ordine pubblico, mi hanno detto che la prima cosa importante è imparare bene ogni aspetto del lavoro del carabiniere”, aggiunge la nordica Romor, tra il telefono che squilla e le persone che bussano alla porta.
Con Yassine Jouirra e il suo comandante andiamo di pattuglia nell’isola pedonale modaiola e alcolica di corso Como: “I miei parenti sono musulmani e sono fieri di quello che faccio, sono uscito al corso come numero 177 su 1658, in caserma ho capito ancora di più come la diversità non sia un motivo di pregiudizio, ma un valore. Un paio di volte ho preso delle denunce di persone che parlavano male l’italiano e scambiare delle parole in arabo ha modificato in senso favorevole per tutti la situazione. Tu sei magrebino e sei carabiniere? E com’è possibile?, mi chiedevano”, ricorda Yassine.
“Avevo chiesto come destinazione Bologna e Bologna, la città dell’università più antica, ho avuto, ne sono felice. Esagero? Macchè, ho realizzato un progetto di vita, adesso so che devo fare quello che fanno gli altri, e sta bene, poi si vedrà . Quanto all’uso dell’albanese – spiega Arbjon Vela – è stato forte in un bar vicino allo stadio: stavamo chiedendo delle informazioni, il barista voleva darcele, ma era un po’ in difficoltà con la lingua, quando mi sono fatto avanti è rimasto con la bocca aperta, sgomento”, dice, con un aggettivo preciso.
“Esatto, molte persone d’origine straniera ci guardano come se fosse incredibile poter incontrare qualcuno che conosce la loro lingua, che somiglia, ma è carabiniere e a me – aggiunge Moubakir – è successo di sentirmi particolarmente utile quando, su richiesta del capitano, ho contribuito a raccogliere la testimonianza di una donna straniera, maltrattata in casa”.
Per il momento nessuno dei neocarabinieri, tutti vincitori di una selezione per le forze armate e poi, nel 2014, del concorso per entrare nell’Arma, ha cominciato, per usare il burocratese, ad “interagire stabilmente ” con le comunità d’origine.
Nessuno viene mandato in prima linea nelle operazioni antiterrorismo o antigang; o usato, addirittura, come infiltrato. Per ora. Perchè, indubbiamente, sia loro, sia i comandanti sono consci che questa sia una possibilità d’impiego.
Come lo sanno altri colleghi: da quando abbiamo incontrato i primi, ci stanno arrivando telefonate informali da parte di altri militari di origine ucraina, egiziana, romena. Per rivendicare, in quest’Italia che sta crescendo senza alzare muri, un inatteso e vagamente orgoglioso “signor giornalista, guardi che ci sarei anch’io”.
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 11th, 2017 Riccardo Fucile
SCOTTO CONTRO I VERTICI E VERSO PISAPIA, NON CI SARA’ AL CONGRESSO DI FEBBRAIO
Sinistra Italiana nasce a metà . Il 17 febbraio ci sarà il congresso fondativo del partito a Rimini, ma
domani a Roma il capogruppo di SI alla Camera Arturo Scotto riunisce i suoi all’Ambra Jovinelli per l’iniziativa SiApre.
Racconta oggi Annalisa Cuzzocrea su Repubblica:
L’idea di una Sinistra italiana chiusa e non dialogante con il progetto di Pisapia e con un Pd molto in divenire non piace a Scotto e a chi sosteneva la sua mozione. «Eravamo quasi al 50 per cento», assicura chi è con lui.
Mentre si parla di 16 parlamentari che molto probabilmente (salvo cambi di rotta improvvisi di Nichi Vendola e Nicola Fratoianni) abbandoneranno la strada segnata dall’ex governatore della Puglia e dagli ex pd Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Scotto è attento a non rivelare le prossime mosse, ma chiede: «In un momento in cui a sinistra tutto si muove, con D’Alema e Bersani dentro il Partito democratico, con il Campo progressista di Giulian Pisapia appena lanciato e la Cgil a lavoro per il referendum sui voucher, Sinistra italiana che fa? Si blinda? Non si pone il problema di trovare un’alternativa ai 5 Stelle e alla destra archiviando la stagione della terza via di Matteo Renzi?».
Per Scotto, Pd non significa Renzi. È questo che più lo distanzia da Vendola e Fratoianni (il compagno di partito che tra una settimana sarà incoronato segretario di Si).
«Il centrosinistra non può essere fatto con il suo killer — spiega — ma Renzi è una pagina archiviata. I suoi sono i colpi di coda di una stagione declinante. Ed è soprattutto a lui che conviene una separazione consensuale a sinistra». Per rompere questo gioco, Scotto e i suoi sono pronti a uscire dal partito.
Scotto quindi guarda all’11 marzo, quando l’ex sindaco arancione ufficializzerà la sua discesa in campo.
Il progetto, spiega Pisapia in un’intervista al Corsera, mira all’alleanza di coalizione con il Pd. Con cui, è la convinzione dell’ex sindaco, si può arrivare al 40% creando — proprio grazie al Campo progressista — un argine anche al grillismo.
Pisapia nega di voler essere “la stampella” di Renzi e si pone come “ambiziosa prospettiva” quella di “spostare il Pd a sinistra”.
Seguendo, di fatto, uno schema molto simile a quello Pd-Sel ai tempi del programma 2013 ‘Italia bene comune’. Solo che allora a capo dei Dem c’era Pier Luigi Bersani, oggi c’è Matteo Renzi. Ed è un mutamento di congiuntura su cui Nichi Vendola non transige.
Sinistra Italiana, è suo il ragionamento, non potrà mai allearsi con Renzi e con il renzismo e da Rimini si partirà con un punto di vista autonomo e legato alla realtà .
Ma il rischio, per gli ex Sel, è di partire con la zavorra della scissione. Il convegno ‘Si apre, la sinistra ancora da scrivere’ vedrà tra i relatori — oltre ai Dem Cuperlo e Stumpo — anche tutti quegli ex vendoliani contrari a rompere il canale di dialogo con il Pd.
A partire da Massimiliano Smeriglio che, martedì a Milano, sarà proprio con Pisapia, l’ulivista Franco Monaco e Laura Boldrini.
La presidente della Camera parteciperà anche al congresso fondativo di SI ma il suo ruolo, nel panorama della sinistra, non è ancora definito. Mentre nel quartier generale degli ex Sel si tenta di abbassare la temperatura pre-Congresso: bene alla dialettica interna, l’era dei partiti monolitici è finita, è il ragionamento che si fa. Il ‘Campo’ di Pisapia, nel frattempo, incassa il placet dei Verdi e dell’altro sindaco arancione Massimo Zedda nonchè quello di Centro Democratico e Democrazia Solidale che, con l’ex sindaco milanese, hanno tra l’altro in comune il ‘niet’ ad Angelino Alfano in un’ipotetica coalizione simil-ulivista.
Ben diversa, invece, è la reazione di Michele Emiliano, a capo di quella corrente del Pd che da giorni chiede il Congresso subito e che si riunirà domani a Firenze.
“Lui e Renzi al 40%? Ottimisti, i sondaggi mi dicono sarà durissima”, punge il governatore della Puglia da Napoli dove incontra e avvia un dialogo con Luigi De Magistris, interprete di una rete civica a cui Emiliano guarda.
Un rete che appare concorrente e alternativa a quella che vuol costruire Pisapia
(da “NextQuotidiano”)
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