Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
“LISTA UNICA ALLE AMMINISTRATIVE MA SENZA DI LORO”… MA FORZA ITALIA E LEGA ACCOLGONO LA PROPOSTA CON FREDDEZZA
Un “listone” di tutto il centrodestra sui temi del sedicente “sovranismo de noiatri” da sperimentare
già alle amministrative, in particolare a Genova.
Lo ha proposto Giorgia Meloni a “In mezz’ ora”.
Sulla possibilità che il centrodestra trovi un accordo per le elezioni anche se si andrà a votare con l’Italicum, Meloni dice di essere “ottimista che ampi pezzi di centrodestra siano disponibili a presentarsi su una proposta chiara, con una norma antinciucio”. “Alle amministrative vorrei si facesse questo tentativo”, conclude.
Senza dimenticarsi di precisare che l’accordo va fatto con tutti salvo che con Alemanno e Storace del Polo sovranista, in quanto “non sono affidabili”.
La proposta è stata accolta in serata con freddezza da Forza Italia e Lega e con evidente dissenso dagli esclusi ad personam.
Alemanno (colui che non avrebbe assunto ruoli politici prima della sentenza del processo che lo vede imputato di corruzione e finanziamento illecito ai partiti) in serata risponde che “la Meloni cerca una lite che non avrà ” e la invita a ” superare le miopi considerazioni di bottega e di poltrone che oggi la spingono a tenere divisa la destra “.
Clima idilliaco come sempre, forse perchè ognuno è sovrano solo a casa sua.
L’unico contento è colui con cui la Meloni aveva concordato la proposta, ovvero il governatore della Liguria Toti che si illude di fare il premier su Marte e rinvia per questo la cura dimagrante. Tutti sanno che non esiste un “modello Liguria” : se la sinistra non si fosse spaccata in due sulla candidatura della Paita, il centrodestra non avrebbe mai vinto le Regionali e il buon Gabibbo bianco avrebbe preso il locale per Novi Ligure (località “ligure” a lui cara).
In realtà la proposta della Meloni cozza contro la strategia della Lega che spera di prendere un voto in più di Forza Italia e di quest’ultima che ha l’esigenza opposta.
Al massimo può andare bene a Fitto e a Quagliarello che non hanno il problema di contare i voti che prendono.
Basta un semplice pallottoliere.
Sempre durante la trasmissione, la sovranista dalle idee “chiare e forti” ci ha spiegato il suo punto di vista sullo stadio a Tor di Valle: “Ho sempre detto di essere favorevole ad uno stadio della Roma e uno stadio della Lazio (versione ecumenica n.d.r.) , sul progetto di Tor di Valle ancora non ho capito se su quel terreno si puo’ costruire o non costruire”.
Ma che ci sta a fare in consiglio comunale una che non l’ha ancora capito, pur avendo tutti gli elementi tecnici per farsi un’idea?
Ai romani l’ardua sentenza.
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
CONTESTATA A NANTES TRA SASSATE E MOLOTOV DA MIGLIAIA DI ABITANTI…E SE LA PRENDE COI GIORNALI CHE HANNO RIVELATO CHE HA TAROCCATO I RIMBORSI UE
Sassate contro i pullman e scontri con la polizia a Nantes, dove Marine Le Pen stava tenendo il suo comizio elettorale.
Mentre all’esterno del teatro i cittadini francesi le manifestano tutto il loro dissenso, la leader del Front National affronta gli stessi temi di Donald Trump.
Prima si scaglia contro i media che “hanno perso la fiducia del popolo”, poi invoca “il ripristino dei confini nazionali“. Come negli Stati Uniti, anche in Francia, secondo Le Pen, la gente non si fida più e “legittimamente va su internet per informarsi”.
“I media hanno scelto il loro campo, fanno una campagna isterica per il loro favorito Emmanuel Macron“, dichiara Le Pen dal palco del teatro di Nantes.
Un attacco ai giornalisti, a poche ore di distanza dalla decisione di Trump di boicottare la cena con i corrispondenti della Casa Bianca. Ma anche un tentativo di screditare il suo principale avversario, quel Macron che secondo i sondaggi la sconfiggerà al secondo turno con il 61% dei voti contro il 39%.
Secondo l’ultima rivelazione Odoxa/Dentsu-Consulting, Le Pen al primo turno otterrebbe il 27%, Macron il 25% e il conservatore Franà§ois Fillon il 19%
Scalfita dalla bufera giudiziaria sugli incarichi fittizi degli assistenti parlamentari a Strasburgo, la leader del Front National spinge sul tema che tradizionalmente le ha portato maggiori consensi: i clandestini.
E anche in questo caso si sovrappone alle parole che furono del presidente degli Stati Uniti: “Riporteremo i clandestini al di là di una frontiera che esiste veramente”, ha dichiarato. Poi l’annuncio in pieno stile Trump — “Ripristineremo le frontiere nazionali!”
Gli scontri in città
A Nantes, città tradizionalmente di sinistra, la polizia è in allarme, un gruppo di manifestanti ha lanciato pietre e bottiglie molotov contro gli agenti, che hanno risposto sparando gas lacrimogeni.
Secondo le informazioni ufficiali, otto persone sono state fermate e 11 poliziotti feriti e molti edifici sono stati danneggiati, sulla scia della protesta di sabato che ha riunito nel centro città più di 2mila persone.
Le sassate contro i bus
Nessun ferito è segnalato nella sassaiola contro diversi pullman sulla statale Rennes-Nantes. Presse Ocean, giornale locale, parla di almeno due veicoli attaccati “da un centinaio di individui con passamontagna“.
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
“LA RAGGI HA FATTO UN GRAN FAVORE AI COSTRUTTORI”… AL POSTO DELLE TORRI VI SARANNO 18 EDIFICI DI 7 PIANI
“Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha cancellato tutte le opere di interesse pubblico che avevamo
preteso fortemente, 250 milioni di investimenti, con un parco grande come Villa Borghese, che è stato cancellato dalla Raggi facendo un grande favore ai costruttori”, ha detto l’ex primo cittadino.
“Quello che viene a mancare completamente sono tutte le opere pubbliche. Come si andrà in questo stadio? — ha continuato Ignazio Marino -.
Vengono cancellati il ponte pedonale che collega la Roma Fiumicino all’altro lato del fiume, viene cancellato completamente il rifacimento della Via del Mare fino al Raccordo e viene cancellato il prolungamento della metro B che dalla Magliana arriva fino allo Stadio.
Diventa uno stadio nel vuoto”.
E ancora, ha concluso l’ex primo cittadino, “al posto delle torri ci saranno 18 edifici di 7 piani. Ricorderà — ha affermato l’ex sindaco rivolgendosi a Minoli — cosa era il parcheggio al Flaminio quando avevamo 18 anni: siringhe per eroinomani, prostituzione tutta la notte. Oggi, invece, c’è un segno distintivo, le tre testuggini dell’Auditorium di Renzo Piano. Allora sono meglio 18 edifici bassi o 3 bei grattacieli progettati dal uno dei più grandi architetti del mondo che rimarrebbero nella storia dell’architettura?”. “Avevamo affrontato nella nostra delibera votata con l’assessore Caudo un tema cruciale: avevamo legato per 30 anni, con un vincolo di strumentalità , lo stadio alla Roma. E avevamo anche detto che se non fosse accaduto negli anni futuri i proprietari avrebbero dovuto pagare 200 milioni di euro di penale. Speriamo che oltre i WhatsApp adesso i cinque stelle possano mettere questa norma nelle delibere che dovranno fare” ha concluso Marino
Poi Marino ha ribadito i concetti della lettera a Repubblica sullo Stadio della Roma a proposito delle opere pubbliche:
In particolare venne previsto:
1. il potenziamento del trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città , con frequenza di 16 treni l’ora nelle fasce di punta e un nuovo ponte pedonale verso la stazione FL1 di Magliana (costo a carico del privato: 58 milioni di euro);
2. l’adeguamento di via Ostiense/via del Mare, di cui si parla da decenni, fino allo svincolo con il Grande Raccordo Anulare (costo a carico del privato: 38,6 milioni di euro);
3. il collegamento con l’autostrada Roma Fiumicino attraverso un nuovo ponte sul Tevere (costo a carico del privato: 93,7 milioni di euro);
4. l’intervento di mitigazione del rischio idraulico e di messa in sicurezza dell’area (costo a carico del privato: 10 milioni di euro). Se verrà a mancare anche una sola di queste opere di interesse pubblico la delibera recita testuale: “(…) il mancato rispetto delle su esposte condizioni necessarie, anche solo di una, comporta decadenza ex tunc del pubblico interesse qui dichiarato e dei presupposti per il rilascio degli atti di assenso di Roma Capitale e della Regione Lazio, risoluzione della convenzione, con conseguente caducazione dei titoli e assensi che dovessero essere stati medio tempore rilasciati”
E ha spiegato che c’è bisogno di una nuova delibera, atto che potrebbe costringere i proponenti a ricominciare da capo l’iter in Conferenza dei Servizi.
/da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
LA SPY STORY SI TINGE DI COMICO: “MI AVEVA CHIESTO I SOLDI PER UN VIAGGIO FORSE A ISTANBUL, MA HO SEMPRE AVUTO DUBBI CHE LI AVESSE UTILIZZATI PER QUEL MOTIVO”
C’è anche un prestito o un regalo da 2200 euro nella storia del grillino Angelo Tofalo ed i suoi rapporti con Annamaria Fontana, trafficante d’armi in carcere con l’accusa di aver fornito missili a Khalifa Gwell, il leader libico insurrezionalista e vicino alle fazioni islamiche estremiste incontrato in autunno a Istanbul dallo stesso
Tofalo con la mediazione della Fontana.
Ne parla Vincenzo Iurillo sul Fatto Quotidiano, raccontando del verbale del membro del COPASIR:
Dice Tofalo: “Già a dicembre 2016 Fontana mi aveva chiesto di sostenere le spese di un viaggio forse a Istanbul… Le diedi 1.500 euro, e poi altri 700, ho sempre avuto il dubbio se li avesse utilizzati per lo scopo richiesto”. Lo scopo è coperto da un omissis. Come anticipato dal Fatto, l’altroieri il pm Catello Maresca ha interrogato Tofalo per capire aspetti non chiariti dalle dichiarazioni spontanee del 2 febbraio.
In particolare chi, e in che circostanze, Tofalo informò dei suoi contatti con i coniugi Di Leva-Fontana “ricevendo rassicurazioni perchè già noti ai Servizi”.
Le risposte sono sbianchettate da omissis che coprono quasi tutto il verbale.
Ma si legge qualcosa su Di Leva. “Mi rappresentò di essere in grado di mettere d’accordo le varie component ipolitiche (in Libia, ndr) per assicurare una rappacificazione creando un fronte unico contro l’Isis”. Nientedimeno.
Tofalo, già noto alle cronache e alle leggende metropolitane per aver postato un video complottista sull’11 settembre, si trova nei guai per la sua conoscenza con Anna Maria Fontana, accusata, assieme al marito Mario Di Leva (che dopo la conversione all’Islam ha assunto il nome di Jaafar) e ad uno dei tre figli di traffico d’armi con Libia e Iran.
Alcune delle armi inoltre sarebbero state destinate all’ISIS.
Fontana è un personaggio molto noto a San Giorgio a Cremano, non solo per essere stata assessora per il PSI e il PSDI a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta ma anche perchè è proprietaria di un intero palazzo in centro città dove è chiamata “la Dama in nero” per la sua abitudine di indossare veli e abiti scuri.
Nel PC di Mario/Jaafar gli inquirenti hanno trovato alcune email con quelli che sembrano essere ordinativi di armi anticarro di fabbricazione sovietica (il testo di una mail recita “Hi Anna, i need this Jup… Igla, Sam-7, Korni”).
Secondo gli inquirenti “la Fontana risulta legata al governo iraniano e all’attuale governo provvisorio della Libia” e ci sarebbero alcune foto nelle quali la coppia è ritratta a fianco dell’ex Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.
Nella vicenda è coinvolto anche Andrea Pardi, amministratore delegato della Società Italiana Elicotteri srl, una società concessionaria che vende i prodotti di Agusta Westland già protagonista di un’inchiesta di Report andata in onda nel 2015.
Proprio durante il servizio di Giorgio Mottola Pardi aveva violentemente malmenato il cronista del programma della Gabanelli prendendolo a calci e pugni.
Pardi, Di Leva e Fontana sono accusati di aver venduto elicotteri, armi e missili terra aria in Iran e a un gruppo terroristico attivo in Libia violando così le leggi sull’embargo e la vendita di armamenti.
Inoltre da alcune intercettazioni dei telefoni dei Di Leva risulterebbero contatti con i rapitori dei quattro italiani sequestrati in Libia due anni fa (Fausto Piano e Salvatore Failla che furono uccisi e Gino Pollicandro e Filippo Calcagno che invece furono liberati).
Da questi contatti gli inquirenti hanno dedotto che la coppia di San Giorgio a Cremano avrebbe svolto, o tentato di svolgere, un ruolo di mediazione con i ribelli.
La vicenda è ulteriormente complicata da alcune indiscrezioni sul conto della conoscente di Tofalo, il nome della Fontana infatti viene fatto anche nel libro del senatore Sergio De Gregorio in relazione ad alcune presunte attività della Dama in nero legate ai Servizi Segreti al punto che secondo De Gregorio la Cia la considera un infiltrato del servizio segreto iraniano.
Inoltre — riferisce il Corsera — nel 2009 il nome della Fontana è anche un ruolo nella liberazione di due soldati israeliani rapiti dal gruppo paramilitare libanese hezbollah che ha appunto solidi legami con l’Iran degli ayatollah.
Comprensibile quindi che, visto il profilo della Fontana, Tofalo abbia voluto “mettere le mani avanti” e chiarire subito la sua posizione con i magistrati che si occupano del caso.
Tra gli interessi politici del deputato Cinque Stelle infatti c’è la situazione politica nel mondo arabo con particolare attenzione alle vicende libiche e al ruolo del nostro Paese nella stabilizzazione della regione in seguito alla guerra del 2011 che ha portato alla caduta e all’uccisione del Colonnello Gheddafi.
In più occasioni il parlamentare pentastellato ha chiesto al Governo di “cambiare rotta” sulla Libia e di elaborare una strategia che tenga conto dei nuovi rapporti di forza tra USA e Russia in quella che è una questione “strategica e legata alla sicurezza nazionale del nostro Paese”.
Inoltre Tofalo, in qualità di componente del Copasir si interessa anche di questioni relative ai Servizi Segreti e di recente è stato promotore di un evento-simulazione dal nome “Intelligence Collettiva: un giorno nei Servizi Segreti” andato in onda alla Camera dei deputati.
In nome della trasparenza Tofalo non ha reso nota la sua visita alla Procura di Napoli (la notizia è stata data invece da Repubblica) nè ha chiarito pubblicamente lo stato dei suoi rapporti con la Fontana
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
“SOCIAL INNOVATION” SENZA SOLDI DA OLTRE UN ANNO… I VINCITORI DEL BANDO PIENI DI DEBITI
Quando gli hanno raccontato di un progetto per rilanciare il Sud che consentiva ai giovani più
qualificati di Sicilia, Campania, Puglia e Calabria di sviluppare le proprie idee grazie a 40 milioni dell’Unione Europea e del Ministero dell’Università e della Ricerca, l’ingegnere Alessandro Brancati ha deciso di abbandonare l’Imperial College di Londra per tornare a Palermo.
Una situazione che, a 29 anni, gli era piombata addosso dal nulla, ma che sembrava perfettamente logica.
Un modo serio per affrontare la questione meridionale attraverso una sana collaborazione tra pubblico e privato: soldi, ricerca, giovani, idee, valorizzazione del territorio.
«Ho immaginato un progetto di carpooling, una specie di bla bla car per i palermitani, autostop 2.0.. E mi sono detto: finalmente posso fare qualcosa per questa terra disgraziata e un po’ maledetta che è la Sicilia».
Bello no? Per niente.
Alessandro si era detto la cosa sbagliata e stava semplicemente entrando in uno sgangherato incubo molto italiano – fatta di promesse non mantenute, soldi buttati, intelligenze sprecate, burocrazia soffocante, rimpalli di responsabilità e carte bollate – che avrebbe avvelenato cinquantadue progetti di qualità e riempito di frustrazione e paura lui e altri trecento ragazzi come lui, che dall’aprile del 2015 attendono complessivamente un milione e mezzo di euro dallo Stato.
Soldi previsti, accantonati e mai dati, necessari per pagare i fornitori, i dipendenti, i macchinari e anche il proprio lavoro. Magari un giorno li vedranno.
Per il momento vedono i debiti. E le minacce dei creditori.
«Siamo finiti nelle mani di una banda di incompetenti. Ci hanno bloccato i finanziamenti . Io e i miei colleghi abbiamo dovuto aprire un secondo fido per fare fronte agli impegni. Siamo esposti per 80mila euro. E abbiamo obblighi complessivi per 140 mila».
E Alessandro, che assieme agli altri vincitori di bando sta organizzando una class action contro il ministero, non è quello a cui è andata peggio.
«Basterebbe un decreto del governo per chiudere questa orribile parentesi, ma la politica non si muove». Un classico.
I soldi bloccati
Nel marzo del 2012 il Ministero dell’Università e della Ricerca decide di mettere in pratica un’intuizione apparentemente vincente dell’allora ministro Francesco Profumo, pubblicando un bando rivolto ai giovani con meno di trent’anni.
È l’operazione «Social Innovation»: saranno i ricercatori migliori di quelle terre a dimostrate al mondo che il Sud non è solo criminalità e inerzia, ma è soprattutto creatività e intelligenza.
Parte così la prima formula di finanziamento italiano a giovani ricercatori meridionali con la nomina di Project Officer – ufficiali pubblici con il compito di assistere i progetti nella fase di realizzazione – e con l’apertura di un conto cointestato «ministero-vincitore di bando» per evitare lo spreco di risorse e per rendere chiara la supervisione da parte dello Stato. Il messaggio è orgogliosamente netto: crediamo in voi, non ci deludete.
Non ci vorrà molto per capire chi deluderà l’altro.
A Napoli, davanti al Maschio Angioino, le rastrelliere per le biciclette sono desolatamente vuote e Roberta Milano, 31 anni, una laurea in beni architettonici, indica rassegnata quel che resta della stazione numero 8 del progetto di Bike Sharing vincitore del bando Social Innovation.
«Faccio parte di Clean Up una associazione che si occupa di cittadinanza attiva e di sostenibilità ambientale. Ci siamo inventati un sistema per prelevare le biciclette senza dispositivi meccanici che fino a tre anni fa era innovativo. Ci dicevano tutti che a Napoli il bike sharing non avrebbe funzionato. Invece abbiamo avuto un successo eccezionale. In pochi mesi abbiamo raccolto 14mila utenti e contato 50mila utilizzi. Insomma, abbiamo fatto il botto. Tanto che il Comune ha deciso di fare una ciclabile su Corso Umberto sulla scorta del nostro esperimento».
Filava tutto alla perfezione e Roberta aveva lo stesso candore contagioso dei bambini a cui le cose sembrano normali finchè qualcuno non li informa del contrario.
«Un anno e mezzo fa ci hanno sospeso i fondi. Come a tutti. E il progetto è morto. Le dieci stazioni sono rimaste vuote, destinate a diventare ferraglia, e le cento bici sono finite in un magazzino. In compenso ci è rimasto un buco da 200mila euro».
Soldi da dare a programmatori, avvocati, grafici, dipendenti.
«Ma non c’è solo il danno economico. Ci abbiamo anche rimesso la faccia. La gente crede che le stazioni vuote e le bici sparite siano colpa nostra. Il Comune ha provato ad aiutarci rilevando il progetto. Ma il ministero non risponde neppure a loro».
In tutti i cinquantadue progetti, gli investimenti delle attività previste sono stati anticipati dai vincitori del bando, che hanno fatto ricorso a prestiti bancari o a fondi personali. Ogni due mesi il Ministero provvedeva ai rimborsi, sulla base delle spese certificate.
Nessun problema fino a un anno e mezzo fa, quando la ragioneria generale dello Stato si è resa conto che la procedura di assegnazione dei fondi era irregolare.
Da un lato perchè rischiava di risultare una forma illegittima di sostegno all’impresa agli occhi dell’Europa. Dall’altro perchè, per facilitare le procedure di pagamento, il Ministero aveva avocato a sè la proprietà dei i beni mobili e immobili legati ai progetti .
Peccato che per l’acquisizione di beni di qualunque tipo gli enti pubblici siano tenuti a passare da un bando della Consip (la stazione appaltante dell’amministrazione pubblica), che in questo caso non c’è stato.
Morale? Il Ministero, in attesa di capire come risolvere la questione, ha deciso il blocco totale degli incentivi per il sostegno alla ricerca preferendo tutelare se stesso che preoccuparsi dei danni causati ai ricercatori.
Noi abbiamo sbagliato, voi pagate. Inutili i ricorsi individuali e collettivi alla Comunità Europea, al ministero dell’Industria, al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio.
C’era un intero Paese a scommettere su questa gloriosa iniziativa destinata a rivitalizzare il Sud, nessuno a farsi carico della responsabilità del suo fallimento.
Proprietà intellettuale
Alle start up le cose sono andate male ovunque. In Calabria, a Napoli, a Palermo, E anche a Lecce. I ricercatori vincitori del bando erano il futuro. A un certo punto si sono sentiti come barboni che vedono solo le mani che allungano gli spiccioli. E adesso neppure più quelli.
L’architetto Sofia Giammaruco e i suoi sei colleghi avevano ribattezzato il loro progetto «Inculture». Innovazione nella cultura, nel turismo e nel restauro.
«Ci siamo presi cura dell’Unione dei Comuni della Grecia Salentina. Attraverso un piano di diagnostica non distruttiva dei beni culturali in collaborazione con il Cnr e il Politecnico di Torino. Per ciascuno dei 12 comuni di riferimento abbiamo individuato un bene culturale su cui intervenire, ad esempio la Chiesa di Santo Stefano di Soleto».
Un lavoro enorme. Che ha dato risultati eccellenti. Finchè quello che inizialmente pareva un entusiasmo illogico si è trasformato in sconcertante disincanto.
«Era un progetto da quasi due milioni di euro. E sono fiera perchè i soldi pubblici li abbiamo spesi bene. E anche perchè non abbiamo debiti con nessuno. Solo crediti».
Lo Stato deve a lei e ai suoi colleghi ottantamila euro.
«La gestione del bando è diventata una barzelletta. Ci hanno preso in giro. Ed è assurdo che oggi, a 31 anni, mi trovi a fare causa allo Stato».
E i suoi colleghi? «Ognuno ha preso una strada diversa». Sparito il progetto. Sparite anche le idee. Perchè in questa trappola infernale il Ministero non si è fatto mancare niente. Lasciando i ricercatori anche senza la proprietà intellettuale del proprio lavoro. «Ci avevano fatto firmare un disciplinare che diceva il contrario. Ma dopo sei mesi ci hanno imposto di sottoscriverne un altro che rendeva il Ministero proprietario degli “eventuali diritti afferenti i risultati conseguiti”», dice Alessandro Brancati.
E perchè avete firmato? «Perchè diversamente ci avrebbero tolto i finanziamenti. E perchè speravamo che la proprietà dei risultati potesse restare a noi».
Speranza vana. Ed è inutile fare finta di niente perchè quel pensiero è come una zanzara che si posa ovunque per succhiare sangue. Truffaldini o incapaci? «Incapaci».
«Lo sa cosa mi fa impazzire?», chiede il palermitano Francesco Massa, che assieme a due colleghi rientrati apposta dal Mit di Boston e dal Canada, aveva dato vita a un progetto di mobilità sostenibile.
Cosa? «Che pensavamo di fare qualcosa per la nostra terra. E invece abbiamo scoperto che la nostra ricerca è stata abbandonata, mentre contemporaneamente il comune di Palermo sta sviluppando con il ministero dell’ambiente una applicazione di mobilità sostenibile. Cioè paga persone per fare cose che noi avevamo già pronte. Sono mondi che non si parlano. In questo Paese le cose vengono fatte completamente a caso».
Fuga dalle risposte
E adesso? Comunicare con il Miur per i trecento ragazzi dei cinquantadue progetti è diventato impossibile.
«Abbiamo inviato decine di mail che non hanno mai ricevuto risposta e i telefoni squillano a vuoto».
In effetti anche il ministro Fedeli (erede ultima di questo pasticcio) si nega alle interviste, consegnando al suo ufficio stampa un comunicato di incomprensibile vaghezza: «A breve i rappresentanti dei vincitori riceveranno una proposta emendativa e nel frattempo sarà istituito un tavolo tecnico per individuare i provvedimenti necessari per una corretta e il più possibile rapida gestione della fase conclusiva del bando». Boh.
Si recupera un danno così? Difficile.
Neppure i soldi, se mai dovessero arrivare, basteranno, perchè sono le esperienze che abbiamo avuto a determinare il rumore del nostro tempo. E questo che sentono i ragazzi del sud è un rumore cattivo. Anche più cattivo del solito.
Andrea Malaguti
(da “La Stampa”)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
LONDRA ATTIRA MULTINAZIONALI IN CERCA DI LAVORATORI A BASSO COSTO… LA BREXIT APRE ALLO SFRUTTAMENTO CON LAVORI PRECARI E MALPAGATI
È certo che al referendum sulla Brexit nessuno abbia votato per impoverirsi. Ma la popolazione britannica, a otto mesi dalla consultazione, sta iniziando a fare i conti con il proprio portafoglio.
La sterlina oggi vale il 18% in meno rispetto al dollaro e il 12% rispetto all’euro e per George Saravelos, capo della divisione Forex di Deutsche Bank, potrebbe scendere a quota 1,05 contro il dollaro (-16% dai livelli attuali) a causa della natura “incredibilmente complicata” della Brexit.
L’inflazione sta tenendo banco nel Regno Unito, che tradizionalmente è un importatore: a gennaio i prezzi sono cresciuti dell’1,8%, secondo i calcoli dell’Office for National Statistics: un ulteriore aumento dopo il +1,6% di dicembre e il +1,2 del mese precedente.
È l’incremento maggiore negli ultimi due anni e mezzo. La crescita dei prezzi va a braccetto, è vero, con livelli occupazionali record, ma i salari restano al palo.
E così oggi il cuore dell’impero britannico, persa la sua centralità continentale, potrebbe in alcuni settori economici diventare terra di conquista.
La Camera di Commercio britannica, in un’indagine condotta su 1.500 aziende, ha rilevato che la caduta della sterlina a seguito del referendum ha portato un incremento dei costi e una riduzione dei margini.
Solo un’azienda su quattro ha evidenziato un impatto positivo sulle esportazioni, la maggior parte ha invece registrato un calo.
“Le aziende che importano devono fronteggiare costi maggiori e possono trovarsi bloccate in situazioni contrattuali poco flessibili alle fluttuazioni della moneta”, ha detto il direttore generale Adam Marshall.
Il 68% ha aggiunto che la svalutazione aumenterà la base costi nel prossimo anno e il 54% ha dichiarato che incrementerà i prezzi di vendita.
“L’inflazione sarà un fattore di preoccupazione importante nel prossimo anno. Anche se al momento i tassi non sono alti rispetto al trend storico, stanno tuttavia mettendo molta pressione sulle aziende”, ha specificato Marshall.
Per tutta risposta alcuni gruppi hanno iniziato a ritoccare all’insù i listini o ridurre le quantità vendute allo stesso prezzo.
Toblerone ha aumentato lo spazio tra un triangolo e l’altro delle proprie barrette e le confezioni dei Maltesers, prodotti da Mars, hanno perso il 15% del peso.
Prezzi in su invece per Nestlè, PepsiCo e Unilever su alcuni dei brand più amati dalla popolazione britannica.
In particolare ha fatto rumore la querelle tra Tesco e la stessa Unilever nei riguardi della Marmite, la crema a base di estratto di lievito di birra presente in ogni dispensa del Regno.
La multinazionale olandese aveva deciso di aumentare il prezzo della Marmite del 10%, e la catena di supermercati aveva risposto bandendo questo e altri prodotti Unilever.
La frizione è poi rientrata, ma la Marmite ha comunque subìto un rincaro in altri supermercati: Morrisons, per esempio, ne ha alzato il prezzo del 12,5 per cento.
Ma il panorama dei rincari è molto più ampio: va dall’olio d’oliva, per lo chef Jamie Oliver diventato un bene di lusso, provocando secondo la Coldiretti una riduzione delle vendite italiane del 13%, alla birra: Heineken e Carlsberg, oltre a Molson Coors, produttore della Carling, e AB-InBev con la sua Budweiser, hanno tutte ritoccato i propri prezzi di riferimento.
Gli ultimi segnali sono arrivati con la tecnologia.
Microsoft, Apple e Sonos hanno annunciato aumenti fino al 25%, in risposta alla caduta della sterlina nei confronti del dollaro.
Amazon Web Services ha giustificato il rialzo allo stesso modo, e anche gli utilizzatori della Creative Cloud di Adobe, che include strumenti popolari come Photoshop, hanno trovato una sorpresa nella propria posta.
“Potresti essere al corrente che la fluttuazione dei tassi di cambio è stata significativa negli ultimi anni. A seguito dei cambiamenti dei tassi di cambio nella tua area, il prezzo dei prodotti e servizi Adobe sarà più alto a partire dal 6 marzo 2017”, ha scritto la casa produttrice.
La crescita dei prezzi si accompagna a una riduzione generale della disoccupazione, che al 4,8% si presenta ai minimi degli ultimi 11 anni.
Secondo l’Office for National Statistics, nell’ultimo trimestre dello scorso anno oltre 31,8 milioni di britannici risultavano occupati, 303mila in più rispetto a un anno prima.
Il tasso di occupazione ha toccato il livello record del 74,6%, che non si registrava da quarant’anni.
Ma solo 70mila dei nuovi occupati sono cittadini britannici, mentre ben 233mila sono stranieri, che hanno portato complessivamente il proprio peso nella forza lavoro del Regno Unito a 3,48 milioni, il 10,9 per cento.
Queste statistiche però non dicono ancora tutto, perchè i lavoratori del Regno Unito nati all’estero, rispetto all’anno precedente, sono cresciuti complessivamente di 431mila unità per raggiungere i 5,54 milioni, mentre si sono ridotti di ben 120mila unità i nati nel Regno Unito.
In più l’istituto sottolinea che la quota di lavoratori part-time impossibilitati a trovare un full-time resta ampiamente sopra la media, così come il tasso di sottoimpiegati, cioè coloro che vorrebbero lavorare di più.
Una nuova ricerca della Joseph Rowntree Foundation indica che quasi un terzo della popolazione del Regno Unito, circa 19 milioni di persone, vive con un reddito “inadeguato”.
Rispetto al biennio 2008/09, lo studio mostra un incremento di ben 4 milioni di cittadini finiti al di sotto della soglia del reddito minimo.
In pratica, livelli da piena occupazione ma impieghi sempre più precari e malpagati.
E per il prossimo futuro non si prevedono inversioni di questo trend. Negli ultimi mesi è stata registrata una contrazione dell’incremento dei salari, cresciuti nel trimestre novembre-gennaio del 2,7%, ma in termini reali solo dell’1,4 per cento.
E se con una sterlina debole il costo del lavoro diventa più conveniente, la terra d’Albione diventa ancora più appetibile per i big player continentali e americani, pronti a sfruttare la manodopera, ultra-qualificata o ultra-flessibile, del Regno Unito. A investire nella Brexit, infatti, sono le aziende del settore tecnologico, le stesse che hanno appena annunciato il ritocco dei prezzi. Amazon ha previsto un investimento di 5mila posti di lavoro entro l’anno, Tim Cook, numero uno di Apple, ha confermato l’impegno nel Paese, Google a novembre aveva annunciato un investimento da 3mila posti di lavoro.
Stesso trend nel pharma. Novo Nordisk, gigante danese, che sfrutta la corona agganciata all’euro, ha confermato l’investimento di 115 milioni di sterline per insediare 100 scienziati nei prossimi 10 anni in un nuovo centro di ricerca a Oxford, una decisione definita “un voto di fiducia” nella Gran Bretagna post-Brexit, dopo diversi mesi di riflessione e un cambio favorevole.
Tuttavia, se la ricerca verrà eseguita a Oxford, i nuovi farmaci verranno sviluppati in Danimarca, e il vice presidente Mads Thomsen ha spiegato chiaramente alla Bbc che ogni ricavo commerciale andrà alla società danese.
Non è l’unico caso del settore: AstraZeneca sta completando il proprio centro di ricerca a Cambridge da 400 milioni di sterline, GlaxoSmithKline a luglio ha confermato il proprio investimento di quasi 300 milioni.
Percorso inverso, invece, per le grandi banche d’investimento, che con l’uscita dall’Unione perdono nel Regno Unito il proprio baricentro d’azione europeo.
Bruegel, think tank con sede a Bruxelles, ha recentemente stimato che il 35% di tutta l’attività bancaria londinese sia da attribuire a clienti della Ue, e dunque 1,8 trilioni di euro di asset si dirigeranno verso i 27.
Secondo il gruppo di ricerca 10mila posti di lavoro si trasferiranno nelle sedi europee e a questi va aggiunto un indotto di 20mila ulteriori posti tra avvocati e consulenti che seguirà lo stesso destino.
Valutazioni addirittura conservative rispetto a quelle del gruppo lobbista TheCityUK, che stima la perdita di 70mila occupati, e soprattutto a quelle di Xavier Rolet, numero uno del London Stock Exchange Group, che vede la perdita di oltre 230mila lavoratori. Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan Chase, ha dichiarato che “ci saranno più trasferimenti di quelli sperati”, mentre Hsbc, secondo il suo amministratore delegato Stuart Gulliver, vedrà emigrare a Parigi una parte del suo staff che genera complessivamente il 20% di tutti i ricavi londinesi dell’istituto bancario.
Felice Meoli
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
E’ STATO DEPOSITATO ALLA CAMERA NEL 2014 CON RELATIVO SIMBOLO… POSSIBILI AZIONI LEGALI
Un divertentissimo problemone legale potrebbe abbattersi a breve su Articolo 1 Democratici e
Progressisti, il nuovo movimento presentato ieri da Roberto Speranza, Enrico Rossi e Arturo Scotto che riunisce gli ex del Partito Democratico e gli ex di Sinistra Italiana: il nome Democratici e Progressisti è stato già depositato alla Camera nel 2014 con relativo simbolo e appartiene, tra gli altri, al renzianissimo Ernesto Carbone, noto per il “Ciaone” al referendum e per la mancata promessa di lasciare la politica in caso di no al referendum.
Racconta il Fatto
Era stato usato per una lista presentata alle elezioni regionali della Calabria di tre anni fa, a sostegno dell’allora candidato alla presidenza Mario Oliverio.
I detentori del simbolo sono alcuni esponenti del Pd: il deputato Ernesto Carbone, appunto, il suo collega Ferdinando Aiello e il consigliere regionale Giuseppe Giudice Andrea.
I tre, che hanno depositato nome e simbolo a Montecitorio, starebbero ora valutando azioni legali per difenderne la primogenitura e impedire a Bersani e agli altri di usarlo per battezzare il neonato movimento.
Il consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea è andato a cantargliele di persona sulla questione:
Gentile onorevole,
oggi le testate giornalistiche e televisive stanno parlando del nuovo soggetto politico che ha creato, assieme ad altri, dopo la fuoriuscita dal PD.
Tengo a specificare, in qualità di responsabile della comunicazione del gruppo Democratici e Progressisti Calabria, che questo soggetto esiste già , è ben strutturato nella nostra Regione, è parte del PD e politicamente vicino al segretario Matteo Renzi. Il gruppo conta numerosi consiglieri comunali e provinciali sul territorio calabrese ed è rappresentato da ben 3 consiglieri regionali.
Sono sicuro che vorrà tenere conto dell’incresciosa situazione; l’utilizzo del nome Democratici Progressisti potrebbe ingenerare equivoci e confusione.
(da “NextQuotidiano”)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
IL CAPOFAMIGLIA HA RILEVATO UNO DEI PIU’ GRANDI GRUPPI IMMOBILIARI D’EUROPA, CON GLI AFFARI SONO CRESCIUTI I DEBITI… FINO A QUANDO UNICREDIT SI E’ PRESA BUONA PARTE DELL’ATTIVITA’, ESCULSA EURNOVA, PROPRIETARIA DEI TERRENI DI TOR DI VALLE
A Roma si narra che metà della sua famiglia sia di fede laziale. Non per questo Luca Parnasi si è tirato indietro davanti al più ambizioso progetto immobiliare della capitale: la realizzazione del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle.
Anzi, a dire il vero, per lui, romano e romanista, il nuovo stadio è più di una semplice opportunità di investimento.
E’ una sfida che ha il sapore di un riscatto dopo la dèbà¢cle di Parsitalia, lo storico gruppo di famiglia sommerso dai debiti.
Considerato un astro nascente del mattone capitolino, Parnasi è uno che la sa lunga. Ha imparato i rudimenti del mestiere dal padre Sandro. E, secondo i bene informati, ne ha fatto tesoro.
Classe ’77, ultimo di tre figli e unico erede maschio, l’imprenditore è cresciuto a pane e mattone: già a metà degli anni ’40, il padre è infatti fra i protagonisti nelle costruzioni romane.
Gli affari vanno bene grazie anche alle amicizie che contano nell’area di centro sinistra con cui i Parnasi, al pari dei Marchini, continueranno a flirtare fino a tempi recenti.
Il salto di qualità arriva però negli anni ’90 quando il capofamiglia Sandro rileva uno dei più grandi gruppi immobiliari d’Europa, la Sogene del banchiere bancarottiere Michele Sindona.
Da allora inizia un periodo d’oro grazie anche al sostegno della Banca di Roma di Cesare Geronzi. Nella capitale non c’è affare in cui i Parnasi non mettano il naso, come testimoniano grandi progetti come il multisala UGC a Roma Nord o i due mega shopping center di Porta di Roma e EuRoma2.
Assieme ai progetti cresce però anche il passivo della holding di famiglia, Parsitalia, che, nell’estate dello scorso anno, arriva ad avere debiti per 500 milioni verso i finanziatori Unicredit, Mps e Aareal Bank.
Scomparso il padre a luglio 2016, Luca deve far i conti con un’inevitabile ristrutturazione del debito dell’impero di famiglia.
Buona parte degli asset finiscono nella Capital Dev, società controllata da Unicredit e destinata a portare avanti i progetti di sviluppo che aveva avviato Sandro.
Ne resta fuori la Eurnova perchè, tutto sommato, il debito è sostenibile.
L’azienda, controllata dalla cassaforte di Parnasi, Capital holding spa, è proprietaria dei terreni di Tor di Valle acquistati per 42 milioni dalla SAIS dei fratelli Antonio e Gaetano Papalia grazie anche a una fideiussione da 4 milioni rilasciata da Unicredit.
Da cinque anni ormai Eurnova studia la realizzazione del nuovo stadio della Roma, un progetto colossale che fa gola a molti in tempi di magra dell’immobiliare.
Primo fra tutti Francesco Gaetano Caltagirone, al quale nel 2012, proprio i Parnasi sfilarono l’affare da 263 milioni per la nuova sede della Provincia.
Con il sindaco Ignazio Marino, Parnasi è ad un soffio dal chiudere il cerchio sul grande affare dello stadio per il quale, ottenute le autorizzazioni amministrative del caso, dovrà successivamente trovare dei finanziatori.
Fra questi forse anche Unicredit, che, secondo indiscrezioni mai confermate, avrebbe voluto trasferire il quartier generale in nuovi uffici a Tor di Valle.
Ma poi l’uscita di scena del primo cittadino Pd mette di nuovo tutto in discussione e rischia anche di mettere a dura prova i conti della Eurnova srl che ha archiviato il 2015 in rosso (-1,4 milioni, in crescita esponenziale rispetto ai 167mila euro del 2014) e ha sulle spalle poco più di 40 milioni di debiti (di cui 9 con Unicredit) su un valore della produzione da 13 milioni.
Se il progetto fosse stato respinto, per Parnasi si sarebbe aperto uno scenario a tinte fosche.
Ma ora è arrivato il salvagente della Raggi.
Costanza Iotti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 26th, 2017 Riccardo Fucile
NELLE MARCHE 20.000 CASE INAGIBILI, 5300 SFOLLATI NEGLI HOTEL E 8700 FUORI CASA
Mario Sensini sul Corriere della Sera racconta oggi cosa sta accadendo nelle Marche, dove ci sono
ventimila abitazioni dichiarate inagibili e 5300 sfollati negli hotel e 8700 fuori casa ma sono arrivate soltanto venti domande per la riparazione dei danni lievi delle abitazioni con contributi pubblici:
L’ordinanza di Errani sulla riparazione dei danni lievi, che lo Stato è pronto a rimborsare al 100%, è di tre mesi fa.
Per partire con i lavori, e far tornare la gente nelle case, sulla carta ormai c’è tutto: ordinanza, prezzario delle opere, provvedimento dell’Agenzia delle Entrate sul credito d’imposta, soldi. Eppure nulla si muove.
Appena venti cantieri «privati» aperti dopo il terremoto che quattro mesi fa ha sconquassato la regione sono il segno che qualcosa effettivamente non funziona.
Per avviare finalmente la ricostruzione il governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, ora sta pensando di lanciare una grande campagna informativa tra i cittadini.
Il problema, però, sta a monte.
Tanto per cominciare, in tutto il cratere del terremoto non c’è ancora un solo sportello bancario in grado di erogare i finanziamenti a fondo perduto dello Stato.
Le banche che hanno aderito alla convenzione con la Cassa Depositi, che ha messo sul piatto 6,1 miliardi con una sorta di anticipazione al governo, nonostante le sollecitazioni dell’Abi, sono pochissime.
Intesa, Unicredit, Ubi e tre o quattro Bcc locali, che però non sono ancora operative. Banca Marche, di gran lunga la più forte nel territorio, per il momento si è chiamata fuori dalla partita.
Chi vorrà i contributi per sistemare casa rischia di dover aprire un nuovo conto corrente bancario.
Poi c’è il problema di trovare i tecnici per fare le schede Aedes di valutazione del danno, necessarie per i contributi.
Il nuovo decreto ha abolito il limite agli incarichi dei professionisti, che finora hanno puntato alle ristrutturazioni più remunerative, ma l’offerta scarseggia.
(da “NextQuotidiano“)
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