Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
LA STORIA DEI 5 MILIONI DI DOLLARI VERSATI DAI SERVIZI ITALIANI PERCHE’ BLOCCASSE I BARCONI
Il “ricatto dei barconi” si “arricchisce” di un altro capitolo della vergogna. A rivelarlo è Francesco Battistini, inviato del Corriere della Sera.
“lI trentenne Ahmad Dabbashi detto Al Ammu, ovvero ‘lo Zio’, il re dei trafficanti di uomini verso l’Italia, il contrabbandiere del petrolio, l’uomo dei sequestri lampo, il criminale super-ricercato dall’Onu e dalla procura di Tripoli, sembrava sparito nel nulla da quand’era cominciata l’offensiva del generale Haftar su Tripoli- scrive Battistini – Stava in prigione, secondo fonti ufficiali: arrestato dopo le rivelazioni che l’avevano indicato tra i collaboratori segreti del governo tripolino di Fayez Al Sarraj; fatto scomparire dopo un’oscura storia di 5 milioni di dollari che gli sarebbero stati versati addirittura con mediazione dei servizi italiani, perchè collaborasse a stoppare il viavai di barconi che lui stesso aveva sempre alimentato”.
“Mercoledì, con la controffensiva di Sarraj su Sabrata e Surran, con la liberazione di 400 pericolosi detenuti nel carcere, riecco lo Zio — aggiunge l’inviato del quotidiano di Via Solferino – Quello che vantava (e spesso millantava) rapporti con gli alti dirigenti del Viminale. Oggetto di smentite dell’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, e d’audizioni al Copasir: in un reportage dell’Associated Press, s’era raccontato che il calo degli sbarchi in Italia durante il governo Gentiloni non era dovuto solo agli accordi internazionali con Sarraj, ma specialmente a un’intesa con la milizie Al Ammu e Brigata 48 che controllano da sempre Sabrata e le partenze dei barconi. Chi ha rimesso in circolazione lo Zio? Da poche ore, a Sabrata e lungo tutta la costa occidentale che va da Tripoli al confine con la Tunisia, sono tornate le truppe di Sarraj…”.
Le truppe dell’uomo su cui l’Italia ha puntato.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
PRESI DALLA GUARDIA COSTIERA (QUELLA CHE L’ITALIA FINANZIA) E CONSEGNATI A TRAFFICANTI E TORTURATORI
Centinaia di migranti sono stati fati spare dopo essere stati catturati dalle autorità libiche a partire da
gennaio. Dove sono stati imprigionati? A chi sono stati venduti? Sono tutti ancora in vita?
La denuncia sui desaparecidos del Mediterraneo formulata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) conferma il quadro di un Paese fuori controllo, in balia di clam e milizie mafiose, nel quale tutto il denaro stanziato da Italia e Europa non è mai servito a migliorare davvero le condizioni degli esseri umani.
“Secondo recenti dati governativi, circa 1.500 persone sono attualmente detenute in 11 centri della “Direzione per la lotta contro l’immigrazione illegale” libico (DCIM), alcuni da molti anni.
Si tratta del numero più basso registrato da ottobre 2019”, nota l’Oim in una nota. Tuttavia, nel 2020 almeno 3.200 uomini, donne e bambini a bordo di imbarcazioni dirette in Europa sono stati intercettati dalla cosiddetta guardia costiera libica “e riportati indietro, in un Paese in cui ancora si combatte. La maggior parte finisce in strutture adibite ad attività investigative o in centri di detenzione non ufficiali. L’OIM non ha accesso a questi centri”
Per questa ragione l’organizzazione dell’Onu “esprime grave preoccupazione per la sorte di centinaia di migranti che quest’anno la Guardia Costiera libica ha riportato a terra e dei quali non si hanno più notizie”
Il governo di Tripoli non risponde più neanche alle Nazioni Unite.
“Nonostante le molteplici richieste, le autorità libiche non hanno fornito alcuna informazione – denuncia l’Oim – su dove si trovino con esattezza queste persone o perchè siano state portate in strutture di detenzione non ufficiali”.
Un’accusa, quest’ultima, che conferma le inchieste giornalistiche e le investigazioni degli esperti Onu, secondo cui esponenti delle forze armate e della polizia libica, collegati ai vari clan, sono implicati nella “cessione” e alla “vendita” di migranti ai trafficanti, che poi altro non sono che gli stessi clan costituiti in milizie.
“La mancanza di chiarezza sulla sorte di queste persone scomparse è una delle preoccupazioni più gravi”, ha detto una portavoce dell’Oim, Safa Msehli. “Siamo a conoscenza di molte testimonianze di abusi che si verificano all’interno dei sistemi di detenzione formali e informali in Libia”
Numerose testimonianze, che per l’Onu “sono considerate credibili, da parte di comunità di migranti in contatto con l’Oim sostengono che i detenuti vengono consegnati ai trafficanti e torturati nel tentativo di estorcere denaro alle loro famiglie, abusi che sono stati ampiamente documentati in passato dai media e dalle agenzie dell’Onu”
Solo nell’ultima settimana, almeno 800 persone sono partite dalla Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa. Quasi 400 sono state riportate in Libia e, dopo operazioni di sbarco ritardate a lungo a causa della situazione di scarsa sicurezza a terra, “sono state poi mandate in detenzione. Almeno 200 di loro sono finiti in centri non ufficiali e risultano non più rintracciabili”
Molti di coloro che hanno raggiunto le acque internazionali e la zona di ricerca e soccorso maltese sono rimasti bloccati per giorni, senza essere soccorsi. Per questa ragione “l’Oim chiede al governo libico di chiarire che fine abbiano fatto tutti coloro di cui non si ha più notizia e di porre fine alla detenzione arbitraria”.
L’Europa, però, non può chiamarsi fuori. Da qui l’appello all’Ue “affinchè si stabilisca con urgenza un meccanismo di sbarco chiaro e rapido per porre fine al ritorno coatto dei migranti in Libia”.
E il Covid-19 “non deve essere una scusa per non ottemperare a diritti internazionali duramente conquistati e a quegli obblighi che gli Stati hanno nei confronti delle persone vulnerabili”.
(da Avvenire)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
A SAVIANO, ALMENO 200 PERSONE VIOLANO LA LEGGE CON PALLONCINI, MUSICA E TRICOLORE… L’IGNORANZA NON HA LIMITI
Folla a Saviano, nel Napoletano, lungo strada che porta al municipio, per un rito funebre. Almeno 200 persone, palloncini, e musica ai funerali del sindaco del centro nel Nolano, Carmine Sommese, 66 anni, ex consigliere regionale e primario nell’ospedale di Nola, deceduto ieri per coronavirus.
Politico locale di spicco e sindaco più volte, dal 2012 ad oggi ininterrottamente, professionista garbato e molto disponibile, Sommese era molto apprezzato nella sua città , e la gente ha voluto comunque tributargli un omaggio, scendendo in strada al passaggio del carro funebre.
Il vicesindaco, Carmine Addeo, si è anche tolto la fascia tricolore per farla indossare alla moglie di Sommese.
Il carro funebre è stato accolto da un lungo applauso delle persone assiepate senza rispetto delle distanze di sicurezza, ripreso dalle immagini di molti cellulari, video che dimostrano l’esistenza di un assembramento, nonostante il divieto delle norme anticontagio per il Covid-19.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
SPESE PER IL CORONAVIRUS: TRA BCE, SURE E MES SI POTREBBE COPRIRE IL 60% DEL FABBISOGNO… E CON IL MECCANISMO DI STABILITA’ POTREMMO ANCHE GUADAGNARCI QUALCOSA
Non siamo sull’orlo del baratro. L’affermazione può apparire avventata, nel momento in cui il Fondo
monetario internazionale pronostica che il debito pubblico salirà di colpo, quest’anno, dal 135 al 155 per cento del Pil, lo spread viaggia a quota 230 e, su giornali come il Financial Times, appaiono tre articoli, nel giro di una sola settimana, che seminano dubbi sulla sostenibilità del debito italiano e sul rischio di default.
Ma questo dicono i conti e anche una lunga fila di autorevoli economisti: possiamo cavarcela.
Per ridare fiato all’economia italiana nei prossimi anni, dopo la gelata dell’epidemia, ci vogliono, probabilmente, un piano Marshall e gli eurobond. Però, per salvare l’osso del collo, da qui a un anno, finanziando l’emergenza, ma evitando anche di dire che non possiamo onorare i debiti e dobbiamo uscire dall’euro, basta quello che c’è già sul tavolo. Con molte grazie all’Europa. Senza, affonderemmo.
Il punto chiave, infatti, è la quota del nostro debito che non starà in mano a investitori privati potenzialmente suggestionabili. Piuttosto, alle istituzioni europee: Bce, ma non solo.
Con il nuovo decreto in arrivo, il governo destinerà un’altra sessantina di miliardi all’emergenza. In tutto, dunque, la spesa per tenere in piedi l’economia arriverà oltre il 3 per cento del Pil, più o meno quanto hanno impegnato gli altri paesi.
Se si sommano le nuove spese a quelle già decise per la sanità e al disavanzo che era in bilancio per quest’anno, il deficit si assesterà , per il 2020, oltre l’8 per cento del Pil, quanto già prevede il Fmi.
Vuol dire un buco di circa 140 miliardi di euro. Se ci aggiungiamo i 316 miliardi di euro di titoli del Tesoro che scadono quest’anno, il totale da trovare per far quadrare i conti è 456 miliardi di euro.
I mercati finanziari saranno disposti a prestarci questa montagna di soldi?
Non è tanto importante, spiega l’Osservatorio dei conti pubblici di Carlo Cottarelli, perchè 224 miliardi arriveranno dalla Bce, nell’ambito del nuovo Quantitative easing.
Dal nuovo fondo Ue, il Sure, 17. E, dal famigerato Mes, se li vogliamo, 36. Totale dall’Europa, 277 miliardi, quasi il 60 per cento del fabbisogno del Tesoro per il 2020.
Di fatto, dobbiamo trovare sui mercati meno soldi di quelli che avremmo dovuto, comunque, cercare, se il virus non fosse mai arrivato.
Non è il solo bastione a difesa del nostro debito. Oltre al flusso dei nuovi finanziamenti, conta la loro consistenza.
Con gli acquisti già previsti dalla Bce e i soldi che arrivano da altri canali Ue, il totale dei crediti in mano alle istituzioni europee toccherà un quarto del nostro debito totale. Cottarelli invita a leggerlo così: oggi gli investitori privati detengono debito pubblico italiano per un ammontare equivalente al 112 per cento del Pil.
A fine 2020, nonostante l’esplosione del debito, la quota in mano ai privati non supererà il 120 per cento. Dal 112 al 120 per cento non è un terremoto.
Rinunciando ai crediti che il Meccanismo europeo di solidarietà è pronto a dare per la spesa sanitaria, senza altri vincoli e condizioni, i conti sono un po’ peggiori.
Sul piano puramente finanziario, però, sarebbe un’occasione persa.
In questo momento, il Tesoro si indebita sul mercato a dieci anni, ad un tasso vicino al 2 per cento. Cioè, per chiedere quei 36 miliardi agli investitori privati e non al Mes, l’Italia deve pagare un po’ più di 700 milioni di euro l’anno. Il Mes, invece, grazie al rating eccellente, si indebita sul mercato, a dieci anni, allo 0 per cento.
E l’interesse zero verrebbe girato al paese debitore, cioè l’Italia.
Insomma, i 36 miliardi vanno restituiti, ma sono gratis. Se poi il debito fosse a 5 anni, invece che a 10, ci si può guadagnare qualcosa.
Attualmente, il Mes si indebita a cinque anni al tasso del -0,30 per cento. Per aver preso quei soldi, l’Italia intascherebbe un po’ più di 100 milioni l’anno.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
IL NUMERO 2 DELLA LEGA (UNO CHE ALMENO HA UNA LAUREA ALLA BOCCONI) PENSA CHE IL MES NON SIA UNA SOLUZIONE DA SCARTARE… E ZAIA LA PENSA COME LUI
Ci sarebbe anche una parte della Lega favorevole a questo Mes senza condizionalità , destinato ad aiutare i Paesi dell’Unione Europea nella spesa sanitaria pari al 2% del Pil. Questa parte della Lega è rappresentata da quel piccolo microcosmo che gira intorno a Giancarlo Giorgetti.
Lo scontro Salvini-Giorgetti, infatti, sembra abbastanza aperto, come riportato quest’oggi da un retroscena di Repubblica firmato da Carmelo Lopapa che, per il quotidiano romano, segue dal di dentro le vicende del Carroccio.
Secondo Giorgetti il Mes proposto da Bruxelles e la sua versione venuta fuori dalla riunione dell’Eurogruppo non è pericolosa come la versione “tradizionale” del Mes, quella che ha trovato l’ostacolo sovranista sin dallo scorso autunno.
Anzi, l’occasione, in questo momento di feroce crisi economica che si sta affacciando all’orizzonte, non sarebbe da farsi sfuggire, sempre secondo la versione del Giorgetti governista, di quel mediatore che sapeva unire anche le versioni più contrapposte nell’esecutivo di cui ha fatto parte dal 2018 all’estate del 2019.
Una parte della Lega che, non a caso, è la stessa a cui fa riferimento il governatore della regione Veneto Luca Zaia. Quest’ultimo ha gestito bene l’emergenza coronavirus all’interno dei suoi confini, facendo venir fuori il Veneto da una situazione inizialmente complessa, al pari di quella della regione Lombardia.
Tuttavia, Matteo Salvini si fa fotografare alla scrivania del Pirellone, per offrire supporto a Fontana in questa fase. E spinge le iniziative del governatore lombardo, compreso quella della richiesta di riapertura delle aziende con la fase due da iniziare dal 4 maggio.
Non c’è quella esaltazione che ci si aspetterebbe per il riscontro positivo avuto da Zaia in Veneto, al di là di qualche frase o battuta di circostanza.
Per un partito come la Lega che fa della comunicazione del suo leader un pilastro fondamentale del suo consenso, la cosa suona davvero come strana. Che ci sia la frattura Salvini-Giorgetti dietro tutto questo?
Luca Zaia continua a lavorare e a tirare l’acqua al suo mulino. Non cade nelle provocazioni più o meno volontarie lanciate da Salvini su eventuali sue candidature a premier di un esecutivo targato Lega ed evita di bruciarsi.
Ora, sembra concentrato pancia a terra sul suo Veneto. Ma in futuro potrebbe essere davvero questo l’asse che potrà mettere in crisi i rapporti di forza all’interno del Carroccio.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
NON TUTTE LE EMERGENZE FANNO LO STESSO RUMORE
Alcuni hanno perso tutto, altri hanno dovuto stravolgere i propri progetti di vita. C’è una cosa, però,
che nessuna di queste persone ha perso: la dignità , forte, perno dei loro racconti
Oltre la crisi sanitaria, dietro ai numeri della macroeconomia, si nascondono le vite di chi non ce la fa a pagare la spesa, le tasse del mutuo, i debiti con i fornitori.
Il Coronavirus, in Italia, ha piegato le strutture ospedaliere, rendendo un inferno la quotidianità di medici e infermieri. Ha ucciso migliaia di persone, senza che i loro cari potessero abbracciarli per l’ultima volta. E in quella trincea di perdite, in termini economici e di vite, stanno cadendo troppe persone.
C’è un popolo di partite Iva, di lavoratori a chiamata, di italiani e non che, a prescindere dal proprio stato di partenza, hanno perso ogni certezza.
La Caritas, in Lombardia, in seguito all’emergenza ha dovuto aumentare del 50% la quantità di generi alimentari donati ai cittadini: 5,5 quintali distribuiti ogni giorno a 2 mila famiglie.
Per il contraccolpo economico del Coronavirus, 500 nuovi nuclei famigliari sono entrati a far parte del circuito di sostegno Caritas. Sono soltanto la punta dell’iceberg e, al tempo stesso, l’avanguardia di un esercito destinato a crescere man mano che le imprese, i negozi, i laboratori artigiani che non riusciranno a reggere saranno costretti a licenziare.
Si tratta, dicono, di lavoratori a tempo determinato a cui non è stato rinnovato il contratto, di lavoratori a chiamata, precari, di lavoratori in nero, di impiegati nei settori dell’edilizia, della ristorazione, della logistica, dei servizi, come badanti e colf. Tra loro c’è Rosa Nuà±ez, dal 2000 in Italia. «Mi prendo cura degli anziani, lo faccio da sempre». O almeno, lo faceva prima che la signora che accudiva le ha detto di non andare più da lei, «per paura che le portassi il virus in casa».
Il disagio sociale non è solo questione di povertà in senso stretto. È l’assenza di un futuro, il vedere esaurirsi i propri risparmi e il dover riconsiderare tutta la propria vita a minare le certezze delle persone. «Forse è arrivato il momento di lasciare la casa e trasferire la residenza in barca, così risparmiamo su tasse e bollette».
Sari Lindholm, finlandese di origine ma da 32 anni in Italia, vive a Monopoli. Ha lasciato il lavoro di grafica per aiutare il compagno nell’attività di viaggi charter in barca a vela. «Questa stagione non lavoreremo, probabilmente chiederò il reddito di cittadinanza e appena ci sarà consentito, cercheremo di abbattere i costi abbandonando la terraferma e iniziando a vivere in barca».
Anche Riccardo Tropiano lavora nel settore turistico.
Ha aperto due anni fa un Bed and breakfast a Monopoli e, con i guadagni delle quattro camere del suo “A C-caste“, riusciva a pagarsi la retta universitaria. «Ho pagato la prima rata a inizio anno, per la seconda non so come farò». I genitori gli danno una mano ma Riccardo, nonostante la giovane età , ha investito parecchio nella sua struttura ricettiva: «Ho due mutui e debiti da pagare. Se questa stagione fosse andata come le altre, non avrei avuto nessun problema, anzi. Adesso ho chiesto alla banca di prorogare qualche rata e hanno accettato». I 600 euro dell’Inps, invece, li ha già spesi per pagare le bollette del mese di marzo.
Ibrahim Wagdy, come Rosa, non sa come fare per assicurare un pasto caldo ai suoi figli. «Ho 24 anni e vivo qui, a Milano, da cinque anni». Ibrahim, egiziano, ha studiato grafica. Poi, per necessità economiche, ha dovuto imparare un mestiere. Nel 2014 arriva primo in una categoria del campionato mondiale della pizza. «Lavoravo in una pizzeria vicina alla Stazione Centrale. Prima che chiudesse per il Coronavirus. Sono sposato, ho una bambina e un mutuo da pagare». La cassa integrazione, che deve ancora arrivare, «non basta a sopravvivere».
La situazione è critica, non solo nelle grandi città .
A Varese, la cooperativa san Luigi del Consorzio Farsi Prossimo gestisce la Casa della Carità della Brunella. Prima dell’emergenza, distribuivano 60 pasti al giorno. «Con lo scoppio della pandemia — spiega don Marco -, abbiamo visto crescere le richieste di aiuto. Siamo arrivati a fornire 140 pasti giornalieri».
Immacolata Annunziata è una delle persone che sopravvive grazie alla solidarietà : «Facevo le pulizie a tempo pieno in una scuola. Ora lavoro part time, quattro ore al giorno e percepisco circa cinque euro l’ora». Vive da sola con due figli: «Ho ricevuto dei soldi dal parroco e ho potuto pagare una bolletta del gas. Ma non mi posso permettere nemmeno l’abbonamento a Internet per far seguire le lezioni online ai miei figli».
Sempre nel settore delle pulizie, Lucia Muscatiello ha visto crollare la sua fonte di reddito «perchè le persone presso cui lavoravo hanno paura che possa contagiarle».
Lei, suo marito «che faceva lavori a chiamata prima del Coronavirus» e due minori vivono con 240 euro al mese: «Guadagno 60 euro alla settimana. Riesco a malapena a comprare il cibo». Bollette e affitto, ovviamente, Lucia non riesce a pagarli.
Ibrahim e Calogero Amato sono aiutati dagli empori solidali che la Caritas ha aperto a Milano. Dopo tanti anni passati in carcere, Calogero ha voluto ricominciare: barista, lavoratore a chiamata, parcheggiatore allo stadio di San Siro: «Non ho mai guadagnato tanto, ma ho accettato qualsiasi lavoro pur di pagare le bollette e non far mancare nulla alla mia famiglia».
Vivono in quattro, in affitto nel quartiere milanese di Barona, e l’unica fonte di sostentamento rimasta sono i 500 euro del reddito di cittadinanza.
(da Open)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
LO STUDIO DELLA FONDAZIONE CONSULENTI DEL LAVORO
Il Coronavirus ha creato tre milioni di nuovi poveri. Mentre lo stop alle aziende pesa di più su precari, giovani e part-time.
Un report della Fondazione Studi Consulenti del lavoro illustrato oggi da Isidoro Trovato sul Corriere della Sera spiega che si tratta dei dipendenti di aziende private, chiuse da oltre un mese e che hanno percepito l’ultimo stipendio all’inizio di marzo con la prospettiva di incassare il bonifico della cassa integrazione non prima di inizio maggio.
Si tratta di una fascia sociale che già viveva con un reddito non inferiore ai mille euro e non inferiore ai 1250, che permette una vita dignitosa se arriva lo stipendio ma non permette di mantenere una famiglia per due mesi (marzo e aprile).
I primi pagamenti della Cassa Integrazione dovrebbero arrivare a maggio, perchè bisogna fare i conti con 25 procedure diverse (quelle delle Regioni e delle province autonome) visto che nemmeno stavolta si è approfittato dell’emergenza per creare un ammortizzatore unico e valido per tutti.
Spiega al quotidiano Marina Calderone, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro
La situazione sociale in Italia intanto sta assumendo contorni sempre più critici. La platea di indigenti si è ampliata. I sussidi che in questi giorni l’Inps sta pagando agli autonomi non bastano. Difficile pensare che con 600 euro artigiani, commercianti, imprenditori possano far fronte ai costi aziendali fissi delle loro attività .
«Stiamo parlando di un segmento del Paese che vive dignitosamente di ciò che rimane loro dell’incasso giornaliero senza potere però accantonare. Quindi, ben vengano i 600 euro per poter sopravvivere in queste settimane. Ma il problema centrale di sistema rimane un altro»
Si riferisce a cosa ne sarà di loro quando sarà consentito di riaprire con le già previste limitazioni?
«Esatto. Avranno di fronte intanto un mese di giugno carico di scadenze fiscali. E poi ci saranno i debiti accumulati in questi mesi da saldare. Avere creato presupposti per agevolare il credito è certamente meritorio; ora vedremo come reagirà il sistema bancario che dovrà essere più flessibile e disponibile in un momento come questo. Ma per risolvere i problemi degli imprenditori, bisognerebbe dotarli di un contributo a fondo perduto, che può arrivare solo dal contesto comunitario».
In questo contesto non è difficile capire che lo stop alle aziende pesa di più su precari, giovani e lavoratori part-time, come spiega oggi Valentina Conte su Repubblica segnalando come giovani, precari, operai, apprendisti, contrattisti a termine, part-time, stranieri siano le categorie più colpite dalla crisi
La presenza di queste categorie nei settori produttivi costretti allo stop per legge supera quella nei settori essenziali. Mentre il loro salario è di norma inferiore: in media di un terzo fino a meno della metà nelle fasce a bassa retribuzione. Ecco che la pandemia rischia di travolgere proprio i lavoratori più fragili, con carriere frammentate. Di peggiorare le disuguaglianze e accrescere sia i working poor — i lavoratori poveri — che l’instabilità occupazionale. Quanti tra questi conserveranno il posto nella fase due, quando si ripartirà ?Un’analisi della Direzione studi dell’Inps che usa i dati amministrativi relativi ai contratti — fonte Uniemens — dice che sulla carta — deroghe e smartworking esclusi — è fermo il 57% delle imprese, circa 912 mila, perchè non essenziali e il 48% dei lavoratori, poco più di 7 milioni.
In questo bacino si registrano le maggiori criticità . Non solo micro-durate nei contratti, ma buste paga molto leggere rispetto ai “colleghi” dei settori rimasti aperti: 13.716 euro medi annui contro 18.229 euro, un terzo in meno, e 26 settimane lavorate in media all’anno contro 32. Disparità ancora più evidenti nel decimo percentile, ovvero il 10% dei lavoratori con paga più bassa.
Qui la differenza tra chi è in lockdown e un “essenziale” è tra 624 euro e 1.396 euro: meno della metà . In media, per questa fascia, un rapporto di lavoro dura 3 settimane nel settore chiuso contro le 5 dell’altro. In entrambi i casi la frammentazione della carriera è evidente, ma nel primo pesa ancor di più visto che quel lavoratore oggi è fermo.
(da agenzie)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
MA PER LUI LA QUARANTENA NON VALE?
Guido Bertolaso è stato dimesso il 7 aprile scorso dall’Ospedale San Raffaele. il superconsulente di
Regione Lombardia che doveva seguire l’edificazione dell’ospedale della Fiera di Milano ma si è ammalato dopo pochi giorni in Italia aveva quel giorno scritto sul proprio profilo Facebook: “Ringrazio tutti i medici e gli infermieri, orgoglio del nostro Paese. Uomini e donne che combattono in prima linea contro il Covid-19 pagando troppo spesso in prima persona con contaminazione e a volte purtroppo anche con la vita. Grazie per tutti i numerosi messaggi di affetto che mi avete inviato in questi giorni. Ora forza, c’è ancora tanto da fare. L’Italia ha bisogno dell’aiuto di tutti”.
Ieri Bertolaso, che segue anche la Regione Marche, era a Civitanova e la tv Centro Marche l’ha immortalato mentre rispondeva alle domande dei giornalisti in una conferenza stampa affollata.
Con un dettaglio significativo: l’ex capo della Protezione Civile teneva la mascherina abbassata mentre parlava
Bertolaso quindi, subito dopo essere stato dimesso, non sembrerebbe aver rispettato le regole della quarantena e nemmeno ha tanta voglia di usare correttamente la mascherina.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 18th, 2020 Riccardo Fucile
“RIAPRIRE LE AZIENDE? RISCHIOSO, ANCORA UN MESE DI STOP”
Professor Galli, lei ha recentemente parlato di un clamoroso fallimento della medicina territoriale in Lombardia. Che cosa intendeva dire?
Questa è una domanda a cui è un po’ complicato rispondere, nel senso che non ti fai uno stuolo di amici. La Lombardia rispetto ad altre regioni, come ad esempio il Veneto, ha avuto un pessimo punto di partenza: ci siamo trovati ad avere un’epidemia molto vasta, molto estesa, rispetto alla quale certamente era difficile intervenire nel modo classico degli interventi epidemiologici. In altre parole, quando tu hai migliaia di casi tutti assieme diventa complicato andare a seguire casa per casa dove ha avuto origine il problema e di conseguenza tracciare le persone che sono state già colpite. Il primo problema serio è stato questo. Un secondo problema altrettanto serio è derivato dal fatto che la massa di pazienti arrivata in ospedale è stata tale da polarizzare la quasi totalità dell’attenzione da questo punto di vista. Questo però non giustifica il fatto di non essersi più occupati ad esempio delle case di riposo e mi sembra evidente che delle case di riposo non ci si è occupati a sufficienza, viste le conseguenze.
A proposito, lei come valuta la delibera dell’8 marzo della Regione Lombardia, che chiedeva alle Ats di individuare le Rsa disposte a prendere pazienti Covid a bassa intensità ?
Al momento era uno degli elementi di disperazione, non avevamo letti in ospedale e si è cercato di prenderli ovunque, però quello che mi lascia sconcertato è che in quello stesso momento iniziavano ad infettarsi e a morire a battaglioni persone proprio nelle Rsa, anche se nelle case di riposo ho motivo di ritenere, sebbene non abbia nessuna prova provata, che l’infezione non sia stata portata in questo modo, ma banalmente dal personale sanitario non diagnosticato e che nel tempo ha portato nelle case di riposo l’infezione.
Come se la spiega questa differenza di gestione del Covid tra la Lombardia e il Veneto, anche rispetto al filtro sanitario della medicina territoriale, che in Veneto ha alleggerito l’impatto sulle strutture ospedaliere?
L’epidemia del Veneto non è paragonabile all’entità dell’epidemia in Lombardia. Se prendiamo l’app del Sole 24 Ore su 165mila positivi in Italia, ne abbiamo 62mila dichiarati in Lombardia, contro i 14mila nel Veneto. Peccato che quelli della Lombardia siano verosimilmente quasi dieci volte tanto, mentre quelli del Veneto probabilmente non sono molto di più di quelli che sono stati effettivamente dichiarati. La Lombardia ancora adesso ha 1.074 persone in terapia intensiva e 12mila persone ricoverate con sintomi, il Veneto 219 gravi e 1.402 ricoverate. In un rapporto di 1 a 10.
Quanto ha pesato per la Lombardia non aver chiuso un focolaio come quello di Alzano Lombardo?
È difficile dirlo a posteriori, però è certo che occorreva intervenire in modo deciso. Lo stanno dicendo tutti.
Su Codogno e Vo Euganeo si è intervenuti subito, mentre in un caso fotocopia a pochi chilometri di distanza si è lasciato propagare un focolaio, con una serie di negligenze, su cui anche la magistratura ora vuole vederci chiaro. L’ospedale di Alzano è sotto la competenza della Regione.
Questo lo sta giustamente dicendo lei, all’ospedale di Alzano infatti credo che voleranno gli stracci, ci saranno magari avvisi di garanzia anche per dei medici, ma che a pagare il prezzo di tutto questo alla fine siano dei colleghi mi sembra una cosa fuori dal mondo.
Noi abbiamo pubblicato una lettera che il direttore medico dell’ospedale di Alzano ha inviato alla direzione generale di Seriate, alla Asst Bergamo est (che dipende dall’assessorato regionale al welfare), in cui si contestavano le indicazioni assurde ricevute dall’alto e si chiedeva di poter chiudere subito il pronto soccorso con dei casi sospetti Covid.
Che ci siano delle responsabilità politiche nella gestione di quella vicenda è indubbio. Così come è indubbio che la riapertura che c’è stata prima del dovuto nella zona rossa di Codogno sia stata una follia, io mi sono espresso contro questa cosa più di una volta, dicendo: che senso ha? Abbiamo avuto la possibilità di modificare in maniera completa il problema, facciamolo fino in fondo! In realtà riaprire Codogno per poi chiudere tutta la Lombardia è stato un comportamento di confusione totale, la cui responsabilità è stata palleggiata tra Governo e Regione.
Perchè ovviamente sono due cose diverse la zona rossa di Codogno e la zona arancione della Lombardia.
Ma certo! Oltretutto era una cosa che poteva facilitare — dopo i sacrifici fatti a Codogno — anche dei fenomeni di ritorno. Se non trovo ulteriori intoppi andrò a fare questo lavoro a Castiglione d’Adda giusto per vedere se ci sono stati degli effetti in negativo della riapertura, voglio verificare se ci sia stato il ritorno di eventuali infezioni da fuori Codogno nella zona di Codogno, sono convinto che vale la pena di valutare le dinamiche dell’epidemia. Quello che è sicuro è che quando tu hai fatto uno sforzo di un certo tipo e sei comunque in una situazione in cui devi continuare su quella linea non ha alcun senso andare a fare una riapertura prima del tempo. E concordo con lei che lo stesso si sarebbe dovuto fare con la chiusura di Alzano, una zona rossa senza riaperture. Adesso che senso abbia stare qui a discuterne bisogna vedere…
Anche solo per non ripetere gli stessi errori credo che valga la pena discuterne…
Certo, in questo senso sì.
A proposito di riaperture, siamo pronti alla Fase 2?
Io sto insistendo da diversi giorni perchè queste tre settimane o quattro — che io penso debbano ancora essere di chiusura — siano utilizzate per una serie di sperimentazioni. Sono fortemente preoccupato che interessi e veti incrociati stiano impedendo la possibilità di sperimentare di fatto l’unica via possibile, che è quella fondata sui cosiddetti test rapidi. I test rapidi hanno una serie di magagne, in mano mia ne ho provati due, che hanno tra il 92 e il 94 percento di sensibilità nelle persone col tampone positivo. Il discorso cambia se si considerano persone che hanno il tampone positivo da meno giorni, perchè in questo caso i test risultano essere meno sensibili, nel senso che gli anticorpi non ci sono ancora. I tamponi come noto non li puoi fare a tutti. E non tutti funzionano benissimo. Dopo di che faccio attenzione a esprimermi, perchè su questo tema se dici una parola fuori posto vieni massacrato. Quello che voglio dire è che io potrei essermi infettato due giorni fa ed essere negativo, potrei fare il tampone tra tre giorni ed essere positivo, dipende dalla dinamica dell’infezione. La mia paura è che vada a finire così come è iniziata, che non riuscendo a fare diversamente si è chiuso tutto, ora non vorrei che si arrivasse a una situazione in cui si riapre tutto solo con mascherina, guanti e distanziamento. Noi abbiamo tre cose da dover fare: sapere di più sulla dinamica dell’infezione e avere un test epidemiologico nazionale, oltre che lo studio più fine, come vorrei fare io in qualità di ricercatore, sulle dinamiche — se me lo lasceranno fare — a Castiglione d’Adda, a Nembro e in altre aree della Lombardia. Poi bisogna dare uno schema alle aziende su quello che devono fare, dando un pre-filtro basato su questi test rapidi, perchè sono fattibili. Infine bisogna poter agire su quelli che sono chiusi in casa con la malattia. Perchè anche questi dovranno riprendere a lavorare e bisognerà fare accertamenti sul loro nucleo famigliare, capire se sono stati a contatto magari con degli asintomatici, perchè non saperlo è un problema per la ripresa.
Il fatto che quasi 110mila aziende nel nord abbiano riaperto lei come la vede?
Siamo già in Fase 2. La vedo come una presa di posizione che comporta dei rischi e causa delle preoccupazioni.
Quanto è probabile un ritorno dell’epidemia in questa fase?
Io le posso dire che probabilmente tutta questa epidemia è stata causata da una sola immissione verso la fine di gennaio. In generale in Italia la parte di analisi e di gestione territoriale non è stata brillantissima. Serve molta cautela
Dobbiamo imparare a convivere con questo virus, magari puntando sull’immunità di gregge?
Quella dell’immunità di gregge rimane una grossa sciocchezza fino a che non capiremo come si comporterà questo virus, che potrebbe impiegare qualche generazione per diventare simile a un banale raffreddore. Aspettare l’immunità di gregge per qualche generazione per un virus che ha l’impatto che abbiamo visto, in una società globalizzata e in una situazione di sovrappopolazione, non mi sembra l’ideale. Non possiamo confidare nell’immunità di gregge per liberarci del virus, l’impatto sarebbe devastante, dobbiamo confidare nel vaccino, nelle cure, ma soprattutto nella capacità di contenimento, altrimenti non abbiamo alternativa.
Lei ha fiducia che saremo in grado di affrontare questa Fase 2 e il cambio radicale di paradigma in tutti gli ambiti della nostra vita?
Ottimismo della volontà e pessimismo della ragione: sappiamo bene che comunque dovremo affrontare delle risorgenze del virus, sperando di essere sufficientemente organizzati per contenerle.
(da TPI)
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