Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO IL COMMISSARIAMENTO DI ROMA. RAMPELLI CHIEDE IL RITIRO DEL PROVVEDIMENTO… QUANDO IL POTERE DA’ ALLA TESTA
“Il provvedimento va ritirato”. Parola di Fabio Rampelli. E il monolite FdI che
finora appariva granitico in nome dell’insperato successo conquistato da Giorgia alle elezioni di settembre s’incrina per la prima volta.
Il vicepresidente della Camera non le manda a dire: non ha digerito la decisione della premier di commissariare il partito a Roma togliendo la guida a Massimo Milani – a lui molto vicino – e affidandola al responsabile organizzativo nazionale, Giovanni Donzelli. “Una scelta frutto di un equivoco generato da false notizie: sono convinto che un partito serio e strutturato come il nostro accerterà i fatti e lo reintegrerà”.
Il commissariamento del partito romano come ultimo atto della resa dei conti all’interno di Fratelli d’Italia, lacerato da tempo dagli attriti con l’unica corrente interna: quella dei Gabbiani guidati da Fabio Rampelli. L’appuntamento elettorale al Teatro Brancaccio, presentato agli iscritti come un evento di partito ma in realtà dedicato alla campagna elettorale di due candidati al consiglio regionale legati al vicepresidente della Camera, è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Giorgia Meloni ha messo alla porta il coordinatore romano, Massimo Milani, vicino a Rampelli, al suo posto il fedelissimo Giovanni Donzelli nominato commissario con il preciso compito di “gestire con terzietà la corsa alle preferenze”.
Il “commissariamento” di Rampelli
Per molti il “commissariamento” di Rampelli, passato da padrino politico a spina nel fianco della leader di FdI. Ma lui replica: “Tengo intanto a precisare che non ricopro ruoli commissariabili. Sono impegnato al fianco di Francesco Rocca per vincere le elezioni regionali con tutta la coalizione, ho scritto insieme agli altri il programma, fatto riunioni organizzative, stabilito i principali appuntamenti e incontri con categorie e associazioni e stiamo per aprire la nuova sede del comitato elettorale. Tra l’altro – prosegue Rampelli – i coordinatori di tutti i partiti hanno deciso che, solo su Roma città, vista l’enorme capacità di mobilitazione dei candidati di tutte le forze politiche, fosse più conveniente affidare la promozione di Francesco Rocca alle loro manifestazioni apicali, che stanno totalizzando una partecipazione di pubblico enorme, concentrando lì parlamentari, ministri e autorità. Esattamente quanto avvenuto nei giorni scorsi negli incontri promossi con la presenza del candidato presidente, l’ultimo dei quali – dice a discolpa di Milani, firmatario insieme a lui degli inviti per per gli iscritti – organizzato proprio al Teatro Brancaccio, senza il minimo supporto degli organi istituzionali di FdI”.
“Meloni reintegri il coordinatore Milani”
Milani intanto ha chiesto la revoca immediata del provvedimento “per l’evidente equivoco generato dalle false notizie diffuse, esibendo ogni atto utile alla loro smentita” – fa sapere Rampelli. “Sono convinto che un partito serio e strutturato come il nostro – fa pressione il vicepresidente della Camera – accerterà i fatti e lo reintegrerà quanto prima, vista peraltro una certa disinvoltura con cui altre federazioni in Italia gestiscono il rapporto tra candidati e partito”.
(da agenzie)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
I TANK POSSONO DARE UNA SVOLTA ALLA GUERRA
Germania e Stati Uniti si preparano a inviare i carri armati Leopard 2 e Abrams a Kiev, con un salto di qualità nella fornitura di armi al paese che fronteggia l’invasione russa. I mezzi tedeschi e statunitensi sono tecnologicamente superiori ai carri di ‘matrice’ sovietica che hanno caratterizzato i primi 11 mesi di guerra.
L’Ucraina ha a disposizione soprattutto T-72 e T-80, a cui vanno aggiunti i più recenti T-90 sottratti alle forze russe durante le ostilità. Nessuno di questi veicoli, però, regge il confronto con i Leopard – considerati i migliori tank in assoluto – e gli Abrams.
Le nuove dotazioni potrebbero consentire all’Ucraina di elaborare piani per il Donbass e la Crimea, con la prospettiva anche di riaprire il fronte verso Mariupol.
I Leopard 2 tedeschi e gli M1 Abrams americani sono entrambi ‘main battle tank’ (Mbt), ovvero principali tank da battaglia.
Abbastanza simili, hanno tuttavia alcune differenze, oltre al fatto che i Leopard si trovano già in Europa e quindi più vicini al teatro della guerra, dove sarà anche più facile inviare pezzi di ricambio.
Sviluppati congiuntamente durante la guerra fredda, i due tipi di carro armato sono simili nella protezione corazzata del mezzo, la manovrabilità e la potenza di tiro, oltre a essere “eccezionalmente ben bilanciati”, nota Ralf Raths, direttore del museo del tank a Muenster.
Una delle principali differenze, importante dal punto di vista logistico, sta nel consumo.
I Leopard 2 consumano 530 litri di diesel ogni 100 km e hanno un motore diesel da 1500 hp.
L’M1 Abrams è dotato di un motore a turbina multifuel da 1500 hp e consuma 700 litri di carburante per 100 km.
Protagonista delle guerra nel deserto in Iraq, il tank americano è più pesante (74 tonnellate) rispetto al tedesco (64), ed entrambi sono muniti di un cannone da 120 millimetri. L’Abrams ha una velocità di 68 Km/h, leggermente superiore al Leopard (63 km/h).
Un fattore da considerare è anche il numero dei tank. La Germania possiede poco più di 300 Leopard 2: 225 della serie A5/A6 e 59 della serie A7/A7V, Altri 55 Leopard 2 A4 sono nei depositi.
La Bundeswehr è in attesa di ricevere 104 Leopard 2 A7V nei prossimi tre anni. I vecchi tank dovrebbero essere messi fuori servizio o dati ad altri paesi, fra cui il modello A4 o il Leopard 1.
Secondo dati citati da Europa Today, la tedesca Krauss-Maffei Wegmann ha costruito oltre 3500 Leopard dall’inizio della produzione del 1978. Il tank, capace di colpire bersagli a 5 km di distanza, è in dotazione di diversi paesi Nato che potrebbero fornirli a Kiev una volta ottenuto l’Ok di Berlino.
Secondo Military Balance, il report dell’International Institute for Strategic Studies, gli Stati Uniti possiedono oltre 6mila tank Abrams, fra cui 650 del tipo M1A1 e duemila M1A2 in varie versioni, oltre ad uno stock di 3.450 tank di entrambi i modelli.
(da Globalist)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
MILANO FINANZA: ‘LA VERITÀ’ È INCAPPATA NEL PRIMO STOP NELLA QUOTA DI VENDITE IN EDICOLA”
Il direttore-editore di La Verità, Maurizio Belpietro, avrebbe palesato l’intenzione
di vendere una quota di minoranza della società editoriale da lui fondata nel 2016 a un soggetto industriale.
Un’indiscrezione che si sposa con i rumors che girano da giorni relative a un interesse dell’editore di Libero e Il Tempo, Antonio Angelucci, per rilevare il giornale fondato da Belpietro. Una mossa che rafforzerebbe ancora di più Angelucci nell’area della stampa di centro-destra.
Alcune fonti sottolineano come le ambizioni di Angelucci si stiano momentaneamente fermando contro il muro innalzato dall’editore-direttore Belpietro. Per qualcuno si sarebbe già palesato un approccio che sarebbe però stato gentilmente respinto dal fondatore di La Verità. L’offerta di Angelucci prevederebbe oltre all’acquisto della testata anche un contratto decennale alla direzione per Belpietro. Pare che Belpietro abbia deciso di cercare un socio di minoranza
Resta comunque da capire chi potrà essere il partner industriale di minoranza, quindi quali editori potrebbero essere interessati a entrare con una quota in un gruppo senza detenerne il controllo, almeno in una prima fase.
Soprattutto perché la macchina messa in piedi da Belpietro, dopo anni di forte crescita, è incappata nel primo stop nella quota di vendite in edicola dopo mesi e sta facendo i conti con la chiusura di alcuni periodici che Belpietro aveva rilevato da Mondadori.
(da MF – Milano Finanza)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
LE CANDIDATURE DI DESTRA VACILLANO PER DIVISIONI INTERNE… IN POLE ROMBOLI SOSTENUTO ANCHE DA UNICOST, CORRENTE MODERATA. I VOTI CERTI SAREBBERO 15, CON LO STESSO GIUDICE MIRENDA, NON OSTILE
L’atmosfera della prima giornata del nuovo Csm è stata cordiale, ma non pacifica. Ma a tarda sera il toto-vicepresidente ha segnato una svolta, nel senso favorevole all’elezione del costituzionalista Roberto Romboli (indicato da Pd) che pare in vantaggio sugli avvocati Fabio Pinelli (area Lega) e Daniela Bianchini (Fratelli d’Italia). Vantaggio numericamente esile, ma politicamente consistente. I giochi non sono chiusi, ma in questo caso si tratterebbe di una sconfitta del tentativo della destra di imporre un vicepresidente omogeneo al governo.
Dopo la sobria cerimonia quirinalizia (niente brindisi, lascito dell’era covid) i nuovi consiglieri si sono spostati in piazza Indipendenza. Il consueto rito della spartizione degli uffici (il più ambito è quello simil presidenziale con divanetto in vera finta pelle e vista panoramica, che fu di Davigo) ha dovuto fare i conti con qualche complicazione. L’aumento dei consiglieri da 24 a 30, a parità di spazi, ha costretto la burocrazia del Csm a ricavare nuovi mini-uffici di risulta.
Prevedendo tutto ciò, alcuni consiglieri neoeletti si erano portati avanti, con felpate visite nei giorni scorsi in cui avevano «prenotato» le stanze più grandi.
Smaltiti i malumori, il grosso dei consiglieri togati (i laici erano ancora per lo più spaesati tra scaloni e corridoi) si è riversato nella sala dove si riuniva la commissione titoli. La riunione per la verifica dei requisiti in capo agli eletti, solitamente di routine, si è trasformata in campo di battaglia. Nel mirino è finito lo stesso presidente della commissione, il costituzionalista Romboli, il più anziano nonché più votato dal Parlamento.
Un fronte togato trasversale – dalla corrente conservatrice maggioritaria, Magistratura Indipendente, fino al giudice anti-correnti Andrea Mirenda – ha obiettato che Romboli, andando in pensione nel 2021, non fosse più professore ordinario, quindi ineleggibile.
La svolta pro Romboli è data dalla scelta di Unicost, corrente moderata, di sostenerlo. Portando i voti certi a 14. Sarebbero 15, con lo stesso giudice Mirenda, non ostile. Viceversa le candidature di destra vacillano, per debolezze intrinseche e divisioni interne. L’avvocato Pinelli (leghista ma non troppo) è la vera alternativa a Romboli. Ma alla fine anche Magistratura Indipendente, nell’impossibilità di sovvertirlo, potrebbe intestarsi il risultato.
(da agenzie)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
ECCO QUALI SONO
Nel mondo post-pandemia delle dimissioni di massa e dell’ormai endemica
carenza di personale, si sta facendo strada la settimana lavorativa di quattro giorni. Nel 2023 in almeno 18 Paesi decine di imprese la stanno attuando o sperimentano progetti pilota. La scommessa prevede che lavorando un giorno in meno, ma a stipendio pieno, diminuisca l’assenteismo e aumenti la produttività. Ne beneficerebbero l’ambiente grazie alla riduzione di CO2, la qualità di vita dei lavoratori e le aziende, che diventerebbero più attrattive per personale qualificato e motivato.
2018: in Nuova Zelanda parte la settimana corta
Tra i primi sostenitori della settimana corta si può annoverare l’economista inglese John Maynard Keynes che nel saggio del 1930 «Possibilità economiche per i nostri nipoti» vedeva l’opportunità «di lavorare solo 15 ore a settimana entro un paio di generazioni». Da allora la politica ha rispolverato periodicamente l’idea di lavorare meno a parità di retribuzione. Nel 1956, l’allora vicepresidente degli Usa Richard Nixon dichiarò che la svolta sarebbe arrivata «in un futuro non troppo lontano». Oggi a rilanciarla concretamente è «4 Day Week Global»: la Ong senza scopo di lucro ha esteso a livello internazionale l’esperimento di «Perpetual Guardian», una società fiduciaria neozelandese con 240 dipendenti che dal 2018 ha adottato con successo la settimana lavorativa di 4 giorni. L’iniziativa prevede che in ogni Paese aderente un gruppo di aziende partecipi a un progetto pilota di 6 mesi basato sul modello «100:80:100»: 100% dello stipendio ai dipendenti che però lavorano l’80% delle ore previste (di solito 32) e si impegnano a raggiungere gli stessi risultati che si conseguirebbero lavorando 5 giorni a settimana.
I test nelle aziende Usa e Gran Bretagna
A inizio 2022 è stato condotto il primo importante test scientifico monitorato dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Oxford, del Boston College e coordinato da «4 Day Week Global». Trentatré piccole e medie imprese sparse tra Usa, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Irlanda, Regno Unito, che impiegavano complessivamente 903 dipendenti, hanno deciso di seguire il modello «100:80:100». Alla fine del periodo di prova, su 27 società interpellate, nessuna ha dichiarato di voler tornare alla settimana di 5 giorni. Gli indicatori hanno dimostrato che l’esperienza era stata positiva. In media durante il test i ricavi delle aziende sono aumentati dell’8%, l’assenteismo si è ridotto (da 0,6 a 0,4 giorni al mese) e le dimissioni sono leggermente diminuite. Da giugno a dicembre 2022 un nuovo progetto pilota seguito dagli stessi ricercatori è stato lanciato nel Regno Unito: coinvolte 72 aziende con oltre 3.300 dipendenti. Si tratta di banche, società di marketing, assistenza sanitaria, servizi finanziari e vendita al dettaglio. A metà del periodo di prova l’89% delle imprese ha espresso la volontà di continuare l’esperienza nell’anno successivo. La produttività è migliorata «leggermente» per il 34% delle aziende, «in modo significativo» per il 15%, mentre il 46% ha risposto che è rimasta praticamente la stessa, nonostante tutti lavorassero un giorno alla settimana in meno
Europa: in corso i progetti pilota
Negli ultimi anni la settimana corta si sta testando soprattutto in Nord Europa. Ha iniziato l’Islanda, che tra 2015 e 2019 l’ha sperimentata nel settore pubblico: le ore lavorative sono passate da 40 a 35 da smaltire in 4 giorni senza alcun taglio di retribuzione. Il test, al quale hanno partecipato circa 2.500 dipendenti, è stato così positivo da essere esteso al settore privato. Oggi nel Paese l’86% della popolazione lavora con l’orario ridotto. Progetti pilota si stanno conducendo in Germania su 150 aziende e in Irlanda su 20. In Lituania dal 2023 chi ha figli sotto i 3 anni e lavora nel settore pubblico può scegliere la settimana corta, e in Scozia a inizio 2022 il governo ha lanciato un fondo di 10 milioni di sterline per finanziare le società che vogliono partecipare all’iniziativa. Nel dicembre 2022 è stata la volta della Spagna che ha finanziato un fondo governativo di 10 milioni di euro destinato a circa 70 piccole e medie imprese. Ognuna di queste aziende, che applicano una riduzione di almeno il 10% dell’orario di lavoro e si impegnano a mantenerlo per almeno 2 anni, riceve dal Ministero dell’Industria fino a 150 mila euro. Infine c’è il Belgio: dal 21 novembre scorso, e per un periodo di 6 mesi, le aziende possono concedere ai lavoratori la settimana corta senza tagli di stipendio, mantenendo però lo stesso numero di ore lavorative, ovvero 36. In Italia per ora solo Banca Intesa ha lanciato in fase sperimentale la settimana corta su circa 200 filiali, accoppiata a 4 mesi di smart working. E come per i dipendenti belgi, lavorando un giorno in meno le ore da passare in ufficio salgono a 9.
Produttività e lavoro
I promotori della settimana corta sostengono che la produttività individuale aumenta con il diminuire dell’orario di lavoro settimanale. Questa scommessa, almeno in Europa, è confermata dalle ultime statistiche dell’Ocse. I Paesi dell’Europa occidentale dove si lavora più ore all’anno (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) hanno tra i tassi di produttività più bassi. Dall’altra parte i Paesi che lavorano meno ore all’anno (Germania, Danimarca, Austria e Svizzera) presentano tassi di produttività più alti. Inoltre, chi fa la settimana corta – spiegano i ricercatori del Boston College – tende a utilizzare il terzo giorno libero per appuntamenti dal medico o altre commissioni personali che altrimenti dovrebbe stipare in una giornata lavorativa.
Un privilegio non per tutti
Secondo gli esperti il datore di lavoro del XXI secolo non può più trascurare il benessere psicofisico dei propri dipendenti.
Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento epocale, ma immaginare una società dove tutti lavorano solo quattro giorni resta un’utopia perché esistono impieghi, come nel trasporto pubblico, nei servizi sanitari o d’emergenza, che richiedono una presenza fissa sette giorni su sette. In questi settori, dove ai dipendenti sono richiesti sempre turni più lunghi, applicare l’orario di lavoro ridotto richiede un aumento del personale e di conseguenza l’insostenibilità dei costi.
Lo dimostra l’esperimento fatto tra il 2015 e il 2017 a Göteborg in Svezia: per due anni le infermiere della casa di cura per anziani Svartedalen hanno lavorato 6 ore giornaliere anziché 8, ma in breve tempo il sistema si è rivelato ingestibile economicamente. Inoltre – per i critici – creare una differenza troppo marcata tra i lavori d’ufficio e gli altri impieghi rischia di aumentare le diseguaglianze sociali.
(da La Repubblica)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO ANNI DI SILENZIO, E’ RIAPPARSO NEI PANNI DEL “CONFIDENTE”
Le parole che ha sparato in televisione il gelataio di Omegna, Salvatore Baiardo, sono gocce di incongruenza in un mare di mistificazione. In questo è un maestro: Baiardo dimostra la sua abilità di giocatore d’azzardo, esibendo una poker face. Ai tavoli verdi, ai quali è abituato a prendere posto, questo personaggio che dopo le stragi di Falcone e Borsellino è finito in carcere per aver favorito il boss Giuseppe Graviano, ed ha sulle spalle pure una condanna per calunnia e falso, adesso che le telecamere lo inquadrano, ostenta una “faccia da poker” che ha la sua importanza, perché impedisce agli avversari di decifrare le carte che dice di avere in mano. Ma ancora di più, gli consente di bluffare e di ingannare anche quando chi sta dall’altra parte possiede una mano forte. Davanti alle telecamere il suo volto è inespressivo, freddo e imperturbabile. Lo stesso dietro a cui si celano le emozioni, i pensieri e le paure di un giocatore di carte professionista. Occorre però capire chi gli mette in mano i soldi e gli consente di giocare. E chi lo garantisce.
La stagione del terrore
Giuseppe Graviano, chiamato “Madre Natura”, è il gemello diverso di Matteo Messina Denaro. Entrambi allevati da Riina, che a loro ha affidato segreti e documenti. Alla fine del 1991, durante una riunione a cui partecipano tutti i capimafia, compreso Matteo Messina Denaro, viene decisa da Riina la nuova strategia: è guerra allo Stato. Il capo fa presente che la pressione dello Stato contro Cosa nostra si è fatta più incisiva e vi sono segnali che le tradizionali alleanze non funzionano più. E riassume con questa formula il programma: “Fare la guerra per poi fare la pace”. Cioè sparare sempre più in alto per poi aprire una trattativa da una posizione di forza. U Siccu è al suo fianco e appoggia la strategia. È l’inizio della stagione del terrore.
Baiardo aiuta Graviano a giocare la sua partita. Il gelataio è il suo uomo di fiducia, il tuttofare, un po’ amico e un po’ dipendente. Ma soprattutto un favoreggiatore. Ed è anche cugino del mafioso Cesare Lupo, altro prestanome dei boss palermitani. Dal 1992 e fino al giorno dell’arresto dei Graviano nel 1995, il telefono del gelataio è in contatto con i loro più importanti uomini. Di fatto è stato sempre dalla parte dei fedelissimi che hanno affiancato Riina nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, ordinato l’uccisione di padre Pino Puglisi e piazzato le bombe a Roma, Firenze e Milano.
Dal silenzio alla veste di informatore
Per coprire i boss, Baiardo ha reso ai magistrati dichiarazioni false e reticenti. Dopo essere stato per anni in silenzio, come lo sono stati anche i Graviano, è rispuntato sotto forma di “informatore”, o “confidente”, rispondendo alle domande dei giornalisti. Ha iniziato a fare dichiarazioni (depistanti? false?) che hanno creato scalpore. Ha parlato dei miliardi che il clan avrebbe immesso nelle casse della politica; ha detto di rapporti con Berlusconi, di antiche relazioni che risalivano già a Michele Graviano, il padre dei boss; ha nominato persino l’agenda rossa, quella che Borsellino portava sempre con sé e che dal momento della sua morte è scomparsa. Ha detto che Messina Denaro era ammalato e veniva arrestato per fare un regalino (a chi?)
La strategia
E più vai sotto con il microfono e la telecamera e più lui lancia la palla in tribuna, il che lascia comprendere come questo favoreggiatore giochi ancora una partita a favore di Graviano. Adesso i pm di alcune procure vogliono accertare se queste dichiarazioni abbiano o meno un riscontro, ma soprattutto, se quello che ha detto in tv verrà trasferito nei verbali. Per accertare se sia un inquinatore di pozzi, uno che svia le informazioni e lo fa a favore dei boss. Il trucco è vecchio ma non cambia: infilare una piccola verità in mezzo a un mucchio di falsità, così da attirare l’attenzione mediatica mentre si modifica l’intero quadro della realtà. Se sta ricattando qualcuno. Perché lui e Graviano giocano la stessa partita e su questo si apriranno inchieste, anche su chi li ha favoriti o li ha manovrati
In passato, Baiardo ha fatto intendere agli investigatori di voler collaborare e raccontare i segreti della latitanza dei Graviano, ma poi si è sempre tirato indietro. Ha giocato così il gelataio con la passione del poker, con il dico e non dico. E nel frattempo ha tenuto bordone, e non solo quello della borsa dei tesori, ai Graviano che vogliono uscire dal carcere. A dicembre il tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto a Filippo Graviano la richiesta di revoca del 41bis.
Nelle intercettazioni fatte in carcere, Giuseppe Graviano parla del fido Baiardo e lo “addolcisce”, cambia versione e per lui torna a essere un gelataio, un giocatore incallito che aveva investito negli anni Novanta i frutti di una grande vincita nella famosa gelateria di Omegna. Però il vizio del gioco, secondo il boss, non lo abbandonava, cosa che metteva a repentaglio non solo le sue finanze ma anche la vita familiare, dato che il rapporto con la moglie era finito in crisi. E allora Graviano, accorto e premuroso amico, ha deciso di tenerlo d’occhio. Anche per questo dice che si è trasferito a Omegna: per evitare che un amico continuasse a sperperare miliardi di lire. Su tutto il resto, nemmeno una parola. Il rapporto fra i due è stretto, anche perché i miliardi sono di Graviano.
Il ‘portavoce della mafia’
Madre Natura sa dispensare i suoi silenzi. E adesso è lui che lo manda davanti alle telecamere per lanciare segnali ai naviganti? Per il senatore Roberto Scarpinato, “Baiardo è il portavoce della mafia. Perché non si può andare in televisione a dire quelle cose senza essere uccisi. È la mafia che parla in diretta, abbiamo una mafia che parla in televisione”. Facendo le dovute proporzioni, la figura del gelataio ricorda quella di Massimo Ciancimino. Fra dieci cose che raccontava ai magistrati ve ne erano almeno sei che non erano vere. Ed è finito in carcere per calunnia. Lui però non era mandato o incaricato dai mafiosi. Si sentiva una sorta di angelo vendicatore che si abbatte sui mafiosi e sui loro complici. Infatti, Riina non aveva dubbi, e lo odiava: “Se io sono il capo della mafia, lui queste rivelazioni le sta facendo per i soldi”. Piccioli, bugie e vere trame: questa era la chiave del mistero Ciancimino. Ma qui i Graviano sembrano invece benedire l’azione di Baiardo che porta a piccioli, bugie e trame mafiose.
(da la Repubblica)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
L’EX POLIZIOTTO: “MIO RAPPORTO IGNORATO, SCAPPAVA IN TUNISIA CON IL MOTOSCAFO”
L’ex dirigente di polizia Antonio del Greco sostiene che 11 anni fa ottenne
«informazioni verosimili» che furono ignorate dai suoi superiori
L’opportunità di avvicinarsi, se non addirittura catturare Matteo Messina Denaro, ci sarebbero state già nel 2012.
Dopo le rivelazioni di Report sulla presenza del boss mafioso a Campobello di Mazara già In quello stesso anno, a Striscia la notizia è l’ex dirigente di polizia Antonio del Greco a raccontare che il latitante poteva essere catturato una decina di anni fa.
Intervistato da Jimmy Ghione, l’ex poliziotto ha spiegato che il rapporto da lui stilato 11 anni fa era stato ignorato: «Nel 2012 sono entrato in contatto con una fonte che sosteneva di avere informazioni su Messina Denaro. A mio modo di vedere quelle informazioni erano molto verosimili – dice del Greco – Tra le altre cose, la fonte rivelò che alcuni agenti di polizia impiegati nella ricerca del boss di Cosa Nostra soggiornavano, a loro insaputa, in alberghi la cui proprietà era riconducibile al boss di Castelvetrano. Che in quelle occasioni, annusando il pericolo, prendeva un motoscafo e fuggiva in Tunisia, in attesa di tornare in Sicilia».
Il rapporto di del Greco era stato consegnato alla direzione centrale con dettagli di luoghi e nomi, affinché fosse trasmesso agli inquirenti. Ma dopo l’invio, non successe nulla: «Per tanto tempo ho atteso un riscontro, una telefonata. La fonte stessa mi sollecitava dicendosi disponibile a fornire qualsiasi indicazione utile a condurre gli inquirenti nei luoghi segnalati nel rapporto. Ma non si seppe più nulla, fino ai giorni nostri».
(da agenzie)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
IL M5S SALE AL 18%, IL PD FERMO AL 16%
I sondaggi di Ipsos illustrati da Nando Pagnoncelli oggi sul Corriere della Sera dicono che Fratelli d’Italia è in calo. Mentre il gradimento per il governo Meloni e per la premier torna ai livelli dell’inizio del mandato. Il Movimento 5 Stelle invece continua a crescere.
E stacca il Partito Democratico.
Nel dettaglio Fdi, che rimane comunque il primo partito, scende al 30,5% calando dell’1,2%. La Lega guadagna mezzo punto attestandosi all’8,3%. Così come Forza Italia, che porta a casa il 6,8% (+0,6%).
Anche il M5s cresce della stessa percentuale e si attesta al 18,2%. Mentre il Pd guadagna uno 0,1% e arriva al 16,4%. Il Terzo Polo di Calenda e Renzi è al 7,1%. L’alleanza Verdi-Sinistra Italiana è al 4,1%. Gli astenuti arrivano al 41,2%: sono due italiani su cinque.
Il centrodestra mantiene comunque un vantaggio incolmabile sul centrosinistra: 46,6% contro il 26,1%. Ancora più elevato rispetto a quello delle urne del 25 settembre.
Il gradimento di Giorgia Meloni è a quota 51, come all’inizio dell’esperienza del suo esecutivo. Il governo è a 53, in calo di cinque punti percentuali. Il leader di partito più popolare è Giuseppe Conte
(da agenzie)
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Gennaio 25th, 2023 Riccardo Fucile
I CRIMINALI CHE L’ITALIA FINANZIA COSI’ SI FANNO PAGARE DUE VOLTE IL VIAGGIO
L’ong Medici senza frontiere ha denunciato l’ennesimo respingimento di
migranti verso la Libia. L’episodio è stato segnalato dalla nave Geo Barents, partita in missione venerdì dal porto siciliano di Augusta per pattugliare il Mediterraneo centrale. La nave umanitaria, che stava cercando di salvare i naufraghi, ha ricevuto minacce esplicite da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, che viene finanziata anche dall’Italia.
“Il nostro team ha assistito oggi all’intercettazione da parte della Guardia Costiera Libica di un’imbarcazione in difficoltà in acque internazionali. Mentre ci avvicinavamo per aiutare le persone e portarle in salvo, hanno minacciato di sparare”, ha denunciato Msf su Twitter. L’Ong ha postato un breve filmato in cui si sente lo scambio di comunicazioni via radio tra la Geo Barents e la motovedetta libica.
Nella registrazione della conversazione telefonica tra il team della Geo Barents e la Guardia costiera libica si sente l’interprete riferire in arabo il fatto che uno dei migranti si è appena “lanciato in acqua”. Dall’altra parte, gli agenti avrebbero risposto intimando più volte alla nave di “restare alla larga” dall’imbarcazione in difficoltà, affermando che in caso contrario avrebbero iniziato a sparare.
“State lontani o apriamo il fuoco”, dice la Guardia costiera libica rivolgendosi via radio all’equipaggio a bordo della nave di Medici senza frontiere che si stava avvicinando alla barca in distress in acque internazionali.
I libici hanno quindi intimato allo staff di Msf di stare lontano dall’area del naufragio, aggiungendo al monito anche insulti. Le persone che erano a bordo del barcone sono state riportate indietro.
(da Fanpage)
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