Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
LA AIR DEFENDER 23 VEDRA’ LA PARTECIPAZIONE DI 10.000 MILITARI E 250 AEREI PROVENIENTI DA 25 PAESI… SI TRATTA DELLA RISPOSTA A ATTACCO SIMULATO A UN PAESE NATO
Lunedì 12 giugno, domani, prende il via la più grande
esercitazione della Nato, la ‘Air Defender 23’, che vedrà la partecipazione di 250 aerei militari provenienti da 25 paesi in azione nello spazio aereo tedesco. L’obiettivo è quello di prepararsi a un conflitto in Europa. O meglio, l’esercitazione ‘Air Defender 23’ vedrà 10.000 partecipanti e 250 velivoli provenienti da 25 nazioni rispondere a un attacco simulato contro un paese membro della Nato. Gli Stati Uniti da soli stanno inviando 2.000 membri del personale della US Air National Guard e circa 100 aerei per prendere parte alle manovre di addestramento del 12-23 giugno.
Cosa succederà nei prossimi giorni
All’esercitazione militare difensiva, che si terrà dal 12 al 23 giugno, parteciperanno anche Stati Uniti, Germania e Turchia. “Le forze di 25 nazioni sono pronte a lanciare questa esercitazione militare lunedì”, ha affermato il capo dell’aeronautica tedesca, il tenente generale Ingo Gerhartz, nel corso di una conferenza stampa. Aree operative, tattiche, logistica: tutto dovrebbe essere il più realistico possibile, nello spazio aereo della Germania. Alcuni esperti e osservatori definiscono, in sintesi, l’esercitazione Nato come una simulazione della terza guerra mondiale.
L’esercitazione è modellata su uno scenario di assistenza dell’articolo 5 della Nato. In base all’articolo 5, le nazioni della Nato “concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in Nord America, sarà considerato un attacco contro tutte”.
Amy Gutmann, ambasciatrice Usa in Germania, spiega che ‘Air Defender 23’ era programmata da anni, ma la Russia invadendo l’Ucraina l’ha resa più urgente. “Si tratta di un’esercitazione assolutamente impressionante per chiunque la guardi e dimostrerà senza ombra di dubbio l’agilità e la rapidità della nostra forza alleata. Sarei piuttosto sorpresa se un qualsiasi leader mondiale non prendesse nota di ciò che questo dimostra in termini di spirito di questa alleanza, e di forza di questa alleanza. E questo include il signor Putin”, conclude Amy Gutmann.
L’esercito tedesco ha avvertito che l’enorme esercitazione dell’aeronautica potrebbe avere un impatto sui voli civili delle compagnie aeree civili, con restrizioni o ritardi in Germania. Sono però in corso di ottimizzazione processi e procedure per minimizzare al massimo l’impatto sul traffico aereo civile
La mappa dell’esercitazione Nato Air Defender 2023
I tre hub principali dell’esercitazione Air Defender 23 sono Schleswig/Hohn, Wunstorf e Lechfeld. Le esercitazioni saranno condotte principalmente in questi tre spazi aerei sopra la Germania. Le aree sono state utilizzate per decenni dall’aeronautica militare teutonica per l’addestramento di routine. Tuttavia, sono stati di molto ampliati per Air Defender 23, e in parte collegati da corridoi aerei.
Partecipano le seguenti nazioni: Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Giappone, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti.
(da europa.today.it)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL DISEGNO DI LEGGE VALE SOLO PER LE CONFESSIONI RELIGIOSE “I CUI RAPPORTI CON LO STATO NON SONO REGOLATI SULLA BASE DI INTESE”. CASO STRANO TRA LE PRINCIPALI RELIGIONI, SOLO QUELLA MUSULMANA NON PUÒ CONTARE SU UNA INTESA CON LO STATO ITALIANO
Fratelli d’Italia vuole mettere fuori legge le moschee create in capannoni, immobili privati, garage, negozi. Il disegno di legge presentato dal capogruppo alla Camera Tommaso Foti chiede di escludere la normativa di favore riservata alle proprietà di enti del terzo settore, che permette un più facile cambio di destinazione d’uso, ma la stretta vale solo per le confessioni religiose «i cui rapporti con lo Stato non sono regolati sulla base di intese».
Inevitabile le polemiche dal momento che, guarda caso, tra le principali religioni presenti in Italia solo quella musulmana non può contare appunto su una intesa con lo Stato italiano. E, comunque, alla fine si potrebbe aprire una parrocchia in un garage, ma non una moschea, appunto.
Formalmente, FdI vuole intervenire per evitare che vengano «aggirate le normative vigenti» in materia di urbanistica, come spiega il deputato meloniano Fabrizio Rossi.
(da agenzie)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
NEL PARTITO SALE LA PAURA: IL GROSSO DEI MINISTRI FAVORIRA’ IL PROGETTO SOVRANISTA DELLA MELONI
Doveva essere il giorno del rientro ufficiale, con un pranzo ad
Arcore in cui avrebbe dato le direttive alla squadra dei ministri azzurri. Tajani, Pichetto Fratin, Casellati, Bernini e Zangrillo. Solo loro e nessun altro, a parte Marta Fascina, naturalmente. E invece niente di tutto ciò. Il nuovo ricovero di Silvio Berlusconi paralizza ancora Forza Italia, una degenza inaspettata a sole tre settimane dall’uscita dell’anziano leader dal San Raffaele dove era stato ricoverato per 45 giorni, tra aprile e maggio, per complicanze polmonari dovute al tumore al sangue che lo affligge. È arrivato con i valori sballati, l’ex Cavaliere, tanto da essere messo subito in terapia intensiva e, solo dopo una notte più o meno tranquilla, è stato traslocato in reparto. “Il San Raffaele smentisce che in questo momento Berlusconi si trovi in terapia intensiva”, la nota diramata ieri mattina alle 11. Appunto, in quel momento.
“Si trattava di esami già in calendario”, le parole tranquillizzanti del professor Alberto Zangrillo, fratello del ministro. Ma se fossero stati già in programma, non sarebbe stato fissato il pranzo di ieri ad Arcore con i ministri, poi saltato. Al San Raffaele si sono visti la figlia Marina e il fratello Paolo. Presenza fissa, come sempre, Marta Fascina.
A fronte delle condizioni precarie dell’ex premier, che probabilmente dovrà fare fuori e dentro la clinica nei prossimi mesi, la domanda che rimbalza tra Montecitorio e Palazzo Madama è: adesso che succede? L’ipotesi più probabile è che vi sia una sorta di reggenza di Antonio Tajani, che molti reputano non all’altezza, ma questo è ciò che passa il convento. Una reggenza basata su un patto di ferro con Marina Berlusconi e Marta Fascina, per serrare i ranghi di un partito che altrimenti andrebbe alla deriva totale. Il rischio, con Berlusconi fuori gioco, è il fuggi fuggi generale, con alcuni a bussare a Fratelli d’Italia, altri alla Lega di Matteo Salvini (modello Laura Ravetto) e altri ancora a guardare verso Matteo Renzi o Carlo Calenda, dove già stanno Mara Carfagna, Mariastella Gelmini e Osvaldo Napoli. Ma il travaso verso altri lidi è in atto, da mesi, nei territori, anche se Alessandro Sorte in Lombardia di recente s’è accaparrato Max Bastoni dalla Lega, e Gianmarco Senna da Azione. Ma si tratta di fuochi fatui.
Per scongiurare la frantumazione, l’idea è quella di sostenere il piano di Giorgia Meloni di costruire un grande partito conservatore di cui le prossime Europee saranno la tappa decisiva. Un progetto che può valere il 35 per cento ed è ampiamente condiviso da Tajani e da tutta la truppa governativa, diretta conseguenza della pax Silvio-Giorgia tanto voluta da Marina dopo gli scontri dei primissimi turbolenti mesi dell’esecutivo, quando B. bombardava la premier di continuo sull’Ucraina e non solo, mettendola in forte imbarazzo sul piano internazionale. Un partito conservatore di cui si sono visti i primi vagiti questa settimana alla convention organizzata dal ministro degli Esteri a Roma con un bel pezzo di popolari europei, a partire dal presidente Manfred Weber. È a quel mondo che Meloni guarda e FI potrebbe diventare la chiave per aprire agevolmente quella porta, portandosi dietro anche i centristi di Maurizio Lupi, ma lasciando fuori Salvini. “Fino all’anno scorso si parlava con insistenza di una nostra fusione con la Lega, ora invece lo scenario è totalmente cambiato e si guarda a FdI. Strana la politica, no? Il progetto è valido e noi non abbiamo alternative”, riflette un’autorevole fonte forzista. Insomma, strada obbligata, non c’è un piano B.
A quel punto poco importa se il simbolo di Forza Italia se lo prenderà Fascina, Tajani o la famiglia. Al momento la rappresentanza legale ce l’ha ancora l’ex tesoriere Alfredo Messina, ma il cambiamento è in vista. Di più: l’approdo forzista a un nuovo soggetto darebbe lo sprint alla famiglia per tirarsi fuori dal partito e dalla politica, che è il vero obbiettivo di Marina. “Come hanno venduto il Giornale, vogliono uscire anche da FI…”, sostengono in molti.
E, a proposito del Giornale, sarà proprio il quotidiano di via Negri, appena acquisito (al 70%) dagli Angelucci, l’house organ del nuovo partito conservatore. Giovedì prossimo tornerà Alessandro Sallusti con una mission precisa: caratterizzare il foglio di via Negri sempre più al centro, con l’acquisizione, ove possibile, di qualche firma eccellente e di nuovi innesti nell’organico, per fare del quotidiano il punto di riferimento del pensiero liberale, un giornale-laboratorio che faccia da traino al nuovo progetto. Moderato, di alto profilo e governista. Con la benedizione di Giorgia e l’ambizione di portar via copie al Corriere della Sera.
Questo il progetto. A cui non tutti, in Forza Italia, aderiranno. La parte che fino a pochi mesi fa era capeggiata da Licia Ronzulli e che aveva nella Lega il proprio faro non accetterà di finire sotto il giogo dell’asse Meloni-Tajani-Fascina. E qualcuno potrebbe andarsene, magari proprio nella Lega. Molto si capirà dagli spazi che verranno lasciati alla minoranza, per esempio se la stessa Ronzulli resterà alla guida dei senatori (difficile). E poi da come nel frattempo verrà ridisegnata FI, ovvero ciò che Berlusconi avrebbe dovuto delineare ieri, con un’infornata di nuovi coordinatori regionali tutti vicini a Fascina al posto dei ronzulliani in Calabria, Abruzzo e Sardegna.
Per il momento esclusa, invece, la nomina di tre vice coordinatori per nord, centro e sud. Sul risiko interno però, con Berlusconi in ospedale, ora tutto si paralizza di nuovo. E nel frattempo il partito è sempre più allo sbando: senza Silvio, o con Silvio a mezzo servizio, che fine faremo?
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
RIPRISTINA I VOUCHER, FACILITA I CONTRATTI A TERMINE, IGNORA I MONITI DI MATTARELLA E VISCO… AIUTI SOLO ALLE IMPRESE E I GIOVANI SE POSSONO SCAPPANO ALL’ESTERO
«Non fidarti di nessuno che abbia più di trent’anni», ammoniva Jack Weinberg, leader del Free Speech Movement a Berkley negli anni Sessanta. Uno slogan che segnalava la rivolta dei giovani e l’aspirazione a prendere il futuro nelle loro mani.
Però oggi i giovani potrebbero fare un’eccezione e ascoltare due uomini delle istituzioni – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco – che hanno pronunciato parole importanti, nel disinteresse totale del Governo, a favore delle nuove generazioni.
Partiamo da un dato. In Italia ci sono circa tre milioni di lavoratori con contratti a tempo determinato, una massa di manovra indispensabile per il sistema economico che beneficia così di flessibilità e basso costo del lavoro grazie a un esercito, soprattutto di giovani, che non ha un’occupazione stabile e un reddito sicuro.
Tre milioni di precari sono, per le statistiche ufficiali, lavoratori occupati: non importa se il contratto dura qualche mese o pochi giorni, contribuiscono comunque a far salire il tasso di occupazione. Ma questa non è una condizione sana.
Dice Visco: «In molti casi il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate. La quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20%». Però il Governo Meloni va nella direzione opposta, visto che favorisce il ritorno dei voucher e l’estensione dei contratti a termine, che saranno più facili da proporre senza l’obbligo della causale.
Il governatore della Banca d’Italia suggerisce l’introduzione del salario minimo, così come raccomandato dall’Europa, perché risponde a «non trascurabili esigenze di giustizia sociale». Ma Giorgia Meloni, facendo un favore a Confindustria, non ci sente.
E il presidente Mattarella, nella solennità del 2 giugno, ha avvertito che «oggi lavorare all’estero non dovrebbe più rappresentare, per nessuno, una scelta obbligata non priva di disagi e di rischi, bensì un’opportunità, specialmente per i giovani».
Mattarella sa bene di cosa parla perché se il Governo teme l’immigrazione, arma per la «sostituzione etnica», altrettanta preoccupazione dovrebbe suscitare la fuga dei giovani da un Paese che non fa figli. Sono oltre 5,8 milioni gli italiani che vivono all’estero, con un’accelerazione negli ultimi quindici anni. Il 36,3% (1,2 milioni di persone) degli iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero) è costituito da minori e da cittadini tra i 18 e i 34 anni. Precari, in cerca di un lavoro sicuro e di un reddito dignitoso molti se ne vanno perché non si vedono miglioramenti.
La precarietà, infatti, non è un fenomeno temporaneo, secondario, governabile con il successo dell’impresa, come si è pensato a lungo. Forma, invece, il dna del sistema: c’era nella Ricostruzione, poi nella crisi degli anni Settanta, è mutata negli ultimi trent’anni, giustificata dalla Ue con la necessaria flessibilità da garantire alle imprese e valorizzata da una filosofia che invitava a non innamorarsi del posto fisso, dello stipendio sicuro, dei diritti.
Paolo Sylos Labini, già nel 1966, affrontava la precarietà: «La differenza essenziale non è tra occupazione e disoccupazione, ma fra un’occupazione ragionevolmente stabile e continua e un’occupazione instabile, ossia precaria e irregolare».
Poi Luciano Gallino studiò «la globalizzazione della precarietà», il legame tra internazionalizzazione dei processi, delocalizzazione e sfruttamento del lavoro, fenomeno senza confini come dimostrano le tragedie e le vessazioni di milioni di persone.
Il successo della precarietà oggi non si spiega senza la crisi globale del 2008 che ha accelerato la trasformazione del diritto del lavoro subordinando le garanzie dei lavoratori agli interessi dell’impresa. In Italia la svolta reazionaria s’è compiuta prima con le politiche del ministro Elsa Fornero, che inventò gli esodati (Governo Monti), poi con Matteo Renzi e le martellate allo Statuto dei lavoratori. Ora tocca a Meloni proseguire l’opera
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
UN GOVERNO SENZA CONTROLLORI, L’ALLERGIA DEI SOVRANISTI
In otto mesi di governo, un profilo dell’esecutivo Meloni è
emerso in maniera più preponderante degli altri: l’allergia ai controlli. Nelle ultime settimane è risultato più eclatante dopo lo scontro con la Corte dei conti, ma a ben vedere i semi di questo fastidio nei confronti di tutte le autorità non allineate all’esecutivo è emerso sin dai primi passi di Giorgia Meloni.
Considerate come fastidiosi grilli parlanti, il tentativo è stato quello di silenziarle. Oscure manine, anonimi burocrati, sabotatori occulti: ogni volta che qualche ente si è azzardato a muovere un rilievo, subito è stato trascinato nella polemica politica e considerato una sorta di avversario o di opposizione.
PIZZO DI STATO
La prima a tradire questa visione è stata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Sempre attenta a non esagerare quando parla in sede istituzionale, si è invece lasciata trascinare dal palco di Catania, dove è volata per sostenere il candidato sindaco di centrodestra alle amministrative di fine maggio.
A sfuggirle, galvanizzata anche dalla folla, è stato uno dei luoghi comuni più riconoscibili del centrodestra, a partire da quello berlusconiano: l’avversione per le tasse, con un ripescaggio della retorica della loro vessatorietà per i piccoli imprenditori ed elettorato di riferimento.
«L’evasione devi combatterla dove sta: big company, banche, non sul piccolo commerciante a cui chiedi il pizzo di stato solo perché devi fare caccia al reddito più che all’evasione fiscale», ha detto Meloni dalla Sicilia, dove definire le tasse un pizzo, e dunque lo stato alla stregua della mafia, ha un peso specifico anche maggiore che altrove. «Ho solo detto che la caccia al gettito è sbagliata», ha provato a difendersi dopo, ritornando nei panni istituzionali, ma senza rimangiarsi nulla, nemmeno il lessico.
Del resto, considerare i controlli dello stato – siano essi sui risparmi privati o sui fondi pubblici – come disturbi al manovratore è un sottotesto costante.
CORTE DEI CONTI
Politicamente, il Pnrr è la sfida più ardua per l’esecutivo e l’incubo peggiore è quello di non riuscire a mettere a terra tutti i fondi, che oggi sono la ragione principale del volano positivo dell’economia.
L’esecuzione è importante quanto la narrazione e per questo il governo non accetta né interferenze né critiche. La strada maestra per procedere più rapidamente è stata considerata quella di ridurre al minimo i lacci e lacciuoli dei controlli, considerati inutile burocrazia preventiva. Soprattutto se le relazioni che espongono le criticità nella spendita dei fondi diventano pubbliche.
In questo disegno si è inserita la cancellazione del controllo concomitante sul Pnrr da parte della Corte dei conti, come anche la proroga dello scudo fiscale che solleva gli amministratori pubblici dalla colpa grave commissiva in caso di danno erariale.
I due emendamenti devono essere approvati definitivamente in Senato, ma il governo ha già posto la fiducia e ormai sono considerati cosa fatta, con l’aggiunta del volontario sgarbo istituzionale di averli proposti il giorno prima del vertice fissato tra palazzo Chigi e il presidente Guido Carlino.
I controlli sul Pnrr certo non si esauriscono con la Corte dei conti, ma il vaglio decisivo sarà quello europeo, inoltre la magistratura contabile continua a mantenere le sue prerogative di controllo successivo. Tuttavia, il tenore dei rapporti tra controllati e controllori è tracciato.
IL MACHETE SUI BUROCRATI
Il fastidio per quelli che nella narrazione del governo sono oscuri burocrati di Stato, del resto, deriva da uno dei ministri più vicini a Meloni come Guido Crosetto. Il titolare del dicastero della Difesa, normalmente d’indole gentile, ha mostrato il suo volto più arcigno quando gli è stato chiesto il suo parere sulla macchina statale.
«Non si può pensare di fare politiche nuove e diverse, se nei posti chiave tieni funzionari che hanno mentalità vecchie o servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa», ha detto al Messaggero, spiegando la sua ricetta per ridurre a quattro anni il tempo di realizzazione di un’opera pubblica: «Bisogna usare il machete contro chi nelle amministrazioni pubbliche si è contraddistinto per la capacità di dire no e perdere tempo».
Una categoria, quella dei burocrati, che nell’immaginario del governo comprenderebbe un po’ di tutto: magistratura, funzionari amministrativi e dirigenti, pronti a ricordare che esistono dei vincoli alla discrezionalità dell’esecutivo e che il sistema istituzionale è fatto di pesi e contrappesi.
Tra questi enti c’è anche l’Anac, l’autorità amministrativa indipendente che si occupa di anticorruzione.
È vissuta con gran fastidio in particolare dal ministro per i Trasporti, Matteo Salvini. Ha infatti mosso una serie di osservazioni al nuovo codice degli appalti pubblici – ribattezzato dal ministro “codice Salvini” – in particolare per quanto riguarda l’innalzamento delle soglie per affidare i lavori senza gara.
Detto fatto: alle osservazioni Salvini ha risposto chiedendo le dimissioni del vertice dell’Anac, Giovanni Busia. Ora sotto la lente di Anac è finito in particolare il progetto che è ormai considerato il totem del leghista, quasi più dell’autonomia differenziata: la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, chimera dei governi Berlusconi, tanto da entrare nel lessico comune come metafora di irrealizzabilità.
Anac ha proposto una serie di suggerimenti di emendamento al decreto, tutti rifiutati dal governo che ha deciso di proseguire per la sua strada.
MEGLIO I CONTANTI
Primo seme nella direzione di allontanare ogni tipo di controllo, tuttavia, si può rinvenire già nel primo discorso al parlamento della neopremier Meloni, in cui ha indicato come scelte politiche del governo l’innalzamento del tetto al contante a 10mila euro e l’eliminazione dell’obbligo del Pos fino a 60 euro.
Su entrambe c’è stato poi un dietrofront, ma certamente non fatto a cuor leggero. Anche in questo caso, segnali di allarme erano arrivati da un istituto di diritto pubblico come la Banca d’Italia, al momento dell’esame della prima manovra di bilancio del governo. «Le misure vanno in direzione contraria alla modernizzazione del paese, che è strettamente connessa con la riduzione dell’evasione fiscale», aveva detto Fabrizio Balassone, capo del servizio Struttura economica del dipartimento Economia e statistica di via Nazionale, in audizione sulla legge finanziaria.
A cui è seguita la risposta sprezzante del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari: «Che la manovra non piaccia a sindacati, Confindustria e Bankitalia, è un buon segno», anche perchè «Bankitalia è partecipata da banche private».
Poche ore dopo, il dietrofront per evitare frizioni istituzionali. Tuttavia, da ottobre ad oggi, il riflesso incondizionato del governo è sempre lo stesso: alle osservazioni critiche si risponde con gli attacchi e, dove possibile, con il ridimensionamento.
(da EditorialeDomani)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
“NOSTRO PADRE NON E’ UN BRAND, LASCIATELO IN PACE”
«Per favore, lasciate in pace nostro padre». Firmato: Bianca, Maria, Marco e Laura, i quattro figli dello storico leader del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.
L’appello, pubblicato oggi sulle pagine di Repubblica, è rivolto a Piero Sansonetti, direttore della nuova edizione del giornale L’Unità, storico quotidiano comunista. «Quello che torna oggi nelle edicole è un quotidiano interamente nuovo che dell’antico e glorioso giornale conserva solo il nome – scrivono i quattro figli dell’ex leader del Pci -. E solo perché quando è stato messo all’asta un imprenditore più rapido di altri è riuscito ad acquisirne la proprietà».
L’accusa nei confronti di Sansonetti è di voler “sfruttare” il volto di Berlinguer per pubblicizzare il nuovo corso dell’Unità. Il primo numero 15 maggio scorso aveva come titolo di prima pagina «Stiamo tornando», accompagnato proprio da una foto dell’ex leader del Pci che a sua volta tiene in mano una copia dell’Unità con il titolo a tutta pagina «Eccoci».
Eppure, secondo i quattro figli di Berlinguer, la nuova edizione dell’Unità non ha niente a che spartire con il giornale di qualche decennio fa. «Della storia precedente nulla rimane: e nemmeno uno di quei redattori che hanno tenuto in vita il giornale fino al 2017», scrivono Bianca, Maria, Marco e Laura. Poi la domanda rivolta a Sansonetti: «Come spiegarsi che venga utilizzata una foto così significativamente legata al suo tempo e così, di quel tempo, potente espressione per pubblicizzare un prodotto inevitabilmente tutto diverso?».
I quattro figli dell’ex leader comunista lanciano infine un’ultima riflessione: «Certo, la memoria storica appartiene a tutti e per noi è motivo di gioia sapere che la vita e l’attività di nostro padre vengano sentite e vissute da quanti gli vogliono ancora bene, ma altra cosa è trasformare il suo ricordo in un brand pubblicitario».
(da agenzie)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
MI GRIDAVANO: “ARABO DI MERDA”
È una testimonianza atroce, quella rilasciata da Adil Tantaoui,
uno delle decine di persone – quasi sempre straniere – finite nelle grinfie dei poliziotti «deviati» di Verona, ora agli arresti con le accuse di tortura, lesioni aggravate, peculato, rifiuto e omissione di atti di ufficio e falso ideologico in atto pubblico. Tantaoui è marocchino, ha 37 anni, vive in Italia da sette, è incensurato e sposato con una donna italiana.
Lavori precari, certo, guadagni pure. Ma mai alcun problema con la giustizia. Anzi, anni fa era finito sui giornali locali per una storia di buon cuore: trovata una borsa alla stazione di Porta Vescovo, con all’interno un tablet e un pc, l’aveva restituita al suo legittimo proprietario, un docente universitario.
E la mattina in cui per lui iniziò l’incubo cercava proprio giustizia, Tantaoui, dopo essere stato egli stesso vittima di un’aggressione. Lo racconta oggi al giornalista Niccolò Zancan sulle pagine de La Stampa. «Erano le otto di mattina del 26 ottobre. Io e mia moglie Elena vivevamo allora in una casa abbandonata, vicino al Bar Bauli, in via Perlar a Verona. Mi ero svegliato presto, stavo camminando nel parco che c’è lì davanti. Un ragazzo italiano mi ha chiesto una sigaretta, ma io non l’avevo. Lui ha preso un bastone e mi ha colpito sulla testa».
Il giovane marocchino sanguina alla testa, è incredulo: chiama la polizia. Che arriva poco dopo, come da prassi, insieme a un’ambulanza. Tantaoui viene medicato alla testa. Ma poi, inspiegabilmente, diventa vittima di un nuovo sopruso: questa volta proprio da parte degli agenti. «Hanno lasciato stare il ragazzo italiano, ma hanno portato via me. Non mi hanno chiesto neanche i documenti, non hanno voluto sapere niente. Gli agenti mi hanno caricato in auto e subito uno dei due, quello pelato, ha iniziato a insultarmi: “Arabo di merda! Marocchino te ne devi andare di qua!».
Il sequel delle violenze, da Verona a Torino
È solo l’inizio dell’incubo ad occhi aperti vissuto da Tantaoui, secondo il suo racconto offerto nello studio legale milanese dove è assistito. Una volta arrivato in Questura a Verona, subisce il primo pestaggio, nel tunnel del parcheggio: «Mi hanno preso a calci nelle gambe, poi mi hanno strappato dalla testa le medicazioni». Non è tutto. Arrivato nell’edificio, ancora dolorante e senza alcuna ragione per il fermo, viene abbandonato nudo, senza acqua né cibo. «Stavo male. Mi hanno tolto tutti i vestiti e mi hanno buttato per terra nella stanza degli arrestati in mutande. Senza mangiare, senza niente. Tutto il giorno e tutta la notte. Sono svenuto».
Ripresosi, all’indomani Tantaoui viene caricato su un’auto di servizio. La destinazione è il Centro per i rimpatri (Cpr) di Torino. Dove rimarrà rinchiuso – senza poter essere rimpatriato, essendo sposato con una cittadina italiana – per 35 giorni. Un inferno, testimonia l’uomo. «È proprio un carcere. Ti tolgono il telefono. La gente impazzisce. Il cibo è tremendo. È un casino. E poi ti danno delle pastiglie per calmarti e molti le prendono, ma io mi sono rifiutato».
Come ha fatto a non perdere la testa?
Un incubo finito appunto dopo oltre un mese, solo grazie all’apertura dell’inchiesta sugli abusi dello stato di diritto compiuti dagli agenti di Verona. Ma che in Tantaoui hanno lasciato un segno profondo, profondissimo. Ora «cerco di stare bene, ma è difficile – confessa a Zancan. Non ho trovato in Italia quello che cercavo. Mio padre è un giornalista, io ho fatto il cameraman anche per la Rai, ma le cose per me non sono andate come speravo. Ho provato tanti lavori: il magazziniere, le fragole. Ma non ce l’ho mai fatta. Ora i miei genitori mi hanno spedito dei soldi per aiutarmi qualche mese, così ho preso una stanza in affitto alla periferia di Milano». Quanto al giudizio su quei poliziotti deviati che gli hanno rovinato la vita, Tantaoui è perfino pacato: «Ce ne sono anche in Marocco. Dipende sempre dalla persona».
(da agenzie)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
MA IN QUALE PAESE UN MINISTRO ANNUNCIA UN’OPERAZIONE “ANTITERRORISMO” IN CORSO (CHE POI TALE NEANCHE E’) ?
Ci siamo addormentati col timore che si fosse compiuto un tentativo di dirottamento collegato a frange terroristiche, e ci siamo svegliati con una ricostruzione dell’accaduto molto meno inquietante.
Non esistono elementi investigativi che facciano pensare che la volontà dei 15 migranti clandestini individuati a bordo della nave turca “Galata Seaways”, diretta in Francia e approdata venerdì a Napoli dopo l’allarme del comandante e il blitz del Battaglione San Marco della Marina Militare, fosse quella di modificare forzosamente la rotta del mercantile.
Crosetto da Vespa: “Nave sequestrata”
Nel pomeriggio di venerdì, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, parla del blitz in corso dal forum Masseria di Bruno Vespa a Manduria (Taranto): “Le forze speciali italiane stanno liberando una nave turca con 22 persone di equipaggio sequestrata da circa 15 migranti”. Poche ore dopo, il ministero diffonde le foto del Battaglione San Marco in azione sulla nave. Alle 23 Crosetto twitta: “I dirottatori della nave sono stati catturati. Tutto è finito bene”.
I verbali: il capitano non parla di dirottamento
Poi però dai verbali emergono notizie diverse. Non parla di dirottamento nemmeno il comandante, sentito durante la notte dagli investigatori della Finanza e della Polizia insieme agli altri 18 componenti dell’equipaggio e ai tre passeggeri. I rapporti sono ora sul tavolo del pm di Napoli, Enrica Parascandolo. Sentiti ovviamente anche i 15 migranti clandestini a bordo, diversi rinvenuti in condizioni precarie di salute, deboli e malnutriti. Quattordici sono stati identificati: si tratta di un iraniano, 4 siriani e 9 iracheni. Due sono minori. Per quattro è stato necessario il trasferimento in ospedale, compresi una donna incinta, un fratturato, uno in ipotermia severa (l’unico non identificato). Sono stati collocati presso il centro di accoglienza della Croce rossa, tranne i due minori, portati in un altro centro.
L’“sos” scattato a poche miglia da Ischi
Salpata il 7 giugno dal porto di Topcular in Turchia, la nave cargo era diretta a Setè in Francia. L’“sos” è scattato venerdì dopo che alcuni componenti dell’equipaggio ha individuato il gruppo di immigrati a bordo. In quel momento l’imbarcazione si trovava a poche miglia da Ischia. Il comandante avrebbe riferito agli inquirenti di avere visto almeno due clandestini armati di coltello nella zona macchine del mercantile e di avere quindi deciso di lanciare l’allarme. Una ricostruzione confermata anche dalle immagini di una telecamera a circuito chiuso. Gli immigrati stavano provando con un coltello ad aprire una porta, forse un tentativo di fuga, di rintanarsi.
Interrogati: “Scoperti, temevamo il rimpatrio
“Quando ci hanno scoperti avevamo paura che ci fermassero per rimpatriarci”, hanno raccontato. Al termine degli interrogatori, gli investigatori hanno denunciato tre clandestini per porto d’armi. Rinvenuti due coltelli e un taglierino. I clandestini ai quali sono stati sequestrati si sono difesi così: “Ci servivano per aprire i teloni dei camion e nasconderci”.
Offerta come quasi certa in pasto all’opinione pubblica durante le prime ore del blitz, la notizia del “dirottamento” della “Galata Seaways” è stata declassata in poche ore. Dipenderà dalle valutazioni della procura di Napoli, che però ha in mano verbali e relazioni dai quali emergerebbe che il comandante non ha mai perso il governo della nave. E che l’occupazione principale dei clandestini sia stata quella di nascondersi, scappare, e non quella di aggredire l’equipaggio. Al momento non c’è spazio nemmeno per accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sosta della Galata Seaway nel porto di Napoli è durata meno del previsto. Già ieri in tarda mattinata l’imbarcazione battente bandiera turca ha ripreso la rotta verso la Francia.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Giugno 11th, 2023 Riccardo Fucile
“MA QUALE DIRITTAMENTO, ABBIAMO SOLO SQUARCIATO UN TELONE PER RESPIRARE”… NESSUN DIROTTAMENTO, SEQUESTRO O AGGRESSIONE: LA PROCURA DI NAPOLI DERUBRICA I FATTI
Nessun dirottamento, e con ogni probabilità neppure alcuna
minaccia o aggressione, tanto meno sequestro di persona.
Le prime indagini condotte dalla procura di Napoli sembrano smontare radicalmente la narrazione offerta su quanto accaduto venerdì nelle acque del Golfo dal ministero della Difesa, quasi in presa diretta dal ministro Guido Crosetto ospite in quelle ore della kermesse pugliese di Bruno Vespa. Le pm Enrica Parascandolo e Alessandra Converso hanno infatti sentito nella giornata di ieri 11 dei 15 migranti che erano a bordo della Galata Seaways, la nave turca sulla quale sono intervenuti i militari italiani dopo l’allarme lanciato dal comandate, incrociando le loro testimonianze con i video delle telecamere di bordo e con le versioni di altri presenti.
E il racconto dei migranti, 15 in tutto, converge: si erano nascosti a bordo della nave sperando di guadagnare uno spicchio d’Europa. A un certo punto, durante la navigazione, in acque italiane, sono stati scoperti dall’equipaggio. A quel punto «abbiamo avuto paura che ci rimpatriassero», hanno detto agli inquirenti. L’unico atto «violento» concreto di cui si sarebbero macchiati sarebbe stato il tentativo di tagliare con due coltelli e un taglierino il telone del camion sul quale si erano nascosti, per prendere aria.
Una storia di disperazione, dunque, ben più che di violenza, o ancor meno di «pirateria» – come nelle prime ore la ricostruzione della Difesa italiana aveva lasciato intendere. Dei 15 migranti, di nazionalità siriana e irachena, due sono donne incinte, e due minori. Le due donne si trovano ora in ospedale, così come altri due uomini – riferisce Repubblica – uno in severa ipotermia, l’altro con una sospetta frattura alla caviglia.
L’allarme del comandante e l’intervento della Brigata San Marco
Dal punto di vista procedurale, la condotta del comandante della Galata Seaways è considerato ineccepibile: informato, con tanto di prova video dalle telecamere di bordo, del fatto che sulla nave fossero presenti persone non registrate armate di alcuni coltelli, ha attivato il protocollo d’emergenza – facendo riparare l’equipaggio nella cabina blindata e lanciando l’Sos. Allarme raccolto dalla Marina italiana, stante la posizione dell’imbarcazione, 90 miglia a sud di Napoli. La segnalazione della Capitaneria di Porto del capoluogo campano fa scattare infatti l’intervento dei reparti di élite: l’elicottero Nh90 partito dalla Puglia, il boarding team del battaglione San Marco su un secondo elicottero; due navi militari di supporto all’operazione: la Gregoretti e la Montecimone. Un dispositivo da operazione di anti-pirateria, appunto. Rivelatosi però, stando alla prima ricostruzione della Procura, eccessivo.
Una volta calatisi a bordo, infatti, i militari italiani hanno trovato i migranti «in uno dei piani cargo fra i vari telonati e container della nave, e sono stati collaborativi», ha spiegato a SkyTg24 il tenete di vascello del secondo reggimento Brigata San Marco, Luca Canepa. Non si erano mai spostati dalla zona in cui avevano cercato rifugio, insomma. Né hanno tentato di aggredire il personale di bordo, tanto meno le forze speciali che hanno «liberato» la nave.
Le ipotesi di reato ora al vaglio della Procura
Dalla ricostruzione, insomma, emerge un quadro ben diverso da quello veicolato pubblicamente, quasi in presa diretta, dal ministro della Difesa. Crosetto venerdì sera aveva giubilato dal Forum Masseria di Vespa per l’operazione delle forze speciali italiane che «hanno ripreso il controllo di una nave turca sequestrata da clandestini armati»: operazione conclusa con «la cattura dei dirottatori che si erano chiusi dentro la nave».
La Procura di Napoli non ha invece a questo punto alcun elemento per ipotizzare un dirottamento del mercantile, né il sequestro dell’equipaggio. Restano in piedi soltanto le denunce a piede libero per il possesso a bordo di due coltelli e un taglierino. La Galata Seaways, intanto, ieri pomeriggio ha ripreso la sua regolare rotta.
(da Open)
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