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MIGRANTI, TUTTE LE DOMANDE SENZA RISPOSTA SULL’ACCORDO PATACCA CON L’ALBANIA

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

E IN ITALIA, DOPO IL CASO APOSTOLICO, IL GOVERNO NON APPLICA PIU’ IL DECRETO CUTRO

Il paradosso dell’accordo bilaterale Italia-Albania sta tutto qui. Il centro di Pozzallo destinato al trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri da rispedire in patria è vuoto. Ci sono solo due migranti in attesa ma, dopo le ripetute sentenze dei giudici delle sezioni immigrazione che si sono rifiutati di convalidare i fermi, il Viminale di fatto ha rinunciato all’applicazione delle norme del decreto Cutro. “Non c’è più arrivata nessuna richiesta” confermano dal tribunale di Catania. Il governo dunque evidentemente preferisce evitare altre bocciature e confida nel pronunciamento della Cassazione che però non ha ancora neanche fissato la data del ricorso presentato dall’Avvocatura dello Stato.
Adesso per il trattenimento dei richiedenti asilo, il governo punta le sue carte sull’Albania, perché il centro che verrà realizzato nell’interno del Paese, come conferma il ministro Matteo Piantedosi, “non sarà un Cpr ma un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri, come quello di Pozzallo”.
Il governo dunque azzarda e ripropone la stessa strategia del trattenimento arbitrario dei richiedenti asilo per giunta in un Paese terzo, l’Albania. L’accordo bilaterale innanzitutto mette in discussione le garanzie che la legge italiana e le norme internazionale prevedono per chiunque arrivi in Italia e intenda chiedere asilo
La realizzazione e la gestione dei centri
Tutto a carico dell’Italia il costo della realizzazione dei due centri, quello di accoglienza al porto e il Centro di trattenimento in una zona interna. L’Albania metterebbe a disposizione solo il terreno sul quale il governo italiano intende far vivere una sorta di extraterritorialità di fatto non prevista da alcuna legge. La sicurezza interna sarebbe gestita da forze dell’ordine italiane, quella esterna dalla polizia albanese. Italiana sarebbe la gestione del centro di accoglienza che il governo vorrebbe affidare alla Croce Rossa per riproporre il modello Lampedusa. Le operazioni di identificazione dei migranti e la raccolta delle richieste di asilo sarebbero svolte dalla polizia italiana con un presidio fisso e nel centro verrebbe addirittura istituita una vera e propria commissione prefettizia per il vaglio delle richieste di asilo. Al governo poi, per fugare i dubbi sulle garanzie per i richiedenti asilo, piacerebbe che le agenzie dell’Onu, Oim e Unhcr tenessero li sempre propri rappresentanti.
Il respingimento in un Paese terzo
Ci sono diverse sentenze di tribunali italiani ( su tutte quella della giudice di Roma Silvia Albano) e conseguenti pronunce delle Corti europee che ritengono illegittimo qualsiasi accordo bilaterale ( come ad esempio quello Italia- Slovenia) che consenta all’Italia di fatto di respingere in un Paese terzo migranti che arrivano sul suo territorio ( e le navi militari sono territorio italiano). Portare dei migranti soccorsi in mare in territorio albanese si configura dunque come un vero e proprio respingimento collettivo vietato dalle convenzioni internazionali.
Il trattenimento arbitrario
I migranti portati in Albania (tutti uomini maggiorenni) non saranno di certo lasciati liberi di muoversi come invece avviene in un qualsiasi centro di accoglienza italiano. Verrebbero dunque di fatto trattenuti in modo palesemente arbitrario. Toccherebbe ai funzionari di polizia italiani di stanza in Albania disporre il fermo che però secondo la legge italiana va convalidato da un giudice, sulla base della relativa documentazione e sentito il migrante, entro 48 ore.
La giurisdizione
E qui si pone un altro enorme problema. La giurisdizione degli Stati è regolata da norme internazionali che nessun accordo bilaterale può modificare. Quali giudici dovrebbero pronunciarsi sul trattenimento dei richiedenti asilo? Di certo non quelli albanesi. E quali sarebbero i giudici italiani competenti a vagliare una procedura di frontiera accelerata in un Paese terzo? Come verrebbe assicurato il diritto alla difesa dei migranti e come potrebbero i giudici chiamati a pronunciarsi ad essere in condizione di valutare le singole posizioni? Giudici e avvocati di settore prevedono già una valanga di ricorsi che di fatto bloccherebbe tutta l’architettura del piano
Permessi e dinieghi
36.000 migranti in un anno vuol dire immaginare che ogni mese si riescano ad evadere 3.000 richieste di asilo con procedura accelerata di frontiera. Pura fantasia vista la cronica carenza di organici del ministero dell’Interno che ha portato alla proclamazione del primo sciopero di componenti delle commissioni prefettizie per l’asilo.
Per altro, ad essere trattenuti per le procedure accelerate di frontiera possono essere solo colorto che arrivano da Paesi sicuri, ma se i migranti verranno sbarcati direttamente in Albania dal luogo di soccorso solo lì verrà fatta la prima cernita e chi arriva da Paesi non sicuri non potrà essere trattenuto. Cosa succederà allora? Verrà riportato in Italia per le procedure normali? Di certo non potrà essere lasciato libero in Albania, Paese terzo ed extraeuropeo.
Nessuno sa per altro come dovrebbe funzionare il seguito della richiesta di asilo, perchè ovviamente i migranti a cui verrà riconosciuta la protezione internazionale dovranno essere portati in Italia, gli altri potranno essere trattenuti per 30 giorni nel centro interno in attesa di rimpatrio. Il tutto con costi considerevoli.
I rimpatri impossibili
E per finire, come sempre il governo fa i conti senza l’oste, cioè senza gli accordi di rimpatrio, indispensabili per poter rimandare indietro i richiedenti asilo. Come è noto, di fatto funziona solo quello con la Tunisia. Cosa succederà dunque degli altri richiedenti asilo che non si riuscirà a rimpatriare? Tutte domande alle quali al momento nessuno è in grado di dare risposta
(da La Repubblica)

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IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA POLACCA, ANDRZEJ DUDA, HA AFFIDATO L’INCARICO DI FORMARE UN GOVERNO AL PREMIER USCENTE MATEUSZ MORAWIECKI. MA IL LORO PARTITO, IL PIS, NON HA SPERANZE DI TROVARE UNA MAGGIORANZA

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

MA COSÌ PRENDONO TEMPO. E, TRA ACCUSE DI DOCUMENTI FINITI NEL CESTINO E CASSE RIPULITE, CERCANO DI LASCIARE TERRA BRUCIATA A DONALD TUSK, CHE HA VINTO LE ELEZIONI E PROMESSO UNA NUOVA “PRIMAVERA” A VARSAVIA

Il presidente della Repubblica polacco Andrzej Duda ha deciso di forzare la mano e affidare l’incarico di formare un governo, intanto, al suo compagno di partito, il premier uscente Mateusz Morawiecki.
Una decisione incredibile. «Ho deciso di mettermi nel solco della buona tradizione parlamentare che assegna al partito che ha vinto la possibilità di formare per primo un governo », ha dichiarato.
È vero: Diritto e Giustizia è arrivato primo alle elezioni del 15 ottobre con il 35% dei voti: formalmente può avere per primo l’incarico. Ma è vero anche che i tre partiti dell’opposizione capitanati dall’ex presidente del Consiglio Ue ed ex premier Donald Tusk, hanno incassato la maggioranza dei seggi in Parlamento: 248 su 460, il 54% delle preferenze. Immediatamente dopo il voto, Piattaforma civica, il partito di Tusk, e i suoi alleati di Terza via e Nuova sinistra hanno dichiarato ufficialmente a Duda durante le consultazioni che appoggiano un solo nome: quello di Tusk.
Duda, in realtà, sembra prendere tempo. Diritto e Giustizia è ormai isolato in Parlamento e la possibilità che possa convincere una quarantina di parlamentari dell’opposizione per conquistare la maggioranza, è ridotta al lumicino. D’ora in poi, tuttavia, passeranno due settimane dal momento in cui si riunirà il nuovo Parlamento (il 13 novembre) e quello in cui Morawiecki dovrebbe chiedere il voto di fiducia o dichiarare il suo fallimento. Poi toccherà alla maggioranza […] affidare a un candidato, quasi certamente Tusk, il compito di formare un governo. È probabile che bisognerà aspettare Natale per assistere alla nascita di un nuovo esecutivo.
Tusk, intanto, è già volato a Bruxelles nelle scorse settimane per cominciare a discutere con Ursula von der Leyen degli oltre trenta miliardi che sono stati congelati dalla Commissione europea per le gravissime lesioni dello Stato di diritto degli ultimi anni. Il capo dell’opposizione ha già promesso che toglierà il bavaglio ai giudici e restituirà loro l’autonomia spazzata via dal governo uscente di Diritto e giustizia.
Ma Tusk ha anche minacciato di trascinare davanti al tribunale per corruzione Morawiecki, Duda e il governatore della Banca centrale polacca. Le voci che girano a Varsavia parlano di montagne di documenti che starebbero finendo senza sosta nei tritacarte. Il più autorevole quotidiano polacco, Gazeta Wyborcza , ha registrato nelle settimane scorse anche una frenetica attività di spesa da parte di alcuni apparati statali: «l’idea sembra quella di ripulire le casse fino a ridurle a zero».
La convivenza con il presidente della Repubblica si annuncia faticosa, per il probabile futuro premier Tusk.
Duda scade nel 2025 e fino ad allora ha potere di veto su ogni legge tranne quella di bilancio. In teoria può rendere la vita molto difficile al leader di Piattaforma civica. Una promessa in cui i polacchi credono molto. Mai nella storia sono andati a votare così in massa: l’affluenza è stata del 74%.
(da La Repubblica)

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VI RICORDATE QUANDO EDI RAMA, A MAGGIO SCORSO, DICEVA CHE LA DECISIONE DEL GOVERNO INGLESE DI “DEPORTARE” I MIGRANTI IN RUANDA ERA UNA STRONZATA?

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

ECCO COSA DICEVA POCHI MESI FA: “LE PARE UNA SOLUZIONE INTELLIGENTE, DEPORTARE CHI VIENE A OFFRIRE MANODOPERA? GLI INGLESI SI SONO UN PO’ PERSI”

Estratto dell’articolo di Francesco Battistini per il “Corriere della Sera – La Lettura” – Articolo del 14 maggio 2023
Parla e dipinge. Dipinge e parla.
«Dipingo mentre telefono, dipingo quando riunisco i miei collaboratori, dipingo ogni volta che devo concentrarmi… Nel mio ufficio, io dipingo sempre».
Anche adesso…
«Sì, se non le spiace: lei mi fa le domande e io continuo la tempera».
Negli ultimi trent’anni, l’Albania s’è salvata dal disastro. Una modernizzazione che però ha avuto dei costi: dov’è finita l’anima?
«Non credo che l’Albania abbia perso l’anima. Prima, era sepolta nell’isolamento più totale del comunismo. Poi è resuscitata ed è diventata più aperta. Sì, forse avremo perso l’usanza d’andare a vedere la tv dal vicino, perché oggi la tv ce l’abbiamo tutti. O forse siamo diventati un po’ più individualisti, egoisti. Magari anche le nostre tradizioni, i nostri costumi si manifestano in modo diverso. Ma sono ancora lì».
Di sicuro, è cambiata la vostra percezione dell’Italia. Molti albanesi tornano in patria delusi…
«Non è delusione. Una volta c’era l’attrazione enorme dell’amore impossibile, della mela che non si poteva cogliere. Veniva dal piccolo schermo in bianco e nero: da quella finestra, guardavamo mondi che per noi erano sogni. Quando hanno aperto le porte dell’inferno e sono arrivati da voi, gli albanesi han capito che non eravate solo Rai e Mediaset, Canzonissima e Carosello.
Ma non hanno mai perso l’amore. L’Italia ora è molto più presente di prima, è considerata una parte di noi. Gli albanesi da voi si sentono in Albania, l’Italia è un pezzo d’Albania. È successo come in un matrimonio, coi sogni che ci portano a sposarci finché non subentra la realtà: si continua a coltivare l’amore reciproco, ma in una maniera diversa».Non c’invidiate proprio più nulla?
«Un tempo ci sentivamo degli italiani nudi e vedevamo voi come degli albanesi ben vestiti. Poi il percorso ci ha omologati, siamo diventati tutti albanesi e tutti italiani. Prenda la cucina: tanti ragazzi han fatto gavetta nei vostri ristoranti, qui adesso fanno gli chef e il risultato è che a Tirana ormai si mangia come in Italia. In questa contaminazione, sì, c’è una cosa che mi piacerebbe importare: quei bellissimi quadri che da secoli giacciono chiusi nei sotterranei dei musei italiani. Nessuno li può ammirare. Sarebbe bello farli uscire e prestarli all’Albania, naturalmente senza alcun diritto di proprietà».
Al contrario che in altri luoghi, il passato della guerra non ha lasciato rancori anti-italiani.
«È vero. Nell’architettura e nell’urbanistica, il fascismo fece opere delle quali siamo sempre stati fieri. E non ci fu una sola vendetta. Del resto, gli albanesi sono l’unico popolo che non consegnò nemmeno un ebreo ai nazisti. Dopo la capitolazione dell’Italia arrivarono i tedeschi, ma i soldati italiani vennero nascosti: trattati come cugini da sistemare in casa».
E dire che vent’anni fa, in Italia, c’erano le ronde leghiste in cui si gridava «albanesi tutti appesi»..
«Non credo esista più un solo italiano che abbia un sentimento di rifiuto verso gli albanesi. C’è chi s’è legato alla criminalità, chi eccede, ma oggi tutti gli emigrati osservano le regole italiane. Mi sembra siano stati accettati completamente, un po’ come accadde per i vostri meridionali al Nord».
Che segni ha lasciato l’emigrazione nella coscienza albanese?
«Non la considero una tragedia. L’emigrazione è un percorso per nutrirsi d’esperienze e culture diverse. Centinaia di migliaia d’albanesi in Italia non sono un dramma. Tutti i più grandi popoli ci sono passati. Se voi italiani non aveste avuto l’emigrazione dei vostri nonni, non avreste le conoscenze e lo sviluppo di oggi».
Qui non la pensano tutti così. E il governo italiano plaude alla scelta inglese di deportare gli immigrati in Ruanda…
«Gli inglesi si sono un po’ persi. La loro politica mi pare lost in translation, perché alla fine soffrono anche loro il processo irreversibile d’invecchiamento di tutti i Paesi sviluppati: avranno sempre più bisogno d’una manodopera che non nasce e che dev’essere importata. Bisogna regolare i flussi, certo. Ma le pare una soluzione intelligente, deportare chi viene a offrire manodopera?».
(da Il Corriere della Sera)

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CHI SOFFIA SUL FUOCO, PRIMA O POI SI BRUCIA: NETANYAHU, PUR DI CONTINUARE A GOVERNARE, HA NOMINATO MINISTRI PERSONAGGI IMPROBABILI DELL’ESTREMA DESTRA, COME ITAMAR BEN GVIR O AMICHAI ELIYAHU (CHE HA INVOCATO LA BOMBA NUCLEARE), CHE VOGLIONO INVADERE LA CISGIORDANIA E SPIANARE GAZA

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

IL DURISSIMO EDITORIALE DI “HAARETZ”: “IL PRIMO MINISTRO NON È LA SOLUZIONE, MA IL PROBLEMA. DURANTE I SUOI ANNI AL POTERE, ISRAELE È DIVENTATO PIÙ ESTREMISTA, E COLORO CHE UN TEMPO ERANO AI MARGINI DELLA SOCIETÀ SONO ORA MINISTRI”

L’affermazione di domenica scorsa del ministro del Patrimonio, Amichai Eliyahu (partito Otzma Yehudit), che sganciare una bomba nucleare sulla Striscia di Gaza è un’opzione, è senza dubbio una delle più incendiarie dell’ultradestra che siede nel governo del primo ministro Netanyahu, ma ciò che colpisce è piuttosto il potere e la legittimità di cui gode oggi, in tutto Israele e nel governo, l’estrema destra kahanista, messianica ebraica, che sostiene l’annessione e l’occupazione della Cisgiordania intera, che vede la guerra attuale come un’opportunità e disprezza la comunità internazionale, le sue istituzioni.
Il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir (discepolo del rabbino razzista Meir Kahane, cacciato 30 anni fa dalla Knesset per istigazione all’odio), fa distribuire armi alle milizie dei coloni e invita la Hilltop Youth (i giovani religiosi-nazionalisti estremisti e intransigenti che stabiliscono gli “avamposti”) ad andare a occupare tutte le sommità delle colline.
Con questo governo i coloni hanno iniziato a mettere gli occhi sull’Area B della Cisgiordania, che secondo gli accordi di Oslo è sotto il controllo di sicurezza israeliano mentre quello civile è palestinese.
Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) ha fatto bloccare i trasferimenti delle tasse percepite da Israele sulle merci importate dalla Giordania e destinate alla Cisgiordania (l’intesa è parte degli Accordi di Oslo). Sono circa 300 milioni di dollari al mese con i quali l’Anp paga i dipendenti pubblici in Cisgiordania e sostiene le spese delle municipalità.
Bloccare questi fondi significa lasciare senza stipendio migliaia e migliaia di persone, soffiare sul fuoco del malcontento già estremamente forte e rabbioso contro una Anp stanca e svuotata politicamente di significato.
Eliyahu, figlio di un noto rabbino estremista, non è un’eccezione nel governo. Il suo collega di partito, il deputato Yitzhak Kroizer, ha detto domenica alla radio dell’esercito che “la Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo e dovrebbe esserci una condanna per tutti lì: la morte. Dobbiamo cancellare Gaza dalla mappa. Non ci sono innocenti lì”.
Intere fasce del governo condividono queste posizioni, oltre a Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir ci sono Simcha Rothman (“Deportiamo i palestinesi nel Sinai”), Orit Strock, Avi Maoz, Zvi Sukkot – un colono estremista arrestato più volte in passato e attenzionato dallo Shin Bet adesso nominato sotto-commissario per la Cisgiordania – e Limor Son Har-Melech. Solo per nominare i più presenti e attivi sui social media e alla sera nelle tv israeliane.
La risposta del premier Benjamin Netanyahu a questa progressiva sbandata è stata debole, così come il suo rifiuto di fermare i nuovi insediamenti nei Territori occupati pone la domanda di chi sia veramente al volante, chi abbia il controllo del governo. Al ministro Amichai Eliyahu sarà impedito di partecipare alle riunioni di governo. Una sospensione, come per un alunno indisciplinato. Bibi avrebbe dovuto cacciarlo, ma ha scelto di non farlo. Ha dato priorità alla salvezza del suo governo e di se stesso piuttosto che alla sicurezza di Israele.
“Il primo ministro Benjamin Netanyahu – scriveva ieri Haaretz nel suo editoriale – non è la soluzione, ma il problema. Ha legittimato il kahanismo e l’estrema destra. Durante i suoi anni al potere, Israele è diventato più estremista, e coloro che un tempo erano ai margini della società per la loro visione messianica sono ora importanti ministri. Idee e valori che prima erano al di fuori del consenso, come il trasferimento degli arabi da Israele, sono stati normalizzati sotto la leadership irresponsabile di Netanyahu”.
Infatti i “giovani delle colline”, i coloni più estremisti, sono passati dall’essere obiettivi dell’intelligence del servizio di sicurezza Shin Bet per il loro estremismo, appunto, a servire adesso come ministri, deputati della Knesset, assistenti e consiglieri. Per loro è arrivato il momento decisivo, liquidare il problema palestinese una volta per tutte.
(da Il Fatto Quotidiano)

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CONCORDATO PREVENTIVO, IL TRIBUTARISTA: “E’ UN PATTO CRIMINALE TRA FISCO ED EVASORI”

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

“DECRETO MAL SCRITTO, NON SI POTRA’ INDIVIDUARE CHI CERCA DI FRODARE”

Un testo “palesemente incompleto, scarso sotto il profilo tecnico”. E con contraddizioni tali che gli stessi addetti ai lavori faticano a immaginare come potrà funzionare in concreto il concordato preventivo biennale con il fisco, cioè la possibilità per partite Iva e pmi di accordarsi preventivamente con l’Agenzia delle Entrate sui propri redditi dei due anni successivi e pagare le tasse a forfait. Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario alla Luiss, boccia senza appello il decreto che ha ottenuto venerdì scorso il primo via libera in consiglio dei ministri. E che la premier Giorgia Meloni ha presentato con il solito refrain del fisco amico, definendolo “uno strumento che aumenta la collaborazione e rappresenta un segno di fiducia dello Stato verso i contribuenti”.
Di chiaro, spiega il tributarista di lungo corso, c’è solo il disegno che sta dietro la norma voluta dal viceministro con delega al fisco Maurizio Leo: “Un pactum sceleris (patto criminale ndr) improntato al realismo. Di fatto si propone a 2 milioni di contribuenti di pagare le tasse su un reddito un po’ più alto rispetto a quello dichiarato in passato, che si dà per scontato fosse sottovalutato, e in cambio gli si promette che saranno lasciati in pace”. Insomma, si istituzionalizza una quota di nero? “Si strizza l’occhio ad alcune categorie, dicendo che possono continuare a evadere una parte del dovuto a patto che versino una cifra certa. Così lo Stato stabilizza il gettito e l’Agenzia non è costretta a fare milioni di accertamenti, che non riuscirebbe a gestire. Fino a qui non mi scandalizzo: l’appeal dello strumento sta proprio in questo. Ma il punto è che mancano troppi tasselli perché l’architettura stia in piedi”.
I dubbi riguardano in particolare le cause di decadenza, cioè i casi in cui si perde il beneficio del patto biennale con le Entrate. La prima fattispecie citata dal decreto è quella in cui “a seguito di accertamento” risulta che negli anni del concordato o in quello precedente non sono state dichiarate al fisco (l’obbligo di dichiarazione infatti rimane) attività per un valore superiore al 30% dei ricavi “emersi”. Al netto del fatto che in questo modo si legittima, appunto, una modica quantità di evasione, non è dato capire da quali controlli potrà emergere quell’infedeltà fiscale. Secondo Di Tanno quelli ordinari, basati sulle dichiarazioni e la contabilità, devono considerarsi automaticamente esclusi per chi ha aderito al patto visto che il reddito del biennio risulta a quel punto già definito. “Dovrebbero di conseguenza essere molto valorizzati quelli induttivi, che partono dallo squilibrio tra entrate dichiarate e spese: per esempio hai dichiarato 20mila euro ma ti compri una Ferrari. Invece l’articolo 34 dice che non possono essere effettuati “salvo che ricorrano le cause di decadenza” di cui sopra”. Che a questo punto diventano però assai ardue da verificare.
Non è finita: “Un altro articolo, il 19, salva l’accertamento induttivo attraverso il richiamo a un’altra norma”, quella sui benefici già previsti per i contribuenti più virtuosi tra quelli soggetti agli Indici sintetici di affidabilità fiscale. Tra le premialità a cui hanno diritto, e di cui l’articolo 19 prevede l’applicazione anche a chi accetta la proposta di concordato, non c’è infatti l’esclusione dagli accertamenti induttivi puri. Contraddizioni che, se lo schema di decreto non sarà emendato, potrebbero tradursi nell’impossibilità di individuare almeno chi “ha mentito troppo” al fisco anche rispetto all’elevata soglia di tolleranza stabilita dal testo, riassume Di Tanno. “Manca di fatto lo strumento tecnico per contestare la causa di decadenza. Spero che nel passaggio nelle commissioni parlamentari venga sollevata questa critica e il governo rimedi”.
“Pare di capire che gli accertamenti potranno riguardare l’Iva e i dati comunicati ai fini dell’elaborazione della proposta” di concordato, ragiona dal canto suo Alessandro Santoro, docente di Scienza delle finanze all’università Bicocca e dal 2021 presidente della Commissione che scrive la relazione sull’economia sommersa e l’evasione. “Qui però vedo due rischi alternativi. Se questi accertamenti saranno percepiti come effettivamente possibili, allora la convenienza ad aderire risulta ridotta. Se, invece, non saranno percepiti come tali, l’Agenzia dovrà tenerne conto nella formulazione della proposta, che dovrà essere adeguatamente più elevata rispetto al reddito dichiarato“. Perché a quel punto i contribuenti potenzialmente coinvolti, senza lo spauracchio dell’accertamento, saranno ulteriormente incentivati a nascondere una fetta di ricavi. Si parla, va ricordato, dei titolari di partita Iva: la categoria per la quale si registra di gran lunga la maggiore propensione a pagare meno imposte del dovuto.
(da Il Fatto Quotidiano)

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L’EUROPA ESAMINERA’ IL PRESUNTO PIANO ITALIA-ALBANIA SUI MIGRANTI, MA UN DOCUMENTO HA GIA’ BOCCIATO I CENTRI IN PAESI EXTRA UE

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

IL DOCUMENTO DEL 2018

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha presentato ieri il protocollo con l’Albania sulla gestione dei migranti, che prevede la realizzazione di due centri in Albania, dove l’Italia potrà accogliere fino a 3mila migranti al mese, 36mila all’anno.
In base all’accordo, dalla primavera del 2024, i migranti messi in salvo nel Mediterraneo dalle navi italiane, come quelle di Marina e Guardia di finanza – non quelli salvati dalle Ong – saranno dunque trasferiti in Albania. Come sottolineato dalla premier Meloni, l’accordo tra Roma e Tirana non si applicherà a minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili.
Nelle due strutture, dove saranno impiegati personale, forze di polizia e Commissioni d’asilo italiani, i migranti staranno “il tempo necessario per le procedure. Una volta a regime, ci potrà essere un flusso annuale di 36-39 mila persone”, ha detto Meloni. La giurisdizione sarà italiana, mentre Tirana collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e la sorveglianza esterna delle strutture.
La Commissione europea ha richiesto ulteriori dettagli all’Italia in merito all’accordo siglato: “Siamo in contatto con le autorità italiane perché abbiamo bisogno di vedere i dettagli” dell’accordo, ha detto la portavoce della Commissione UE per gli Affari interni Anitta Hipper, durante l’incontro quotidiano con la stampa. La portavoce ha anche fatto sapere che l’Italia aveva informato la Commissione europea dell’annuncio che avrebbe fatto, ma senza fornire i dettagli dell’accordo. La portavoce ha evidenziato come “dalle prime informazioni” l’accordo Italia-Albania non sembra uguale al caso dell’accordo UK-Ruanda.
La portavoce ha poi precisato che le richieste di asilo possono essere fatte nel territorio di uno Stato membro, così come al confine o in acque territoriali. “In ogni caso – ha precisato Hipper – questo deve essere fatto senza alcun pregiudizio per la richiesta di asilo UE”. Inoltre, secondo la portavoce della Commissione europea se il salvataggio avviene in acque nazionali deve essere applicata la legge europea sull’asilo; mentre se il salvataggio avviene in acque internazionali lo Stato membro è obbligato a rispettare gli obblighi internazionali, compreso il principio di non-refoulement, che vieta respingimenti o espulsioni verso Paesi non sicuri.
Le criticità dell’accordo verranno quindi esaminate a breve dalla Commissione Ue, ma è possibile prevedere quale sarà l’orientamento di Bruxelles, sulla base di un documento dell’esecutivo Ue del 2018, che affronta la fattibilità giuridica e pratica di tre diversi scenari di sbarco.
In particolare il terzo scenario esaminato si concentra sul ‘Trattamento esterno delle domande di asilo e/o procedura di rimpatrio in un Paese terzo’, che è appunto il caso previsto dall’accordo siglato con il governo albanese.
La Commissione nel documento dice che l’esternalizzazione delle frontiere, con la possibilità per i richiedenti asilo di fare domanda d’asilo nei Paesi terzi presenta diversi problemi, primo fra tutti il rischio di violare il principio di non respingimento:
Rispedire un richiedente asilo in un Paese terzo senza esaminare la sua domanda di asilo costituisce respingimento e non è consentito ai sensi del diritto comunitario e internazionale. Quando si trova nel territorio dell’UE (o alle frontiere esterne dell’UE) una persona che fugge da guerre o persecuzioni ha il diritto di fare domanda di asilo. Quando si è al di fuori dell’UE, non esiste tale diritto.
L’unico modo per ottenere lo status di rifugiato al di fuori del L’UE è quindi il reinsediamento. Consentire alle persone di fare domanda di asilo al di fuori dell’UE richiederebbe l’applicazione extraterritoriale del diritto dell’UE che attualmente non è né possibile né auspicabile.
L’unico modo in cui questo potrebbe funzionare sarebbe quello di istituire un sistema di asilo dell’UE e tribunali dell’UE per trattare le richieste di asilo, insieme a una struttura di ricorso a livello dell’UE.
In tal caso dovrebbe anche esistere un sistema di distribuzione dei richiedenti asilo tra Stati membri. Oltre a richiedere una grande trasformazione istituzionale, risorse sostanziali dovrebbero essere assegnate a questi nuovi tribunali e organismi dell’UE in materia di asilo.
Anche l’ipotesi della creazione di centri per il rimpatrio situati in Paesi terzi viene bocciata dalla Commissione europea, nel documento del 2018. Vediamo perché:
“Non è possibile, ai sensi del diritto dell’Unione europea, spedire qualcuno, contro la sua volontà, in un paese che non sia un Paese di transito o di origine. Un accordo con un Paese terzo sarebbe un presupposto necessario per l’attuazione di questo scenario. Il rischio di violazione del principio di non respingimento è elevato, sottolinea la Commissione.
(da Fanpage)

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POLIZZE COSTOSE E AIUTI DI STATO

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

ECCO PERCHE’ IN ITALIA SOLO IL 5% DI CASE E PICCOLE IMPRESE E’ ASSICURATO CONTRO I DANNI DA EVENTI ESTREMI

Le alluvioni che la scorsa settimana hanno messo in ginocchio la Toscana (e non solo) hanno riacceso i riflettori sul tema delle polizze assicurative contro gli eventi meteo estremi. Secondo le stime dell’Agenzia europea per l’Ambiente, tra il 1990 e il 2021 l’Italia ha fatto registrare 92 miliardi di euro di danni. Un bilancio che, complici i cambiamenti climatici, è destinato a peggiorare anno dopo anno. Eppure, soltanto una minima percentuale di case e aziende risulta assicurata contro questo genere di eventi. Lo dimostrano i dati elaborati da Ania, l’Associazione nazionale imprese assicuratrici. A giugno 2022, soltanto il 7% delle aziende ha stipulato una polizza per i rischi naturali e climatici. E se si prendono in considerazione le abitazioni, le cose vanno anche peggio, con la percentuale di assicurati che scende al 5,3%. Ed è proprio per far fronte a questa situazione che il governo ha attuato – con la legge di bilancio – un provvedimento per rendere le polizze contro i danni catastrofali obbligatorie per le aziende. Una misura che, seppur in termini leggermente diversi, avevano provato ad approvare anche Silvio Berlusconi e Mario Monti, senza mai però arrivare a un provvedimento vero e proprio.
Il confronto con l’Europa
Secondo uno studio della Bce, l’Italia è il secondo Paese europeo dopo la Grecia con il più ampio gap assicurativo in tema di catastrofi naturali. Per dirla in altre parole, la maggior parte dei danni legati agli eventi meteorologici estremi non è protetta da un’assicurazione. In Francia e in Spagna, tra il 1980 e il 2020, sono stati assicurati tra il 20 e il 35% dei danni derivanti da eventi naturali. E in Germania la percentuale sale addirittura tra il 35 e il 50%. L’Italia, invece, fa parte di quei Paesi dove la percentuale di danni da eventi estremi coperti da una polizza assicurativa non supera il 5%. Un esempio recente viene dalle alluvioni che lo scorso maggio hanno colpito l’Emilia-Romagna. In quel caso, segnala un rapporto dell’azienda Munich Re, solo un miliardo di euro di danni era coperto da una polizza assicurativa, su un totale di 9 miliardi.
La situazione in Italia
Stando alla classifica del Global Domestic Climate Risk, oltre l’80% delle abitazioni civili in Italia – poco più di 35 milioni – è esposto a un livello di rischio medio-alto per frane, alluvioni o erosione costiera. Eppure, i dati sulla copertura assicurativa non riflettono questa situazione. Il 44,2% delle case risulta coperto da un’assicurazione contro gli incendi, che è obbligatoria in caso di stipulazione di un mutuo. Mentre se si considerano le calamità naturali, la percentuale di abitazioni coperte da una polizza crolla al 5,3%. Guardando al mondo delle imprese, la situazione è più variegata. Se si considerano le aziende «grandi», ossia con più di 250 dipendenti, il 78% risulta coperto da un’assicurazione per rischi naturali e climatici. Tra le imprese medie (50-249 dipendenti) la percentuale scende al 67% e tra le imprese piccole (10-49 dipendenti) al 55%. Il vero problema riguarda però le «imprese micro», ossia quelle con meno di dieci addetti, che rappresentano il 95% del tessuto imprenditoriale italiano ma vedono un tasso di copertura assicurativa contro i rischi climatici del 5%
Perché in Italia i dati sono così bassi
Ma perché in Italia ci si assicura così poco contro le calamità climatiche? Innanzitutto, va fatta una distinzione tra due diverse polizze assicurative: quelle per gli eventi naturali e quelle per le catastrofi naturali. Le prime comprendono i danni derivanti da grandini, forte vento, fulmini. Le seconde si riferiscono invece a terremoti, alluvioni, frane, inondazioni, esondazioni. Queste ultime sono le polizze assicurative meno diffuse nel nostro Paese, innanzitutto per una ragione economica. «Spesso solo le grandi aziende fanno assicurazioni catastrofali perché sono le uniche che possono permettersi di pagare premi più consistenti», spiega Fabio Scansetti, vicepresidente di Aiped (Associazione italiana periti estimatori danni). Per quanto riguarda le abitazioni, invece, «la compagnia assicurativa spesso non si assume un rischio così elevato. O se lo fa – precisa Scansetti – i contratti prevedono franchigie molto alte». Già allo stato attuale, infatti, tra le aziende assicurative cominciano a suonare i primi campanelli d’allarme. Nei giorni scorsi, il Sole 24 Ore ha rivelato che per la prima volta dopo decenni il settore potrebbe chiudere l’anno avendo elargito più risarcimenti di quanto ha incassato. C’è poi un altro fattore che contribuisce a spiegare la scarsa diffusione di queste polizze in Italia. E ha a che fare con l’idea piuttosto diffusa secondo cui, in caso di eventi estremi, il governo sia pronto a compensare le perdite di cittadini e imprese. Anche nel caso delle alluvioni in Emilia-Romagna, con danni stimati di circa 9 miliardi di euro, l’esecutivo si è impegnato a risarcire «il più possibile, con l’obiettivo del 100 per cento»
Lo scontro politico sull’assicurazione obbligatoria per le imprese
Con la legge di bilancio si è tornati a parlare di polizze obbligatorie per le aziende contro i danni catastrofali. Il governo ha, infatti, stabilito che entro la fine del 2024 ogni impresa si doti di una polizza assicurativa contro le calamità naturali. Un provvedimento su cui le opposizioni promettono battaglia, a partire dal portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli, che parla di «un grande regalo alle società assicuratrici italiane». Per incentivare questa misura, scrive Il Fatto Quotidiano, l’esecutivo prevede uno stanziamento di 5 miliardi all’anno per il triennio 2024-2026, che verrà messo a disposizione di Sace – una società partecipata dal Mef – per condividere con le aziende gli oneri in caso di disastri. Qualora le compagnie assicurative si rifiutassero di offrire polizze catastrofali, per esempio nelle aree a maggior rischio, la sanzione prevista è piuttosto salata e va da 200mila a 1 milione di euro.
(da agenzie)

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INTERVISTA A ELLY SCHLEIN: “PACE, GIUSTIZIA SOCIALE E CRESCITA VERDE: PERCHE’ SCENDIAMO IN PIAZZA”

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

IL PD TORNA AD ORGANIZZARE UNA MANIFESTAZIONE NAZIONALE DOPO 10 ANNI

”Sai da quant’è che il Partito Democratico non organizza una manifestazione nazionale?”, chiede Elly Schlein, mentre si aggiusta il microfono sulla giacca, prima che l’intervista inizi.
“Sono dieci anni”, si risponde da sola mentre si accomoda sulla poltroncina negli studi della redazione di Fanpage.it.
Più che un’adunata di partito, quella di Roma a Piazza del Popolo, il prossimo sabato 11 novembre, sembra più un’operazione chirurgica per ricucire una ferita: “In questi anni probabilmente si è smarrito un po’ l’identità del nostro partito – spiega la segretaria del Pd, appena si accendono le telecamere -, ma il primo impegno che ci siamo presi quando ci siamo candidati alle primarie è proprio quello di ricostruirla. E di ricostruire un rapporto di fiducia con le persone che ci votano e quelle che hanno smesso di votarci. L’invito per la piazza è anche, forse soprattutto per loro. Per tornare, insieme a loro, a credere nel Partito Democratico.
Credere a cosa? Di cosa parlerete, dal palco di Piazza del Popolo?
Credere che un’alternativa c’è, a Giorgia Meloni e alle sue politiche sbagliate.
Ad esempio?
Ad esempio, è una piazza che vuole difendere la sanità pubblica dai tagli del governo. sta facendo. Tagli che poi si sostanziano in meno servizi per le persone, ma anche nella carenza di personale. Il governo minimizza, dice che basta far lavorare di più l personale esistente. Ma oggi il personale sanitario fa già turni massacranti e rischia il burnout.
Voi cosa avreste fatto, al posto loro?
Noi abbiamo chiesto di sbloccare nuove assunzioni per potere riempire i reparti. Così come del resto abbiamo chiesto di aumentare le risorse per la scuola pubblica., che è la prima grande leva di emancipazione sociale e per la quale il governo di Giorgia Meloni non ha messo nulla in manovra. Per loro il diritto allo studio è come se non esistesse.
Ok, ma con quali soldi?
Con quelli che ci sono, che vanno usati meglio.
Cioè?
Cioè evitando misure che strizzano l’occhio agli evasori, spendendo meglio quello che c’è. Faccio un esempio: In questo Paese si spendono ogni anno 22 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi. E poi ci sono tantissime agevolazioni fiscali da razionalizzare, c’è contrastare seriamente l’evasione fiscale. Noi stiamo facendo una grande battaglia, anche europea, per contrastare l’evasione dei grandi gruppi multinazionali che sottraggono risorse importanti da investire nella ricerca, nell’innovazione, nell’accompagnamento della conversione ecologica. E anche nei servizi pubblici fondamentali come la sanità. E invece loro, anziché recuperare quei soldi, fanno giochi di prestigio coi numeri per far credere alla gente che i tagli non ci sono.
In effetti, questo è quel che dicono…
Questo è quel che dicono loro. Ma tutti gli esperti, guardando i numeri, dicono altro, che c’è una riduzione del Fondo sanitario nazionale, che si traduce in un taglio dei servizi. E non sono solo gli esperti. Lo dice anche lo stesso ministro della Salute, che chiedeva di mettere più risorse in manovra. E lo dicono anche alcune regioni governate dal centrodestra chiedono di mettere sulla sanità pubblica almeno il 7,5 del Pil, dopo che l’hanno chiesto l’Emilia Romagna, la Toscana.
Se tutti chiedono più soldi nella sanità, anche all’interno della maggioranza, perché il governo la taglia?
Perché hanno in testa un altro modello di sanità: quello per cui chi ha il portafoglio gonfio può andare direttamente dal privato saltando le liste d’attesa. E chi non ha questa possibilità cosa fa? Rinuncia a curarsi? Noi non lo possiamo accettare. Anzi, vorremmo vedere un miglioramento della sanità pubblica perché non era perfetta neanche prima.
E come la cambiereste, voi?
La pandemia dovrebbe aver insegnato che non basta avere degli ospedali di qualità. Bisogna avere una sanità territoriale, cioè più prossima, più vicina alle case dei cittadini. Le case della comunità servono a questo. E non è un caso se il governo le sta tagliando nel Pnr perché non ci crede. E se ascoltiamo le giovani generazioni, cosa chiedono? Chiedono anche un forte investimento sulla salute mentale. Ma per unire le generazioni potremmo dire: più risorse sulla salute mentale, ma anche più risorse sulla non autosufficienza. Perché è una vergogna che il governo non abbia messo 1 euro per i servizi alle persone non autosufficienti e per aiutare le loro famiglie.
Tra l’altro in manovra c’è anche questa norma che dovrebbe decurtare le pensioni agli operatori sanitari. Molti dicono che incentiverà l’uscita precoce di molti operatori sanitari…
Sulle pensioni si sta svelando il tradimento di tutte le promesse elettorali che ha fatto questa destra. Perché hanno tuonato per anni contro la Fornero e poi arrivano loro tagliano le pensioni dei dipendenti pubblici, riescono a restringere i requisiti per uscire anticipatamente, colpendo una volta ancora più duramente le donne sui requisiti di opzione donna. Sono il contrario di quello che raccontavano di essere. Ma gli italiani non si faranno prendere in giro, vedranno chiaramente quello che stanno facendo.
Parliamo di lavoro: il governo ha messo buona parte dei soldi della legge di bilancio sul taglio del cuneo fiscale, che era anche una delle proposte del Partito democratico nella scorsa campagna elettorale. Almeno su questo siete d’accordo con Giorgia Meloni o avreste fatto una manovra diversa?
In tema lavoro, noi chiedevamo che il taglio del cuneo fosse strutturale. Questo dura solo un anno. E sfatiamo un altro mito: non hanno aggiunto un euro rispetto alla scorsa legge di bilancio. Hanno semplicemente prorogato quel che c’era già. La stessa cosa la fanno sulla riforma dell’Irpef, che alla fine dei conti si tratta di un intervento a pioggia, per cui si risparmieranno 14 euro di tasse al mese per un anno. È una manovra senza visione del futuro, che non aiuta la crescita.
Anche qui: cosa avreste fatto voi?
Ci sono delle misure che si possano adottare a costo zero, ad esempio quella sul salario minimo su cui tutte le opposizioni hanno fatto una proposta unitaria che chieda di rafforzare i contratti collettivi, ma anche di dire che sotto i 9 euro non è lavoro, è sfruttamento e questa si potrebbe adottare domattina.Su questo stiamo ancora aspettando una risposta da parte di Giorgia Meloni, che non ha neanche il coraggio di dire no.
Il salario minimo, ok. E poi? Come si fa ripartire un’economia che è tornata a essere il fanalino di coda dell’Unione Europea?
Serve un nuovo modello di sviluppo che trova un equilibrio necessario con il pianeta. E da questo punto di vista gli investimenti che servono sono quelli che accompagnano le imprese nella conversione ecologica. Faccio un esempio concreto: noi faremo un emendamento per proporre che su tutti i tetti degli edifici industriali e commerciali si possano incentivare le pose dei pannelli solari.
C’è chi dice che la lotta al cambiamento climatico sia contro la crescita economica…
Chi lo dice, sbaglia. Anche le imprese hanno capito che è conveniente investire nell’efficienza energetica, nell’energia rinnovabile perché risparmi in bolletta oltre a ridurre il danno che stiamo facendo all’ambiente. Abbiamo fatto delle proposte ascoltando il mondo produttivo e anche il mondo sindacale. Ad esempio sul credito d’imposta che deve tenere insieme gli investimenti green, gli investimenti tecnologici, ma anche la formazione di lavoratrici e lavoratori. Perché senza le competenze non staremo al passo delle grandi trasformazioni che stanno sconvolgendo il mondo del lavoro e la trasformazione digitale e quella ecologica richiedono di lavorare per le professionalizzazione lavoratrici e lavoratori per formare le competenze adeguate. Di tutto questo non c’è traccia in legge di bilancio, e non solo: stanno al governo da un anno e non abbiamo visto uno straccio di piano industriale per far stare l’Italia a testa alta.
In teoria, il piano industriale dell’Italia dovrebbero essere i progetti del Pnnr…
Il Pnnr sta frenando perché per dieci mesi loro, con la loro confusione, hanno creat incertezza su chi lo deve attuare. Parlo dei Comuni, ad esempio, a cui hanno tagliato 13 miliardi di progetti. Parlo anche delle imprese. Hanno passato dieci mesi a dire che doveva essere modificato. E poi abbiamo scoperto che le modifiche erano tagli. E non sono solo soldi: qui c’è in gioco anche la nostra credibilità come sistema Paese, e la costruzione del nostro futuro: come si fa una vera conversione ecologica che non sia green washing che aiuti davvero a ridurre le emissioni inquinanti? Come facciamo ad accompagnare la transizione digitale in un Paese che è ancora molto indietro e che potrebbe aiutare le piccole e medie imprese, invece ad aprirsi a opportunità più vaste? Di tutto questo non c’è traccia, perché a loro non interessa cambiare il modello di sviluppo in questo Paese.
Quella dell’11 novembre, hai detto, sarà anche una manifestazione anche per la pace. L’ha detto l’inizio. Pace vuol dire ovviamente dire qualcosa di importante sulla guerra in atto a Gaza, tra Israele e Hamas. Cosa direte dal palco di Piazza del Popolo? Soprattutto, cosa risponderete a chi ti dice, a chi dice che chiedere il cessate il fuoco è implicitamente darla vinta da Hamas?
Non sono d’accordo su questo. Penso che la comunità internazionale debba insistere per un cessate il fuoco umanitario e per fermare questa strage di civili a Gaza. Sarebbe sbagliato fare un’equazione tra Hamas e il popolo palestinese. Sarebbe, questo sì, un enorme favore ad Hamas, che invece va isolata nel popolo palestinese e nel mondo arabo. Perché vediamo un rischio di allargamento di questo conflitto anche a livello regionale, per non dire di più.
Il cessate il fuoco serve a evitare che si allarghi il conflitto?
Non solo. Bisogna garantire l’arrivo di aiuti umanitari alla popolazione palestinese, che ha già sofferto moltissimo in questi decenni. Per il popolo palestinese, il diritto internazionale è stato poco più che un miraggio in questi anni. Noi continueremo a insistere per una soluzione di pace, quella dei due popoli e due Stati, quella in cui ci sono due Stati che hanno entrambi diritto ad esistere, a essere riconosciuti. E a vivere in pace.
(da Fanpage)

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LO STORICO CANFORA: “IL PREMIERATO DI MELONI? RICORDA IL PRIMO GOVERNO MUSSOLINI”

Novembre 7th, 2023 Riccardo Fucile

“NON SO COSA CI SIA DENTRO LA MENTE DEGLI AUTORI DI QUESTA RIFORMA”

“Giorgia Meloni dice che il premierato è la madre di tutte le riforme? È una metafora un po’ audace. Saddam Hussein sulla prima guerra del Golfo usò l’espressione “la madre di tutte le battaglie””. È l’ironica premessa che lo storico Luciano Canfora, ospite de L’aria che tira (La7), fa della sua analisi sul disegno di legge costituzionale proposto dalla ministra per le Riforme Elisabetta Casellati in merito all’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Canfora fa un parallelismo tra l’attuale esecutivo e il primo governo Mussolini: “Era un governo di coalizione con tanti partiti, come i popolari e i liberali. Le prime mosse che Mussolini fece furono due. Innanzitutto, volle cambiare la legge elettorale con la riforma Acerbo (con cui una lista di maggioranza con almeno il 25% dei voti avrebbe conseguito i due terzi dei seggi parlamentari, ndr). E questa legge era molto simile all’attuale riforma sul premierato – spiega – nel passaggio relativo al premio assegnato su base nazionale che assicura al partito o alla coalizione di partiti collegati al presidente del Consiglio il 55% dei seggi parlamentari. La seconda cosa che fece Mussolini fu il potenziamento del ruolo del capo del governo, che, secondo lo statuto albertino, era molto modesto rispetto a quello del sovrano. Naturalmente sto facendo un’analogia sui primi passi di allora e i passi che il governo Meloni vuole compiere adesso”.
Secondo lo storico, non è la stabilità la vera motivazione di questa riforma, come rivendicato da Casellati e dal governo Meloni: “La stabilità è uno pseudo-problema, perché De Gasperi fu presidente del Consiglio ininterrottamente attraverso una serie di crisi di governo che non erano per niente né catastrofiche, né rovinose per il paese – continua – Io invece credo che l’idea sottintesa di questa riforma sia un’altra: siccome la popolarità dell’attuale presidente del Consiglio è piuttosto elevata, la sua “speranzella” è quella di essere rieletta nel 2027. Però la storia è lunga e i cambiamenti possono essere epocali, per cui magari cambierà tutto”.
Canfora conclude: “L’aspetto serio è che non si può mettere mano alla Costituzione ignorando che esiste il capo dello Stato che della Costituzione è il garante. Il rischio di deriva autoritaria? È troppo presto per usare questa espressione, perché probabilmente il conato fallirà. Però – chiosa – cosa ci sia dentro la mente degli autori di questa iniziativa non si sa. Qui Alessandro Manzoni direbbe: ‘Chi può entrare nella testa di Ferrer?’”.
(da Il Fatto Quotidiano)

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