Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
GIA E’ UNA CAZZATA LA GIORNATA DEL MADE IN ITALY, MA CON TUTTI GLI ELICOTTERI AUGUSTA A DISPOSIZIONE PROPRIO UN BOEING CH47 CHINOOK AMERICANO BISOGNAVA FAR VOLARE?
Un grande elicottero dell’Esercito che sorvola il centro di Roma, con il suono del doppio rotore che scuote i palazzi. Lo hanno visto tutti, interrogandosi sulla ragione di quella missione per sventolare una colossale bandiera tricolore.
Semplice, si celebra la Giornata del Made in Italy. Non la conoscete? Perché è stata inventata soltanto un anno fa dal ministro dell’omonimo dicastero, Adolfo Urso, nella ricorrenza della nascita di Leonardo Da Vinci: “Un’occasione importante – ha dichiarato Urso – per evidenziare l’eccellenza, la creatività e l’ingegno che contraddistinguono i prodotti italiani nel mondo e per ispirare e coinvolgere le nuove generazioni alle professioni tipiche che ne sono a fondamento”.
Non è chiaro cosa c’entri l’elicotterone con tutto ciò, salvo conferire un tono da parata militare e da esibizione muscolare pure a un settore dedicato a pacifici piaceri della vita: dalla moda al design, dal cibo all’arte, per citare le parole dello stesso Urso.
Bisogna sottolineare che chi ha organizzato il volo patriottico ha fatto una scelta infelice: ha assegnato la missione all’unico elicottero straniero presente nelle squadriglie della Difesa.
Sì, l’Agusta del gruppo Leonardo è un marchio celebre ovunque e ha disegnato tutti i mezzi in servizio con le nostre forze armate, salvo quello mostrato nel cielo della capitale: un Boeing CH47 Chinook, ultima versione del peso massimo americano dell’aria.
Alla faccia del Made in Italy.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
GIAMPAOLO ROSSI, AD IN PECTORE, NON VUOLE NOMINARE UN DIRETTORE GENERALE (GLI È BASTATA L’URTICANTE DIARCHIA CON ROBERTO SERGIO) E IL LEGHISTA CIANNAMEA RISCHIA DI RIMANERE A GIOCARE CON I PALINSESTI)… STEFANO COLETTA ALL’INTRATTENIMENTO SE VA IN PORTO LA FUSIONE DAY-PRIME TIME DI MELLONE… IL DUELLO LEGHISTA TRA CASARIN E MARANO PER IL CDA … I FRATELLINI D’ITALIA SOTTOVALUTANO L’ADDIO DI AMADEUS: GLI AMERICANI DI DISCOVERY-WARNER BROS HANNO TANTI, TANTI SOLDI E SOPRATTUTTO NESSUN VINCOLO O EQUILIBRIO POLITICO DA RISPETTARE. RISCHIANO DI FAR MALE A RAI, MEDIASET E LA7
Mentre la casa va a fuoco, con l’addio di Amadeus a Viale Mazzini, i futuri vertici di Tele-Meloni stanno pianificando la Rai che verrà dopo le europee del 9 giugno (quando il governo metterà mano anche al dossier Cdp).
Dagli spifferi che arrivano da Viale Mazzini, l’ad in pectore, Giampaolo Rossi, non avrebbe alcuna intenzione di nominare un direttore generale, avendo già avuto modo di sperimentare le difficoltà di una diarchia con il democristiano Roberto Sergio. Rossi non vuole nemici nelle stanze dei bottoni, e la sua scelta getta un’ombra sul futuro di Marcello Ciannamea, che, stando all’accordo sulla Rai siglato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, doveva essere il dg in quota Lega.
Ciannamea potrebbe finire a fare il coordinatore dei generi, sostanzialmente tornerebbe a fare i palinsesti. Un ruolo che oggi compete a Stefano Coletta, al quale però Rossi vorrebbe affidare la gestione dell’intrattenimento, nel caso avvenisse l’evocata fusione tra Day Time e Prime Time, sotto Angelo Mellone.
Paolo Petrecca potrebbe passare alla direzione di Rai Sport e lasciare Rai News, dove ha operato con un eccesso di zelo meloniano che lo ha portato in rotta di collisione con la redazione.
Chi andrà nel cda Rai in quota Lega?
È una corsa a due, tra il direttore della Tgr, Alessandro Casarin, sponsorizzato da Igor De Blasio (già membro del cda della tv pubblica, molto vicino a Salvini e oggi Presidente di Terna), e l’eterno Antonio Marano, sostenuto da Alessandro Morelli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio a cui Salvini ha delegato la gestione dei dossier Rai.
Agli approfondimenti è dato in uscita Paolo Corsini, e la sua poltrona potrebbe passare alla Lega, nella persona di Angela Mariella, attualmente direttrice delle Relazioni istituzionali della Rai. Per lo stesso ruolo fa capolino anche Milo Infante, sponsorizzato dal governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga.
Dovrebbe restare alla guida delle fiction Maria Pia Ammirati, confermatissima Silvia Calandrelli a Rai Cultura (pur essendo vicina al Pd, ha sempre avuto buoni rapporti con Giampaolo Rossi e Giovanni Grasso, in quota Quirinale).
Ps. I dirigenti meloniani stanno sottovalutando l’addio di Amadeus, convinti che alla fine la forza pervasiva di Mamma Rai conterrà i danni dell’uscita del conduttore, ma questa precipitosa valutazione non tiene conto di due fattori.
Il primo: Amadeus avrà a disposizione nuovi format in arrivo dagli Stati Uniti. La proposta di intrattenimento di Warner Bros-Discovery non sarà la solita minestrina riscaldata rifilata ai tele-morenti dalla Rai.
Il secondo: a Warner Bros-Discovery non frega nulla della politica, né di strizzare l’occhio ai partiti. Per gli americani contano soltane share e incassi pubblicitari.
Questo approccio garantirà ad Amadeus una libertà creativa che né la Rai né Mediaset avrebbero mai potuto garantirgli. Tantomeno potrebbe riconoscergliela La7, il cui editore, Urbano Cairo, da proprietario del “Corriere della Sera”, è vincolato al rispetto di alcuni equilibri politici.
Ps/2. Si vocifera che Discovery stia per aprire un ufficio di rappresentanza a Roma
(da Dagoreport)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
SULLE ALLEANZE EUROPEE CON LA DESTRA ESTREMA, CHE RISCHIANO DI “ISOLARE LA LEGA” NELL’UE, ANCHE UN COCCO DI SALVINI COME LORENZO FONTANA HA AVUTO DA RIDIRE
Un anno e mezzo fa, sul principio di questa legislatura, ogni parlamentare leghista si definiva orgogliosamente “salviniano”. Partito granitico, «leninista», per dirla con Giancarlo Giorgetti, in cui il pensiero del leader plasmava quello delle sue truppe, senza sfumature. Disciplina militare e rispetto delle gerarchie. Ed è qui che ora si percepisce il dissenso.
Se prima si viveva secondo il principio dell’infallibilità del capo, adesso anche i più fedeli uomini di Matteo Salvini iniziano a correggerlo, a indicare vie alternative e, talvolta, persino a prendere platealmente le distanze dalla linea del partito. Meno Vannacci, meno destra estrema, meno Putin, e più Nord, più concretezza, più atlantismo: questo chiedono, di questo si lamentano.
Il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, da tempo vorrebbe un partito moderato, fermamente agganciato all’Alleanza atlantica, libero da ambiguità filorusse. Una direzione in cui si ritrovano leghisti dell’ultima ora come Nino Minardo, presidente della commissione Difesa alla Camera, e uomini della vecchia guardia come Giancarlo Giorgetti.
L’anima centrista della Lega si incontra così con i tanti che il Carroccio ha arruolato al Sud negli anni in cui ha lanciato il progetto di un movimento nazionale. In molti vantano una tradizione democristiana. Come il siciliano Minardo o il deputato campano Gianpaolo Zinzi (suo padre, Domenico, era sottosegretario ai tempi del secondo governo Berlusconi, in quota Udc). E faticano a trovarsi in sintonia con le esultanze per la vittoria elettorale di Vladimir Putin o con alleati europei di estrema destra, dai potoghesi di Chega alla tedesca AfD. Salvini ha provato a placare i mal di pancia siglando un’alleanza con l’Udc di Cesa alle Europee, ma è una toppa che terrà fino al giorno delle elezioni.
Sulle alleanze europee, che rischiano di «isolare la Lega» nell’Ue, anche un fedelissimo di Salvini come Lorenzo Fontana ha avuto da ridire. Il ruolo di presidente della Camera lo aiuta a tenersi distante, ma il cerchio intorno al segretario, così, inizia ad allentarsi. Gian Marco Centinaio, vice presidente del Senato, è uno degli ultimi ad essersi allontanato. La decisione del leader di blandire il generale Roberto Vannacci per candidarlo alle Europee non gli è andata giù, a lui come a mezzo partito.
(da La Stampa)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
CECILIA STRADA CAPOLISTA NEL NORD OVEST, LUCIA ANNUNZIATA AL SUD… LA MINORANZA RECLAMA LA RICANDIDATURA DELLE EUROPARLAMENTARI USCENTI ALESSANDRA MORETTI E ELISABETTA GUALMINI
Alla fine le liste del Pd per le Europee potrebbero essere decise all’ultimo momento. La direzione che doveva essere convocata per il 18-19 aprile sembra destinata a slittare a dopo il voto della Basilicata, forse il 23, se non addirittura dopo il 25.
La vicenda barese ha complicato un lavoro che già non era semplice e nemmeno la chiacchierata tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini di qualche giorno fa è bastata a sciogliere tutti i nodi.
Le liste vanno presentate tra il 30 aprile e il primo maggio, dunque ci sono ancora un paio di settimane di tempo, ma sono ancora diverse le questioni-chiave da risolvere, a cominciare dalla candidatura della segretaria.
Schlein ha sempre ripetuto che la decisione sulla sua corsa sarebbe stata presa solo alla fine del lavoro di composizione del puzzle, ma le ultime voci danno per probabile uno schema che è diverso da quello che era stato prospettato a marzo in segreteria e che aveva sollevato parecchie perplessità nel partito.
Se allora si parlava di cinque capolista presi dalla società civile, seguiti da figure di primo piano del Pd – con Schlein eventualmente terza in lista – adesso pare che la segretaria possa essere capolista nella circoscrizione centro e in quella delle isole. Resta però da capire se la leader sarà presente anche nelle altre circoscrizioni. Lei sarebbe di questo avviso, raccontano, magari inserendosi in lista secondo un criterio alfabetico, che la porterebbe a occupare posizioni nelle retrovie dove non è capolista.
Perché i parlamentari più vicini a lei insistono: con Schlein in lista il Pd prende più voti. Inoltre, c’è un altro buon motivo per schierare la segretaria ovunque: fare un pieno di preferenze, qualcuno spera un milione, per rinnovare la legittimazione della leadership certificata alle primarie di un anno fa.
Una strategia che comprende il duello Tv con Giorgia Meloni, che potrebbe essere doppio: uno a Porta a porta di Bruno Vespa e uno su Sky.
Ma Schlein in lista ovunque – è l’obiezione di un pezzo di partito,– inevitabilmente finirebbe per penalizzare gli altri candidati.
«Lei è la segretaria – ragiona un dirigente Pd – anche se fosse ultima in lista le preferenze andrebbero innanzitutto a lei. Questo penalizzerebbe persino i civici, pure la stessa Lucia Annunziata, candidatura di primo piano». E il discorso vale soprattutto per le donne candidate, di ogni “corrente”.
L’accordo per la candidatura di Bonaccini sembra invece ormai fatto, anche se ancora non viene ufficializzato perché il presidente del partito aspetta garanzie sui tanti aspiranti candidati della minoranza. Lui guiderà la lista nel nord-est, seguito da Annalisa Corrado, responsabile Green economy in segreteria e fedelissima di Schlein. Ma appunto la minoranza reclama anche la ricandidatura delle europarlamentari uscenti Alessandra Moretti e Elisabetta Gualmini.
Nel nord-ovest, invece, il posto da capolista dovrebbe spettare a Cecilia Strada, altra figura “civica”, seguita forse da Andrea Orlando, se l’ex ministro accetterà la proposta che gli è arrivata dalla segretaria e non sceglierà di puntare alle regionali della Liguria del prossimo anno.
In lizza ci sono anche Brando Benifei, attuale capodelegazione del Pd al Parlamento europeo, l’uscente Irene Tinagli e poi il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, tutte figure della minoranza.
Al centro, poi, c’è da realizzare un altro incastro non semplicissimo: dietro alla segretaria si contendono il posto di numero due in lista Nicola Zingaretti e Marco Tarquinio, l’ex direttore di Avvenire.
Hanno poi prenotato un posto i sindaci Dario Nardella (Firenze) e Matteo Ricci (Pesaro) e va comunque garantita la presenza a Camilla Laureti, europarlamentare uscente e vicina a Schlein.
In lista dovrebbero esserci anche Antonio Mazzeo, consigliere regionale della Toscana, e l’ex deputata Alessia Morani.
Quindi, al sud, dietro ad Annunziata e Antonio Decaro potrebbe trovare posto Pina Picierno, attuale vice-presidente del Parlamento europeo. Ma Schlein vorrebbe in lista anche Sandro Ruotolo, mentre la minoranza reclama un posto per Raffaele Topo.
Nelle isole, poi, dietro a Schlein potrebbe andare il senatore Pd Antonio Nicita. Quindi, potrebbero essere candidati Lidia Tilotta, giornalista di Rai3 impegnata sui temi dell’immigrazione, insieme a Pietro Bartolo, europarlamentare uscente e a Giuseppe Lupo.
(da La Stampa)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
I COSTI DI REALIZZAZIONE E GESTIONE DELLE STRUTTURE LIEVITANO FINO A UN MILIARDO DI EURO IN CINQUE ANNI
Inizio lavori 23 marzo, consegna prevista dopo 233 giorni, cioè il 10 novembre. Così si legge nella determina del ministero della Difesa che ha affidato al Genio militare la realizzazione dei centri per migranti in Albania. Che, però, stando alle intenzioni della premier Giorgia Meloni e soprattutto al bando per la gestione degli stessi centri, avrebbero dovuto aprire i battenti il 20 maggio
Al porto di Shengjin e nell’ex base militare di Gjader, i lavori stanno appena muovendo i primi passi, siamo ai sopralluoghi che per altro starebbero rilevando una serie di difficoltà nel territorio. Impossibile che i centri siano pronti per maggio, ci vorranno mesi, passerà tutta l’estate.
E, al di là della propaganda di governo, i primi documenti svelano il bluff dell’operazione Albania, i cui costi continuano a lievitare e rischiano di arrivare a sfiorare la cifra monstre di un miliardo di euro in cinque anni.
Perché alle cifre ufficiali, già elevatissime che ammontano a circa 150 milioni di euro all’anno moltiplicati per cinque anni, devono aggiungersi i costi non quantificabili: quelli rimborsabili a piè di lista, per i trasporti e la sanità e, per quel che riguarda le strutture i subappalti «senza limiti di spesa», come si legge appunto nella determina della Difesa.
Anche i costi per realizzare i due centri, l’hotspot nel porto di Shengjin e il centro di detenzione per richiedenti asilo da 880 posti, con un’ala destinata a Cpr (altri 144 posti) e un’altra a vero e proprio carcere (da 20 posti), a Gjader, sono da considerarsi un extrabudget.
I lavori affidati al Genio costeranno circa 65 milioni di euro. Soldi che, in parte, vengono prelevati da un disegno di legge che riguarda l’utilizzo dei fondi del Pnrr, come sottolineano i rappresentanti dell’opposizione.
Nei prossimi giorni il ministero dell’Interno aggiudicherà la gara da 36 milioni di euro a base d’asta per la gestione dei centri. All’esame ci sono le offerte delle tre imprese selezionate. Ancora da bandire invece quella per la fornitura dei moduli prefabbricati che saranno piazzati sulle aree quando il Genio e le imprese subappaltatrici avranno terminato di sbancarle, bonificarle, realizzare fogne e impianti, Senza limiti di spesa.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
IL DEF SMENTISCE LE PROMESSE ELETTORALI DEL GOVERNO E DELLA LEGA: LE PENSIONI ANTICIPATE, DALLA QUOTA 100 IN POI, NON SI POSSONO FARE
La spesa per le pensioni lievita e la colpa è soprattutto dei nuovi anticipi pensionistici, a partire dalla Quota 100. A scriverlo nel Def è lo stesso governo che da tempo afferma di voler superare la legge Fornero e di puntare a introdurre nuovi meccanismi di uscita anticipata dal lavoro.
Una promessa-richiesta su cui punta da anni la Lega. Ovvero proprio il partito di cui fa parte il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, colui che il Def l’ha scritto. Insomma, per Matteo Salvini le promesse elettorali sulle nuove quote per andare prima in pensione sono sempre più difficili da mantenere, se anche il suo stesso collega di partito scrive che sono costate troppe.
QUANTO SONO COSTATE LE PENSIONI IN ITALIA
L’aumento di spesa per le pensioni è stato di 70 miliardi in più in sei anni, come spiega il Sole 24 Ore. Un dato registrato tra l’inizio del 2019, con l’entrata in vigore della Quota 100, e quest’anno. A influire è anche, soprattutto in tempi più recenti, l’indicizzazione degli assegni previdenziali.
Ma non è ancora finita, perché il Def sottolinea che andrà persino peggio: fino al 2027 arriveremo a 99,6 miliardi di spesa in più. Le uscite per le pensioni arriveranno in totale a 368,1 miliardi, ovvero il 15,5% del Pil. Nel 2018 erano solamente 268,5 miliardi, ovvero il 15,2% del Pil. Già a fine 2024 si arriverà a quota 337,4 miliardi (15,6% del Pil), con una crescita del 5,8% rispetto a dodici mesi prima.
Se poi si considerano tutte le prestazioni sociali, come gli assegni alle famiglie e i sussidi, dalla fine del 2018 alla fine del 2024 l’aumento sarà di 98,6 miliardi, una cifra che salirà fino a 132,5 miliardi nel 2027.
IL SALASSO DELLE USCITE ANTICIPATE DALLA QUOTA 100 IN POI
Nel Def viene sottolineato come, fino a tutto il 2023, a trainare quest’aumento di spesa siano state soprattutto le misure per il pensionamento anticipato, ovvero la Quota 100 e tutti i suoi successori. A questo si aggiunge la preoccupazione riguardante la spesa per i costi di indicizzazione, in netto aumento nonostante l’adeguamento all’inflazione sia stato solo parziale.
Allo stesso tempo preoccupano tutti gli interventi del periodo 2019-2022, tra cui anche la stessa Quota 100. E anche nei prossimi tre anni le cose non andranno diversamente, con un costante aumento della spesa. Anzi, in futuro la situazione potrebbe persino peggiorare, considerando che è atteso un aumento del numero di pensioni con una diminuzione degli occupati a causa dell’andamento demografico del Paese.
(da lanotizuagiornale.it)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
“ISCRITTI AUMENTATI DEL 10%, LA GENTE PER STRADA MI CHIEDE UNITA’ DELLE OPPOSIZIONI, IO RISPONDO SOLO A LORO E LAVORO PER UN FRONTE COMUNE, NON PER GLI INTERESSI DI PARTE”
La segretaria del Pd Elly Schlein è intervenuta in conferenza stampa alla sede della Stampa Estera, all’indomani della crisi in Medio Oriente. Per la prima volta l’Iran ha sferrato un attacco massiccio contro Israele, che per il momento ha deciso di non reagire, ma ha assicurato che risponderà al momento opportuno. Il rischio escalation insomma è rientrato del tutto, anche se non sembra sia imminente una rappresaglia di Israele contro Teheran.
Schlein ieri ha convocato al segreteria nazionale del Pd, e ha offerto la sua collaborazione alla premier Meloni: “Credo che sia assolutamente fisiologico, in un momento di crisi e grande preoccupazione, chiamare il governo e interloquire anzitutto per uno scambio di prime informazioni e manifestare la preoccupazione del Pd, ma anche per offrire collaborazione per l’interesse del’Italia. Siamo allo scontro su tutto per quanto riguarda la politica interna, ma la contingenza internazionale così grave necessita che su questi temi dialoghiamo”, ha detto oggi Schlein. “Credo che sia importante che si trovi un terreno di dialogo, erano le primissime ore e la preoccupazione era forte”, ha aggiunto.”Ieri c’è stato un incontro del G7″, di cui l’Italia è anche presidente di turno, con “la richiesta di de-escalation” che “troviamo importante”.
“La richiesta al governo è fare tutto il possibile per contribuire ad una cessazione del conflitto e del fuoco”, ha detto ancora la segretaria dem intervistata alla Stampa Estera.
“Il Pd, sin dall’inizio di questa recrudescenza del conflitto, chiede con forza un cessate il fuoco, di liberare gli ostaggi e portare aiuti umanitari. È importante trovare un terreno di dialogo in politica internazionale”.
Il bilancio di Schlein dopo un anno alla guida del Pd
“In un anno dalle primarie abbiamo rialzato la testa, siamo tornati al 20%, non ho visto nessun altro partito crescere in questo modo”, ha detto la segretaria del Pd Elly Schlein durante la conferenza stampa. “Il numero di iscritti è aumentato di circa il 10%, il 2 per mille è aumentato. Siamo un partito sano. Per molto commentatori dopo le primarie eravamo alle porte di una inevitabile scissione. Oggi siamo il primo partito di opposizione, perno indispensabile per costruire qualsiasi alternativa alle destre”, ha aggiunto.
Con l’autonomia differenziata Meloni spacca l’Italia
Un passaggio anche sulle riforme del governo Meloni. Con l’esecutivo “siamo allo scontro su fondamentali costituzionali, dai “tagli alla sanità” alla “scuola”, dalla “autonomia” al “premierato”. “Con questa autonomia una sedicente patriota spacca in due l’Italia” e sempre lei “vuol cambiare la costituzione a colpi di maggioranza” con un “premierato” che “mette a repentaglio l’equilibrio tra i poteri”, ha detto ancora Schlein alla Stampa Estera. “Il ruolo del presidente della Repubblica non si tocca, e dire che non è stato toccato” in questa riforma “è una bugia”. Per Schlein la destra vuole “il modello dell’uomo o della donna sola al comando” ma “il paese ha già dato”.
Schlein: “Draghi alla guida della Commissione? Candidato è Schmit”
Al congresso del Pse “abbiamo lanciato la candidatura di Schmit e la sosteniamo con convinzione, questo non toglie la stima e la considerazione per Draghi, ma noi abbiamo un solo candidato che è Nico Schmit” alla presidenza della Commissione, ha detto Schlein, commentando l’ipotesi di una candidatura di Mario Draghi al vertice della Commissione Ue. Schlein non ha ancora sciolto ufficialmente la riserva sulla presenza del suo nome in lista per le europee: “No, stiamo ancora lavorando sulle liste, arriveremo a definizione in tempi brevi anche perché c’è scadenza a fine mese” ha detto rispondendo a chi le domandava se avesse deciso se correre per le elezioni di giugno.
Se Giorgia Meloni ha fissato al 26% l’obiettivo di FdI alle europee, la segretaria dem non vuole indicare un numero che la renderebbe soddisfatta: “Non sono appassionata di asticelle, portano jella”, ha detto parlando alla stampa estera. “Sarebbe un bel risultato se contribuissimo a recuperare parte delle persone che non stanno andando a votare”.
A che punto è lo scontro Pd-M5s
Schlein ha ammesso poi che tra lei e Conte non è tornato il sereno, dopo le inchieste giudiziarie in Puglia e in Piemonte, che hanno portato allo strappo del M5s: “Il Pd da un anno ha un obiettivo: ricostruire un’identità chiara e costruire un’alternativa alle destre. Non vorrei che fosse un problema solo mio e solo nostro ma una responsabilità anche delle altre forze di opposizione che dovrebbero aver chiaro che l’avversario è questo Governo. A noi interessa non perché ce lo abbia ordinato il dottore ma perché ce lo chiede la gente per strada. Io continuerò testardamente unitaria. Sicuramente qualche problema c’è, ma vorrei segnalare a chi dichiara morta la costruzione dell’alternativa, che in 4 su 5 regioni siamo andati insieme, in 22 comuni su 27 c’è l’alleanza. Non mi sembra così morta la costruzione dell’alternativa”.
Per Schlein per le comunali di Bari, dopo il ritiro della candidatura di Nicola Colaianni, non è ancora detta l’ultima parola, e il Pd vuole tentare di riunire il campo progressista, con il suo candidato, Vito Leccese: “Ho detto che noi siamo al fianco di Leccese, persona specchiata, per andar avanti. E abbiamo detto ‘siamo con te anche se vorrai tentare un dialogo per una strada unitaria’. Stanno discutendo”.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA CRITICA LA LINEA DI SALVINI, MA SENZA ARRIVARE MAI ALLA ROTTURA – HA CAPITO CHE NON DEVE TOCCARE QUELLO CHE INTERESSA ALLA MELONI… DA CONTE A DRAGHI, BOFONCHIA, NON SI ESPONE, È POI SI RITROVA SEMPRE AL CENTRO DEL GIOCO
Sentite qui, e ci vuole davvero una certa maestria nel galleggiare tra i marosi della scomunica bossiana e quelli della resistenza salviniana: «Grazie ai militanti e a Bossi, a Matteo che porta avanti questa battaglia, a Maroni che non c’è più». Ecco, grazie a tutti e arrivederci.
Lo fa capire proprio così Giancarlo Giorgetti, sollecitato dal Senatùr per la seconda volta in un mese, che non sarà lui a prendere di petto Salvini per riscattare l’onore del Nord e di quella Lega che del Nord vuole tornare a fare il sindacato scordandosi Marine Le Pen.
Del resto l’uomo, così facendo, è sopravvissuto a tutti i segretari (e pure a governi di segno opposto): senza mai contrastarne platealmente scelte sciagurate si è poi ritrovato, al giro dopo, come una Cassandra che aveva visto l’errore: Bossi spazzato via dalle scope, Maroni che con le scope spazza via tutti ma non lui, Salvini, di cui diventa, dopo Maroni, il vicesegretario e l’ideologo della svolta a destra.
L’anno prima era tra i saggi di Napolitano. E cinque anni dopo sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo più populista di sempre, che vara il reddito di cittadinanza smontato oggi dal Tesoro.
Poi il cosiddetto “governo dei migliori”, sempre in un conflitto a bassa intensità con Salvini. Lui, il segretario, gli rimprovera sia la fine del primo Conte, sia il sostegno a Draghi, mentre l’altro, il suo vice, gli imputa, nel primo caso, le modalità del Papeete e, nel secondo, un appoggio poco convinto proprio per andare dietro a Giorgia Meloni: «Matteo non capisce – vaticinò una volta – che verrà il momento, a un certo punto, in cui lei lo scavalcherà al centro». Ed è lì, sui dettami di Bruxelles, che si sono ritrovati entrambi fregando Salvini (e in fondo pure Draghi).
«Giancarlo non si tocca», dice lei a chi gli contesta il Loden. E lui non tocca ciò che lei vuole. Si è lasciato scippare, senza combattere, la gestione del Pnrr, passato interamente nelle mani di Fitto. Le nomine, dalla Guardia di Finanza alle prossime su Cdp e Ferrovie, le ha completamente delegate, per indolenza o calcolo, a Meloni e Salvini.
Meglio non mettersi in mezzo tra i litiganti, questione di galleggiamento, come non si mise in mezzo tra Draghi e il suo segretario, tra il suo segretario e i suoi amici, quasi tutti epurati dalle liste, e ora tra il suo segretario e i suoi oppositori interni. È stato Zaia, all’ultimo federale, a prenderlo di petto imputandogli il flirt coi nazisti tedeschi e pure Vannacci.
Giorgetti è rimasto in disparte. Bofonchia, non si espone, ma poi si ritrova sempre al centro del gioco, come se fosse un caso. Anche a via XX Settembre ci è arrivato per caso. Voleva fare il presidente della Camera, si è ritrovato alla scrivania di Quintino Sella, perché Panetta e Siniscalco dissero di no.
Quella gran furbacchiona di Giorgia Meloni lo incastrò lì per incastrare Salvini, che infatti lo vive come una specie di “ministro tecnico”. Mica male: un leghista, ma un po’draghiano, e bye bye flat tax, quota 100 e spesa facile. E solo un grande galleggiatore poteva mettere faccia e firma su un Def di galleggiamento
Potrebbe essere titolato «se ne riparla a settembre», neanche ci fosse un governo dimissionario: un gigantesco «boh» sulle misure da rifinanziare, eccetto lo scontato cuneo fiscale. Colpa del superbonus, ha spiegato, peccato sia diventato una “commedia degli equivoci”.
Scottato dai conti che qui non tornano poi, in Europa fa blocco con Visegrad contro l’edilizia green. E così galleggia pure tra l’europeismo sui conti e il sovranismo sulle case. Olé. Gli piacerebbe assai, a settembre, vestire i panni di Commissario europeo, anche se non lo dà a vedere con quell’aria da eterno burbero insoddisfatto, sempre stufo degli incarichi che ricopre dopo averli accettati come se fosse un sacrificio.
La volta scorsa dichiarò, sempre con indolenza, che fu lui a non voler fare il Commissario europeo. Le malelingue del suo partito raccontano che invece fu Salvini a non votare Ursula proprio per impedirglielo e tenersi le mani libere. A questo giro dissimula ma non nega proprio un bel niente
Non cercatelo se c’è da fare una battaglia, al partito o al governo. Vabbè, durante la convention sovranista ai Tiburtina Studios, ha bollato il Pnnr come «una montagna di debito soffocata da un mix micidiale di burocrazia italiana ed europea». Non male, detto dal ministro dell’Economia. Ma tanto se ne occupa Fitto, quindi la sparata è innocua, buona per compiacere Salvini.
Certo più innocua della bocciatura subita sul Mes. Lì non ha battuto ciglio nonostante fosse un po’anche la sua. Vuoi mettere a tornarci sul serio a Cazzago Brabbia. Ci sarà, potete scommetterci, anche col prossimo segretario della Lega.
(da La Stampa)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
ALLE EUROPEE CONTERANNO GLI “ACCHIAPPAVOTI”, RADICATI SUL TERRITORIO, CON PACCHETTI PESANTI DI SUFFRAGI – L’EX GOVERNATORE SICILIANO, TOTÒ CUFFARO, ASSICURA: “CONTROLLO 140 MILA VOTI”. E METTE IN PALIO IL SUO “TESORETTO” AL MIGLIORE OFFERENTE – EDY TAMAJO (FORZA ITALIA) ASSICURA A 20MILA PRESERENZE SOLO A PALERMO. E IN CAMPANIA RISPUNTA “LADY MASTELLA”, SANDRA LONARDO
C’è chi le carte le scopre apertamente, come l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro: «Controllo 140 mila voti», ha ricordato prima di una missione romana in cui è andato a sedersi su quattro tavoli diversi, quelli dei renziani, dell’Udc, della Lega e di Forza Italia. Nessuno sinora se l’è preso, quel “tesoretto” in possesso di un ras del consenso con le stimmate di una condanna per mafia, ma poco conta.
Sbaglia chi pensa che nelle elezioni in cui si gioca il futuro dell’Europa, mentre lucidano le sedie da capolista per generali-scrittori, giornalisti, simboli dell’accoglienza e dei diritti civili, i leader di partito abbiano rinunciato a presidiare il territorio con acchiappavoti di comprovata esperienza. Che alla fine, anche stavolta, faranno la differenza.
Il viaggio da Sud a Nord ripercorre la via della clientela, dei pacchetti di preferenza trasmessi da padre a figlio e spesso a dispetto delle ideologie che pure, alle Europee, di solito dovrebbero continuare ad avere un peso. Se il vicepremier Antonio Tajani, il leader che ha fatto sopravvivere FI alla scomparsa di Berlusconi, aspira oggi alle cariche più alte di Stato e Ue, il merito è anche di chi, in Sicilia, mette fieno in cascina.
Come Edy Tamajo, un assessore regionale di Schifani che alle ultime elezioni ha conquistato il record di preferenze nell’Isola, 21 mila solo a Palermo: Tamajo, negli ultimi 15 anni, ha navigato sotto coperta nel centrodestra e nel centrosinistra. Ma sempre nella maggioranza regionale. Con il fiuto e un solido capitale di voti che gli ha trasmesso il padre Aristide, che oggi siede nell’amministrazione comunale esattamente come accadeva cinque lustri fa. Ex calciatore dilettante, Tamajo jr. alla vigilia dell’appuntamento si emoziona: «Le Europee? Come giocare in Champions league».
Dalla Sicilia in cui, oltre a Cuffaro, un altro ex governatore come Raffaele Lombardo flirta con FI, parte anche la nuova avventura di Cateno De Luca, che ha chiuso il rapporto con Renzi con una pernacchia e tenta l’avventura solitaria alla guida di un esercito di 18 liste: «Autonomisti veri», rimarca lui. Ma pure No Vax, ipercattolici, pensionati, leghisti d’antan . Un mucchio selvaggio.
De Luca è un esempio a parte di corridore anti-sistema. Gli altri califfi frequentano le segreterie dei partiti maggiori. E sposteranno gli equilibri. Guardate quello che sta succedendo in Campania, nel Pd, con la possibile candidatura di Raffaele “Lello” Topo, già sindaco di Villaricca per dieci anni, consigliere regionale della Campania, deputato. Lello è un democristiano di antica fede, figlio di Ciccio che fu autista personale di Antonio Gava. Attualmente Lello Topo – incredibile dictu – è senza carica. «L’altra volta ho fatto eleggere Speranza, ora tocca a me», sibila.
Ma la sua presenza, nella circoscrizione Sud che vedrà in campo Lucia Annunziata e Antonio Decaro, mette in ambasce altri nomi di rilievo come Pina Picierno e Sandro Ruotolo.
Ma si può rinunciare ai portatori più o meno sani di suffragi? Certo che no, dice Matteo Renzi, intento a corteggiare la signora Mastella, l’ex deputata Sandra Lonardo, con il benestare del marito Clemente, già ministro, che non vede l’ora di rimettere un piede nelle istituzioni che contano. E tutto ciò malgrado il capo di Italia Viva solo tre anni fa attaccava duramente “lady Mastella” colpevole di cercare voti per il Conte-ter.
Al punto da far perdere la pazienza persino a lei: «Io sarò una lady – sbottò Lonardo ma lui non è né un sir né un gentleman».
I voti, si sa, costringono a giravolte e spostamenti repentini. Come quello di Aldo Patriciello, il ras di Venafro, il Berlusconi molisano a capo di un impero imprenditoriale con al centro le cliniche, un altro democristianissimo passato dall’Udc a Forza Italia, capace di prendere nel 2019 il triplo dei voti del Cavaliere in Molise (onta mai perdonata) e scippato da Salvini a Tajani appena un paio di mesi fa.
Con lo sdegno dei leghisti del Nord: «Qualcuno mi dica se stiamo con Patriciello o con gli estremisti di destra dell’Afd perché qui non si capisce più nulla», afferma l’ex segretario del Carroccio in Lombardia Paolo Grimoldi.
Salvini, d’altra parte, prova a sparigliare il gioco con la candidatura contestatissima del generale Vannacci ma ai portatori d’acqua ci tiene, eccome. Basti pensare al caso di Angelo Ciocca, estroso eurodeputato uscente tornato agli onori della cronaca per aver riscoperto la pratica leghista del cappio, stavolta sventolato a Bruxelles davanti alla presidente della Bce Christine Lagarde, o per avere “espulso” pubblicamente la presidente Metsola presentandosi con cartellino rosso e fischietto nell’aula dell’Europarlamento.L’espulso, in realtà, stava diventando lui, solo pochi mesi fa, in seguito a un procedimento disciplinare che l’aveva messo ai margini della Lega. Ma la vicenda è finita in cavalleria, Ciocca ha continuato la sua opera di persuasione anche attraverso i servizi che la sua società di ingegneria offre agli enti del territorio. E sarà in corsa regolarmente per il Carroccio.
Il Carroccio, peraltro, deve affrontare un’emorragia di consensi nel Nord-Est, antico granaio saccheggiato da FdI. Il recordman di consensi alle Regionali del 2020, l’assessore regionale Roberto Marcato, da tempo anima critica della Lega, allarga le braccia: «Una mia candidatura? Dal partito non si è fatto vivo nessuno». In compenso, fra i meloniani, s’avanzano due protagonisti d’obbligo della galleria degli aspiravoti.
Uno, anzi una, si chiama Elena Donazzan, pasionaria di Pove del Grappa e infinita amministratrice della Regione Veneto. Dove il termine ”infinita” va inteso in senso letterale: è assessora regionale, ininterrottamente, dal 2005. Diciannove anni, un’eternità, con una delega redditizia come il Lavoro.
Ha cambiato solo il partito, da Forza Italia a FdI, con una ostentata coerenza che non le ha impedito, qualche tempo fa, di intonare Faccetta nera durante una trasmissione radiofonica. Ora il tentativo di salto a Bruxelles, sulla spunta di centinaia di 6×3 con il suo volto e lo slogan: «Una di parola».
Donazzan cominciò il suo percorso nello staff di un collega di partito dal quale ha imparato l’arte della politica porta a porta: Sergio Berlato, il re dei cacciatori in una regione in cui le doppiette hanno da sempre un rilevante peso elettorale.
Per la vicinanza a questa categoria, nel 2014, Berlato fu fatto fuori dalle liste da Forza Italia che a traino di Michela Brambilla aveva scoperto l’animalismo. Unica pecca, nella carriera di Berlato nel frattempo passato a FdI, nel 2019 secondo solo a Giorgia Meloni alle Europee.
Nel frattempo in Veneto si è messo in azione l’inossidabile Flavio Tosi, ex sindaco di Verona e traghettatore di anime perse della Lega che in questi giorni ha fondato una nuova sigla, Forza nord, per far valere la sua stazza politica e attrarre dirigenti ed elettori. Per delineare i confini dell’ennesimo califfato.
(da Repubblica)
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