Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
SALVINI HA PARLATO DI 60 MILIARDI, POI DI 75, POI DI 65… MA PER IL MINISTERO IN REALTA’ SONO 35,4
Ma quanto soldi ci sono davvero per potenziare strade e ferrovie in Sicilia e in Calabria? Difficile saperlo se è vero che il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini è il primo a citare con leggerezza numeri che poi lui stesso smentisce.
Nella foga di spingere la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina il leader leghista imbastisce una narrazione di potenziamento delle infrastrutture tra Palermo e Reggio Calabria ogni volta con numeri diversi.
Il 25 marzo su Rai 1 il ministro ha parlato di “30 miliardi per la Sicilia e altrettanti per la Calabria”. Dovrebbe fare 60, se non fosse che ad agosto i miliardi su tavolo erano 75 poi diventati “30 più 35” e quindi 65.
A confondere ancora di più le acque l’anno scorso è arrivato l’amministratore delegato del Gruppo Ferrovie dello Stato (FS) Luigi Ferraris che aveva rilanciato addirittura a “80-90 miliardi” di investimenti in Calabria e Sicilia nei prossimi anni.
Incalzato da Pagella politica il ministero guidato dal leghista ha inviato un piano industriale 2022-2031 di Anas che comprende un investimento complessivo in Calabria di 15,6 miliardi di euro, di cui circa 1,3 miliardi dedicati alla manutenzione delle infrastrutture presenti e 14,3 miliardi alla realizzazione di nuove opere sul territorio calabrese.
Per quanto riguarda il piano industriale di RFI nella regione, tra i documenti inviati dal ministero a Pagella Politica c’è una grafica intitolata “gli investimenti ferroviari in Calabria” che prevede ben 36 miliardi di investimenti nella regione fino al 2031, di cui oltre 16 miliardi già “finanziati”.
Totale per la Calabria, tenetevi forte, 50 miliardi di euro.
In Sicilia Anas prevede di stanziare quasi 17 miliardi di euro tra manutenzioni e nuovi progetti nello stesso periodo e le ferrovie prevedono 22,1 miliardi di euro di investimenti, dei quali 17,6 miliardi sono già stati “finanziati”. Totale, 39 miliardi. Somma delle due regioni: quasi 90 miliardi di euro, perfino di più delle sparate di Salvini.
Solo che i conti a quelli di Pagella politica non tornano.
A maggio 2022 gli investimenti in infrastrutture previsti per Calabria e Sicilia erano pari a circa 35 miliardi di euro, una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quella diffusa da Salvini e dallo stesso Gruppo FS in seguito.
Quindi chiedono ancora. Nuova risposta dal Mit: “gli investimenti a oggi previsti dal Gruppo FS per le infrastrutture e la mobilità in Calabria sono pari a 13,4 miliardi di euro in arco decennale, quelli previsti in Sicilia sono pari a 22 miliardi di euro guardando all’intero valore dei progetti”.
Ma come? E qui 90 miliardi annunciati da Ferraris? “Quella cifra – spiegano da Ferrovie dello Stato a Pagella politica – è riferita agli investimenti previsti dal piano industriale decennale di FS per le regioni del Sud Italia, non solo per Calabria e Sicilia”. Un capolavoro.
Sorge quindi un dubbio: com’è possibile analizzare l’effettiva utilità e il reale riscontro degli investimenti pubblici se non è possibile nemmeno conoscerne la cifra?
Su quali basi il ministro Salvini ha valutato i costi e i benefici delle opere se nel suo ministero non c’è contezza dei costi programmati nei prossimi anni?
Forse c’entra qualcosa la pessima abitudine tutta italiana di affidare le analisi costi-benefici ai soggetti attuatori delle opere e non soggetti terzi. E anche in quel caso, come avvenuto per il Ponte sullo Stretto di Messina, i numeri indicano l’insostenibilità economica. Altrimenti è solo un rimestare propaganda.
(da lanotiziagiornale.it)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
LO SCONCIO DEL GOVERNO ITALIANO CHE HA DISPOSTO IL FERMO AMMINISTRATIVO DELLA NAVE DEI SOCCORRITORI INVECE CHE INCRIMINARE I DELINQUENTI A CUI REGALIAMO MOTOVEDETTE
Mani che cercano un appiglio, corpi in acqua, le urla disperate dei naufraghi. E poi libici che arrivano, sollevano onde alte che nascondono chi è in acqua alla vista, minacciano, intimano di andare via, che se la vedranno loro, nonostante non avessero neanche uno straccio di galleggiante a bordo, mentre in mare annaspavano decine di persone.
Le immagini registrate dalla go-pro di uno dei soccorritori di Mare Jonio, sono un racconto fedele, drammatico, senza filtri le fasi concitate del salvataggio avvenuto nel corso dell’ultima missione. Quella che alla nave di Mediterranea è costata l’ennesimo fermo per venti giorni, quella che ha rischiato di finire in tragedia fra gli spari arrivati dalla Fezzan e le troppe persone finite in acqua per il terrore di essere riportate indietro.
Un corpo pesa, tirarlo fuori dal mare non è facile, con il rhib che si muove, le onde che lo nascondono. Ma quando sono tanti i naufraghi in acqua non c’è neanche tempo per sentire la fatica, c’è solo la fretta di localizzarli. “Vanessa, dimmi se dal ponte vedete qualcuno oltre ai due che vediamo qui davanti”, si sente comunicare dal rhib, che via radio contatta il medico di bordo in quel momento impegnata a monitorare la situazione. Nel frattempo sono gli stessi naufraghi già soccorsi a dare una mano, indicare una testa che appare fra le onde, qualcuno che si sbraccia. “Non hanno giubbotti di salvataggio, fate presto”.
È in questo momento che arriva il tender, il gommoncino di scorta, calato dalla motovedetta libica Fezzan.
A bordo ci sono due uomini, nessun galleggiante, zero giubbotti, ma intimano al rhib di Mare Jonio di andare via. Per le norme del soccorso in mare non potrebbero. Chi per prima arriva sulla scena ha il coordinamento.
Ma a loro non importa, arrivano a tutta velocità, non si curano delle onde che sollevano e mettono ancor più in difficoltà chi annaspa in acqua, si limitano a urlare, minacciare.
Dal rhib chiedono rinforzi alla nave madre. C’è troppa gente in acqua, la presenza della Guardia costiera libica rende tutto più difficile, crea panico. È uno dei peggiori nemici in mare.
Da Mare Jonio scende l’altra lancia di soccorso, si preparano tutti i dispositivi di salvataggio che la nave ha a disposizione, inclusa la barca regalata un anno fa da Ghali.
Alla fine, a bordo del rimorchiatore di Mediterranea verranno portate in salvo 56 persone. E per questo meno di ventiquattro ore dopo la nave verrà fermata. Per i libici, sarebbe stata Mare Jonio a creare una situazione di pericolo e ostacolare la Guardia costiera di Tripoli. Una versione contestata da comandante ed equipaggio e smentita dai video messi a disposizione, ma che le autorità italiane hanno preso per buona.
(da La Repubblica)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
RESTANO ALTRI 151 MILIARDI DA METTERE A TERRA DI QUI A METÀ 2026, A UNA MEDIA DI 60 MILIARDI L’ANNO, OVVERO TRE VOLTE QUELLO CHE L’ITALIA È RIUSCITA A FARE L’ANNO PASSATO
A fine 2023 sui 194,4 miliardi del Pnrr a disposizione dell’Italia il governo ne aveva spesi appena 43,21 solo nel 2023: ne restano insomma altri 151,4 da mettere a terra di qui a metà 2026 e non è cosa da poco perché si tratterebbe di viaggiare ad una media di 60 miliardi all’anno ovvero tre volte quello che l’Italia è riuscita a fare l’anno passato.
E questo spiega bene perché il ministro dell’Economia Giorgetti insista per rivedere il termine del 2026 entro cui realizzare tutti i progetti. In base all’ultima relazione del governo sull’attuazione del Pnrr che, salvo poche eccezioni, non tiene conto della revisione del piano varato nei mesi scorsi, risulta ancora da spendere il 78% dei fondi a disposizione dell’Italia, sottolinea l’analisi appena sfornata da Openpolis.
Incrociando i dati sulla spesa sostenuta finora con i nuovi importi assegnati a ogni amministrazione titolare alla luce della revisione del Pnrr, a livello percentuale ci sono ben 12 strutture che devono ancora erogare più del 90% delle risorse: si tratta dei ministeri del Lavoro, degli Affari regionali, delle Pari opportunità e famiglia, del Turismo, dell’Agricoltura, della Cultura, della Salute, dello Sport, delle Politiche di coesione, della Pubblica amministrazione e dell’Interno.
In valori assoluti è il ministero delle Infrastrutture il soggetto più indietro con oltre 33,8 miliardi di euro ancora da spendere. «Questo, almeno in parte, può essere spiegato con il fatto che molti dei cantieri relativi a grandi opere non sono ancora partiti o risultano comunque nelle loro prime fasi. Senza dimenticare ovviamente che la struttura che fa capo a Matteo Salvini è anche quella a cui è attribuita la quota più alta di fondi» osserva Openpolis.
Tra i ministeri con le uscite ancora da effettuare più consistenti ancora da effettuare troviamo poi Ambiente (19,7 miliardi), Imprese (15,1), Salute (15) e Istruzione (14 miliardi). In tutto a fine 2023 erano appena 7 le misure per le quali è già stato utilizzato tutto il budget disponibile.
Si tratta sostanzialmente degli interventi realizzati tramite i crediti di imposta e gli incentivi a favore delle imprese, insomma le somme più facili da spendere, a partire dai 13,95 miliardi di ecobonus assorbiti dal Superbonus agli 8,9 miliardi di Industria 4.0 o i 4 miliardi per i crediti di imposta per ricerca e sviluppo ed i beni immateriali. In pratica il 94,5% dei contributi è esaurita. In tutti gli altri casi invece la percentuale dei fondi spesi resta molto bassa.
(da La Stampa)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
IL DEFICIT AL 7,2% DEL PIL RENDERÀ INEVITABILE UNA PROCEDURA DI INFRAZIONE DELL’UE, E LA PREMIER IN CDM HA CHIESTO LUMI AL MINISTRO DELL’ECONOMIA
Il ministro Giancarlo Giorgetti e il numero due dell’Economia, Maurizio Leo, hanno fatto del loro meglio in conferenza stampa per rassicurare e sdrammatizzare. Per i «big» di Via XX Settembre l’idea di presentare un Def «asciutto» è stata una scelta obbligata e nemmeno tanto nuova.
Eppure, nel chiuso del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni ha pronunciato poche parole, ma indicative di quanto alta sia a Palazzo Chigi la preoccupazione.
Giorgia Meloni è in ansia, sa bene che un deficit al 7,2% del Pil, molto lontano dal tetto del 3% previsto da Bruxelles, renderà inevitabile una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo e vuole accertarsi che il responsabile dei conti pubblici abbia soppesato l’impatto sui mercati di un documento di economia e finanza in versione light: «Giancarlo, come pensi che reagiranno le agenzie di rating? L’Italia, non da oggi, ha tutti gli occhi addosso. Stanno coi fucili spianati…».
La risposta di Giorgetti è di questo tenore: «Io penso che possiamo stare tranquilli, il Def verrà accolto positivamente. La fermezza con cui abbiamo messo un freno alla deriva del Superbonus è stata apprezzata». La presidente chiede ancora un minuto di attenzione per spronare i ministri e i leader dei partiti a illustrare nel dettaglio i dati contenuti nel documento: «Il Def è asciutto rispetto agli anni passati per le nuove regole europee, ma deve essere attendibile e realistico».
E qui Meloni raccomanda a Giorgetti e a Leo di «spiegare bene che fermare il Superbonus è stato un gesto di responsabilità». A Palazzo Chigi, come in Via XX Settembre, hanno messo nel conto che gli incentivi edilizi voluti da Giuseppe Conte e confermati da Mario Draghi «peseranno sugli equilibri di bilancio per i prossimi due o tre anni», con effetti a cascata sulle entrate dello Stato e sul debito pubblico.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
I SILENZI INTORNO ALLA MAXI-OPERA: SCONOSCIUTO L’ELENCO DEI NOMI, LA DANESE COWI TACE, MA LA CORSA DEI CANTIERI E’ PARTITA
Basta andare sul sito di Cowi e digitare la parola “Messina” per capire che qualcosa non torna. Cowi è il progettista danese dell’opera che “tutto il mondo ci invidierà”, per dirla con Matteo Salvini. Eppure del ponte non c’è traccia. La società non vuol parlare, ci manda solo un virgolettato di poche righe. Stretto di Messina, la società pubblica guidata da Pietro Ciucci che deve realizzarlo, ed Eurolink – il consorzio, capitanato da Webuild, che nel 2005 vinse la gara per costruirlo – non ci fanno parlare con il responsabile del progetto, né forniscono i nomi dei progettisti o chiariscono quando sono entrate alcune società.
Il grande inganno è in fondo il capolavoro di questa storia: tocca ai critici – dipinti come ambientalisti anti-moderni – dimostrare che non si può fare, non il contrario. Giorgia Meloni dovrebbe però farsi qualche domanda prima che la corsa avviata nel marzo del 2023 da Salvini, ripristinando via decreto la gara, tracci un solco dal quale sarà difficile venirne fuori. Nel frattempo si cerca di spendere centinaia di milioni (o miliardi). Salvini ha dettato il programma: approvazione del progetto definitivo al Cipess entro giugno, apertura cantieri entro l’anno, fine lavori nel 2032. Il decreto ha fatto ripartire la giostra di assunzioni, spese, consulenze che il governo Monti aveva fermato nel 2012.
Chi ci mette la faccia? Prendiamo Marco Orlandini, il capo dell’ingegneria di Webuild, è l’uomo che firma la “relazione del progettista” sul Ponte: è il responsabile per legge del progetto, o meglio dell’aggiornamento a tempo di record di quello del 2011. Lo si scopre leggendo la relazione appena pubblicata perché Stretto di Messina non ha voluto dircelo prima. È possibile parlarci per intervistarlo? Eurolink ci dice: “Chiedete a Sdm”; Sdm risponde “Chiedete a Eurolink”. Quando gli si fa notare l’incongruenza, nessuno risponde più. Parliamo di un’opera preventivata, oggi, 14,5 miliardi.
Il Fatto avrebbe voluto chiedergli: “Garantisce che il ponte si può fare come da progetto?”. Abbiamo chiesto allora l’elenco dei progettisti. Sdm ci ha promesso una lista ma poi è sparita e si è limitata a dire che, per il ponte, è Cowi, tra i leader del settore. All’ennesima richiesta, la risposta è stata una brochure di Cowi un po’ datata visto che il ponte sospeso più lungo citato è di 1.600 metri, anche se Cowi ha lavorato al più lungo al mondo, il Çanakkale sullo Stretto dei Dardanelli (2022), di 2023 metri, 1.300 meno di quello di Messina. Allora abbiamo chiesto a Cowi e si è ripetuta la stessa storia: prima ci ha rimandato al giorno dopo, poi più nulla. Abbiamo insistito per giorni e alla fine è arrivato un virgolettato di poche righe di “Henrik Andersen, Senior Project Director” che spiega che la società ha lavorato al progetto del 2011 e alla revisione nel ’23. “Non vediamo l’ora di completare la progettazione (…) Con i suoi 3.300 metri, il Ponte di Messina supererà tutti i limiti imposti dalle dimensioni dei ponti”. Ma non ci si può parlare: “Al momento non abbiamo altri commenti da fare”.
Il senso di tanta riservatezza sfugge, visto che da 20 anni ci ripetono che le migliori menti si sono cimentate sul progetto. Su Linkedin l’ingegnere Emanuele Codacci Pisanelli, esperto del settore, ha salutato la relazione con sarcasmo: “Vorrei fare i complimenti a Orlandini per la firma. Forse non noto ai più lo ricordo ingegnere neolaureato in studio dal Prof. Petrangeli dove imparò l’arte di progettare i ponti da un ‘anziano’ allora ventottenne”. Annota che la relazione contiene alcune “novità come le deroghe ai vincoli normativi”: “Con buona pace di chi affermava il contrario, ora il treno che viaggia dritto ma è inclinato potrebbe farlo” o il fatto che le prove aeroelastiche sul modello intero defintivo non sono state fatte, ma rimandate al progetto esecutivo. “La relazione è in sostanza il progetto del 2011 approvato a tempo di record – spiega al Fatto – e l’aggiornamento è un elenco di impegni sulle modifiche. In molti casi si rimanda al progetto esecutivo, cosa che non ha alcun senso. Una delle più inconcepibili è lo studio sismico e aeroelastico senza prima definire le masse di impalcato. Se poi si considera che nella relazione di Orlandini vengono preannunciate variazioni di sezione di cavi e pendini è impossibile solo pensare di poter sviluppare un serio modello di calcolo”.
I dubbi sono riemersi dopo che il Comitato scientifico della Stretto di Messina, nominato da Salvini a febbraio, ha dato parere favorevole al progetto con 68 “raccomandazioni”. Diverse (materiali, carichi combinati, prove in galleria del vento, aggiornamenti sismici etc.) pesano come un macigno. Si capisce che alcuni nodi rilevanti su deformabilità e percorribilità del ponte non sono ancora stati sciolti. La parola “prove” compare 63 volte in 57 pagine. Il ponte sorgerebbe su una delle aree più sismiche d’Europa, con forti turbolenze di venti e sarebbe 2,3 volte più esteso del ponte ferroviario più lungo al mondo, il terzo sul Bosforo, completato nel 2016, con una luce di 1.408 metri ma in parte “strallato”, cioè con tiranti rigidi. “La storia si ripete – spiega Antonino Risitano, già preside della facoltà di Ingegneria di Catania –. Nel 2011 il Comitato scientifico diede parere positivo con 13 prescrizioni, alcune a mio parere insormontabili. Ora dà 68 ‘raccomandazioni’. Alcune, se svolte in modo completo, impegnerebbero anni di campagne di prova e i risultati potrebbero contraddire la certezza sulla fattibilità dell’opera. Nel frattempo si corre ad avviare il cantiere”. Il nodo principale è la funzionalità: il ponte deve poter essere usato per trasporto stradale e ferroviario senza che le limitazioni di traffico nei giorni di forte vento (60-70 l’anno) rendano complicata, ad esempio, la circolazione dei treni. Ciucci ha replicato che si tratta di semplici “suggerimenti” da risolvere nel progetto esecutivo, cioè quello in cui ogni minimo particolare, dalla vite alla saldatura, deve essere definito e rimanere tale attraverso monitoraggi e manutenzione.
Il senso comune suggerirebbe che non si può procedere senza prima accertare oltre ogni ragionevole dubbio che il ponte si può fare come da progetto. A Rai Radio 1, Ciucci ha spiegato che “ci sono 40 km di strade intorno da fare e quindi la progettazione esecutiva potrà essere fatta per tranche, in modo da accelerare al massimo l’avvio dei lavori. Entro fine giugno il Cipess, insieme al definitivo, approverà un piano di opere anticipate che potranno essere avviate ancor prima della progettazione esecutiva, già in estate”. In un documento di Sdm sono elencate 422 operazioni per creare il cantiere, una mole enorme di lavori: bonifica dei terreni, indagini archeologiche, geotecniche, geognostiche, topografiche e ambientali, demolizioni, allestimento cantieri, opere di compensazione ambientale. Stime preliminari parlano di 680 milioni, al netto degli espropri. Queste opere altereranno il territorio in maniera irreversibile. Che succede se, per assurdo, il progetto esecutivo (che andrà ri-sottoposto al Cs) non dovesse essere approvato o richieda modifiche tali da essere antieconomiche? Replicando a un ascoltatore, Ciucci ha detto che non vede il motivo per cui non si debba procedere ma che nel caso a pagare i danni “sarebbe lo Stato”.
Se si procederà con l’esecutivo “a tranche”, si partirà dalle opere a terra, che valgono 7 miliardi, comprese le fondamenta. Che la partita sia rilevante lo dimostra l’arruolamento da ottobre, per la progettazione, della Proger, mini colosso italiano con ottime relazioni bipartisan.
Per stilare il cronoprogramma delle opere anticipate, Eurolink aveva ipotizzato di partire il 28 aprile con la firma dell’“atto aggiuntivo” che farebbe rivivere il contratto con Eurolink fermato nel 2012 per terminare nell’ottobre 2025. I tempi si sono già allungati. Se il Cipess darà il via libera si siglerà il contratto con annessa penale se l’opera non dovesse farsi. La scelta di richiamare Ciucci, uno dei padri dell’opera e alla guida di Sdm per anni, è indicativa. È stato l’uomo che nel 2009, governo Berlusconi, rinegoziò il contratto con Eurolink, dopo il primo stop voluto da Prodi, dove fu inserita una penale che scattava anche in caso di non approvazione del progetto definitivo al Cipess, clausola che Webuild ha usato per far causa allo Stato chiedendo 700 milioni (in primo grado ha perso). Ora si supererà il miliardo.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
ECCO COME LE IMPRESE DELLA MINISTRA SCARICANO LE PERDITE SU TESORO ED ERARIO
Nella saga delle crisi delle imprese possedute e amministrate per lunghi anni dalla ministra del Turismo, Daniela Santanchè, va in scena un nuovo miracolo economico: se il debito è dieci, per uscire dai guai basta pagare uno. Gli altri nove li rimette lo Stato. Stavolta, al centro del caso, c’è Biofood Italia srl: holding di partecipazioni che sta in cima al gruppo Bioera e Ki Group, amministrata in tandem da Santanchè e dall’ex compagno, Canio Mazzaro. Lei è stata al vertice dal 2015 al 2019, lui c’era prima e le è subentrato subito dopo. Biofood Italia è a fine corsa: è piena di debiti, ha un amministratore chiamato solo a gestirne la crisi ed è sotto la tutela del tribunale fallimentare di Milano, che ha nominato un commissario giudiziario, Alfredo Imparato, per sorvegliare e autorizzare tutte le uscite. Dal 2022, ovvero da prima che Santanchè diventasse ministra, la Procura di Milano indaga su diverse società da lei gestite o amministrate in passato, e stavolta per Biofood ha chiesto la «liquidazione giudiziale», cioè il fallimento.
Per cercare di evitare il crac, il 26 febbraio l’avvocato della società ha presentato al tribunale un’istanza di «concordato in bianco»: un’ammissione che in cassa non è rimasto più niente, accompagnata dall’impegno a trattare con i creditori, per pagare almeno in parte i debiti. E, in sostanza, l’unico creditore è lo Stato.
La posta più importante sono i 6 milioni di debito che il duo Santanchè-Mazzaro non ha mai saldato nei confronti di Amco, società che si occupa di gestione di sofferenze bancarie e che fa capo al ministero del Tesoro, cioè allo stesso governo di cui fa parte la ministra. Amco si è accollata il vecchio credito mai rimborsato verso Monte dei Paschi di Siena. Si tratta di un prestito di 6 milioni risalente al 2011, concesso alla società operativa Bioera, specializzata in prodotti biologici, e girato a Biofood. La banca toscana, quei soldi, non li ha mai più rivisti. Santanchè nel 2019 aveva promesso di rimborsarlo con un piano di rientro rateizzato, ma nessuna rata è mai stata pagata. Così Mps ha messo i 6 milioni a sofferenza, per poi cederli alla società pubblica Amco, liberandosene. Anche Amco ha provato a recuperare il credito, senza riuscirci: del resto può vantare solo un pegno sul 51 per cento del capitale della società che controlla Biofood, la Clm, impresa personale di Mazzaro, che a sua volta non gode di buona salute. Dopo aver provato con le buone maniere, Amco aveva poi presentato istanza di liquidazione giudiziale, poi improvvisamente ritirata, in tempi recenti, con l’annuncio dell’avvio di un nuovo negoziato con Biofood.
Ora, nella proposta di concordato formalizzata dall’avvocato Fabio Cesare e visionata da L’Espresso, si legge la mossa a sorpresa di Biofood: punta a saldare il debito con Amco pagandone un decimo, 600 mila euro in tutto, in 22 comode rate mensili. Amco, se accettasse, dovrebbe mettere a bilancio una grossa perdita. Detto altrimenti, Biofood si salva, ma a spese dei contribuenti. Stesso copione per i debiti tributari. L’azienda deve 956 mila euro all’Erario e, anche in questo caso, la proposta prevede un rientro rateizzato e un accordo con l’Agenzia delle Entrate. La società ha ancora 60 giorni di tempo per realizzare con i creditori un accordo di ristrutturazione del debito, che dovrà poi essere approvato dal giudice per evitare il fallimento.
Ma chi ci metterà i soldi, se la società ha cumulato perdite copiose nel tempo e il patrimonio di Biofood, già a fine 2022, era inesistente, in rosso per oltre 6 milioni? Va inoltre detto che, se il 51 per cento delle quote è in pegno ad Amco, la restante parte è nelle mani di tale Anna Rita Mattia, ex insegnante in pensione, residente a Porto Cervo e moglie di Massimo Bianconi, banchiere che condusse Banca Marche a un disastroso crac. La pensionata nel 2015 prestò 3,2 milioni a Mazzaro per Biofood, ottenendo così il pegno. Ora il nuovo piano di salvataggio dell’azienda prevede che a metterci i quattrini saranno i famigliari di Canio Mazzaro.
Insomma, nelle società che in passato sono state gestite dalla ministra sembra ripetersi sempre lo stesso film, già descritto nella prima puntata di questa inchiesta giornalistica, dal titolo “Santacrac”, per la quale la ministra ha chiesto 5 milioni a L’Espresso: il fatturato scende, le prime perdite erodono l’intero capitale, evaporano i flussi di cassa e restano sul tappeto milioni di debiti mai pagati. Del resto, proprio la crisi di Biofood dipende fortemente dalle difficoltà delle sue controllate: Bioera e Ki Group. Le quali, a loro volta, hanno sommato a ingenti perdite l’erosione del capitale e fatto venir meno i flussi di denaro verso l’alto. La caduta di valore di Bioera e Ki group ha fatto il resto. Già nel 2018, quello di Bioera viene svalutato per 3 milioni su 9 cui era iscritta a bilancio. Da allora in poi tutto crolla e si arriva ad azzerare il valore sia di Bioera che di Ki Group. Santanchè potrà in teoria sostenere che, dal 2019, non ha più amministrato Biofood passando la mano a Mazzaro. E che ha dato le dimissioni da presidente di Bioera nel settembre del 2021. Ma è arduo negare che la crisi attuale affondi le sue radici nella gestione degli anni precedenti. E la storia di imprenditrice e gestore di aziende dice che ogni pianeta della sua galassia è finito in concordato fallimentare, o viene salvaguardato da misure protettive per tenere a bada i creditori o è affidato in una liquidazione giudiziale, come Ki Group.
Pure Bioera si è arroccata nelle misure protettive: entro il 26 aprile dovrà presentare un piano di risanamento e un accordo coi creditori. Questa società, che ha visto bocciare da Consob per irregolarità il bilancio 2022, ha chiuso il 2023 a livello consolidato con altre perdite per 3,5 milioni che portano il patrimonio netto in negativo per 22,5 milioni e con debiti finanziari per 13,9 milioni. Mentre a livello di spa ha zero ricavi, altri 2,9 milioni di perdite, un patrimonio netto negativo per 6,4 milioni e debiti finanziari da pagare per 3,1 milioni.
Anche in questo caso, per rimanere in piedi toccherà far pagare il prezzo ai creditori: la proposta, come si legge in un comunicato stampa della società, prevede il pagamento integrale dei crediti entro gennaio 2027 oppure il saldo e stralcio del 30 per cento entro giugno 2024 o in alternativa un taglio del credito del 50 per cento entro maggio 2025.
I giudici di Milano sembrano affrontare le società della ministra quasi come una matrioska: ogni impresa in crisi contiene, all’interno, un altro dissesto. Tra le altre indagini giudiziarie che gravano sull’imprenditrice, c’è infatti un altro fascicolo d’accusa con una serie di dettagli che creano un cortocircuito tra i suoi interessi privati e il suo ruolo pubblico di ministra. Santanchè è accusata di truffa ai danni dell’Inps come amministratrice di due società del gruppo editoriale Visibilia, assieme al suo attuale compagno Dimitri Kunz. Secondo le indagini della Guardia di Finanza e della Procura di Milano, la quotata Visibilia Editore spa e la Visibilia Concessionaria srl avrebbero incassato la cassa integrazione per tutto il biennio dell’emergenza Covid, da maggio 2020 a febbraio 2022, per tredici dipendenti: approfittando della pandemia, i loro stipendi venivano scaricati sulle casse dello Stato, come se l’azienda fosse ferma a causa dell’emergenza sanitaria, mentre i lavoratori «in realtà continuavano a svolgere le loro mansioni in smart working». Con questi «artifici e raggiri», secondo l’accusa, le due società del gruppo Visibilia avrebbero ottenuto «un ingiusto profitto per 126.468 euro, con corrispondente danno per l’Inps». Nel tentativo di assicurarsi il silenzio dei lavoratori (che poi invece hanno denunciato o confermato le accuse) lo stipendio sarebbe stato aumentato aggiungendo «finti rimborsi per “note spese” e “spese di viaggio”», che venivano «omesse nelle buste paga, al fine di occultare il fatto che i dipendenti continuano a lavorare anche nel periodo di cassa integrazione a zero ore».
Santanchè si è difesa sostenendo di non essersi occupata personalmente degli stipendi e della cassa integrazione. Come dire: poteva non sapere. A carico di Kunz pesano una serie di registrazioni (non intercettazioni giudiziarie, ma audio privati) realizzate da una dipendente che denunciò già nel 2022 la presunta truffa all’Inps. La Procura ha chiuso questa inchiesta e l’ha notificato a tutti gli indagati, che ora possono replicare alle accuse con le loro memorie difensive, nella speranza di evitare il rinvio a giudizio: un eventuale processo a una ministra imputata di truffa allo Stato potrebbe creare un serio problema di politica interna e d’immagine internazionale per il governo in carica.
(da lespresso.it)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
SEMPRE PIU’ VERSO UN REGIME ORBANIANO CON BAVAGLIO ALLE OPPOSIZIONI
Alla faccia della par condicio. Sulle reti Rai ministri e sottosegretari del governo Meloni saranno liberi di scorrazzare per i talk senza sottostare ad alcun vincolo di tempo né di contraddittorio. Potranno fare monologhi e improvvisare comizi catodici, stare in studio da soli con il conduttore o anche in compagnia di colleghi della medesima coalizione, basta che parlino della loro attività istituzionale — il ponte sullo Stretto nel caso di Matteo Salvini; gli ultimi provvedimenti dell’esecutivo, la premier — e il gioco è fatto. Da trent’anni in qua una forzatura senza precedenti: dacché fu cioè varata, nel lontano 1993, la prima legge di sistema per garantire parità di trattamento a tutte le forze politiche in campagna elettorale.
In limitar della notte l’emendamento alla delibera della Vigilanza che avrebbe dovuto recepire il dispositivo dell’Autorità garante per le Comunicazioni sulla par condicio — scritto nelle stanze di Palazzo Chigi dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari e presentato da Fratelli d’Italia, Lega e Noi moderati — passa con i soli voti della maggioranza fra le proteste delle opposizioni. Stabilisce «la necessità di garantire», nei programmi di approfondimento giornalistico, «una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative». Il varco dentro cui potranno infilarsi — senza incontrare alcun limite — i principali candidati alle prossime Europee, se si considera che sia Giorgia Meloni, sia Antonio Tajani, oltre forse a qualche altro ministro del centrodestra, correranno per un seggio a Strasburgo.
Inascoltate le proteste della minoranza, che ne aveva chiesto a più riprese il ritiro. E pure le obiezioni di Forza Italia, che inizialmente si era messa di traverso, convinta che una tale “innovazione” avrebbe favorito gli alleati, forti di un peso e di una riconoscibilità maggiori all’interno della squadra ministeriale: a parte Tajani agli Esteri, gli azzurri hanno infatti Alberto Zangrillo, Gilberto Pichetto Fratin e Annamaria Bernini, non proprio richiestissimi dai talk. Ma l’ostruzionismo interno è durato poco. Alla fine anche i berlusconiani hanno dovuto piegarsi al diktat calato dai piani alti di FdI.
«Un grave strappo: non c’è stata nessuna volontà da parte della maggioranza di trovare una mediazione possibile», tuonano gli esponenti del Pd in Vigilanza capitanati da Stefano Graziano: «C’è stata invece la volontà di far esondare il governo durante la campagna elettorale eliminando il motivo stesso per cui esiste la par condicio. Cioè si vuole comprimere la voce dell’opposizione e allargare quella della maggioranza, utilizzando il governo, che non viene conteggiato». Sulla stessa linea il M5S, che per tutta la giornata — attraverso la presidente della Commissione Barbara Floridia — si era speso per trovare un compromesso: «La maggioranza se n’è infischiata dei nostri appelli e ha votato l’emendamento Filini, che stravolge la delibera azzoppando i presidi della par condicio», denunciano i parlamentari grillini. «Quando vogliono approvare qualcosa che gli interessa procedono come schiacciasassi rifiutando ogni tipo di mediazione». Un emendamento che per il verde Angelo Bonelli «sancisce l’occupazione del governo e della maggioranza degli spazi Rai. Cucito su misura delle candidature della premier e dei ministri come Tajani. Una vera vergogna».
E ora, che cosa succederà? Difficile che l’Agcom possa far propria una forzatura del genere. Dunque per le reti private le regole saranno più restrittive, mentre in Rai impazzerà TeleMeloni.
(da agenzie)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
SOLO UN MIGRANTE SU SETTE VIENE FATTO RITORNARE AL PAESE DI ORIGINE
Dei 28.983 migranti che nello scorso anno sono stati destinatari di provvedimenti di espulsione da parte delle questure italiane, 4.368 sono stati quelli effettivamente rimpatriati. In altre parole, un cittadino straniero su sette è stato espulso dal nostro paese nel 2023. Sono i dati diffusi dalla Polizia di Stato in occasione del 172° anniversario della sua fondazione. Intanto oggi a Bruxelles è prevista l’approvazione del nuovo Patto migrazione e asilo che verrà votato dal Parlamento europeo in sessione plenaria.
Secondo il bilancio della Polizia, degli oltre quattromila rimpatri eseguiti, circa 3538 migranti sono stati scortati da parte del personale delle forze dell’ordine nei paesi di destinazione con voli di linea, navi o voli charter. Si tratta in larga parte di cittadini di origine tunisina, circa 2000, seguiti da migranti di provenienza egiziana. I maggiori flussi infatti hanno riguardato le rotte provenienti da Tunisia, Libia e Turchia. In totale, i migranti irregolari che nello scorso anno hanno attraversato il Mediterraneo per poi sbarcare sulle nostre coste sono oltre 150 mila. Un bilancio in aumento rispetto a quello del 2022, che si aggirava attorno ai 105mila. A crescere sono anche i dati sulle richieste di protezione internazionale registrate dalle questure: quasi 138mila a fronte delle circa 84mila del 2022.
I dati sulle ricollocazioni dei migranti in Europa
Ai numeri dei rimpatri si affiancano quelli legati alle procedure di voluntary relocation, ovvero la ricollocazione dei migranti richiedenti asilo tra i 27 stati membri dell’Unione Europea.
Nel 2023 sono stati 986 i richiedenti asilo ricollocati in Europa. La maggior parte di questi ha trovato asilo in Germania (circa 800), seguita da Finlandia, Croazia, Portogallo, Francia, Irlanda, Lituania e Norvegia.
Nel 2022, secondo i numeri di Eurostat, l’Italia aveva ordinato circa 28 mila rimpatri ma quelli concretamente portati a termine erano stati circa 2.800. Da quando si è insediato, il governo Meloni è intervenuto a più riprese sul tema dell’immigrazione irregolare, cercando di promuovere misure di espulsione e di rimpatrio, ma finora i numeri non sembrano confermare le previsioni dell’esecutivo.
(da Fanpage)
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Aprile 10th, 2024 Riccardo Fucile
ENZO LIARDO NON È ACCUSATO DI MAFIA MA DOVRÀ RISPONDERE DI PECULATO E ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE
Un’altra inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Torino racconta una storia di boss della ‘ndrangheta, massoni e voti alle elezioni comunali del 2021
Ribattezzata “Timone”, l’indagine è stata chiusa nei giorni scorsi e in migliaia di pagine racconta del saldo rapporto tra un noto massone di Torino Saverio Dellipaoli già candidato in passato per l’Udc, ex Maestro venerabile della Loggia Grande Oriente d’Italia e il boss delle cosche calabresi Francesco Napoli, mafioso conclamato e di rango.
Dellipaoli, indagato dai pm Paolo Toso e Francesco Pelosi per aver favorito il boss in una serie di truffe su rilevanti fondi Covid, avrebbe a sua volta offerto e garantito un aiuto elettorale a mister preferenze di Fdi alle ultime elezioni comunali di Torino Enzo Liardo.
Dellipaoli, 64 anni, dipendente della Regione: ha solidi rapporti con direttori e direttrici di filiali di banca, amicizie politiche, soprattutto nell’Udc. In passato – e fino al 31 dicembre 2015 – è stato funzionario della Città Metropolitana di Torino. Conosce molta gente, ma ha anche amicizie “nere”.
Si vantava al telefono di essere immune da aggressioni da parte delle cosche calabresi «perché io appartengo a una struttura che si chiama massoneria, che non mi tocca nessuno, non mi vengono a cercare a casa». In realtà alcune settimane fa si sono presentati gli uomini del Gico della Finanza. Gli hanno notificato la misura cautelare dell’obbligo di firma perché «è del tutto evidente che Dellipaoli abbia messo a disposizione di un boss e del gruppo di riferimento di quest’ultimo, i suoi “contatti” afferenti al mondo bancario e finanziario nella consapevolezza di prestarsi per un esponente della criminalità organizzata, oltre alle conoscenze e rete di rapporti afferenti alla appartenenza massonica».
In questo mondo Dellipaoli si muove e cerca voti per Liardo. sul quale punta moltissimo, lo insegue, promette voti: «Questi amici ti possono dare una mano davvero, sono persone che hanno sempre votato me e tu lo sai che io i miei 130, 150 li ho sempre presi!».
Liardo «mostrandosi interessato e ringraziando» replica: «Tu la tua porca figura l’hai sempre fatta».
L’aspirante consigliere, i cui rapporti con Dellipaoli sono datati («ti conosco da una vita, mi sei sempre piaciuto è una questione di empatia»), sottolineava «la sua forza elettorale nonché il previsto exploit che avrebbe conseguito alle elezioni, evidenziando come si considerasse già tra gli eletti. Tuttavia – annotano il Gico – aveva la necessità di arrivare primo nella lista di Fratelli d’Italia». Tradotto: «Il mio problema non è entrare… il mio problema è arrivare primo… perché c’è una sfida aperta… ma io son già dentro!»
Questo avrebbe fatto si che in caso di vittoria del centrodestra sarebbe diventato, evidentemente in base ad accordi già presi, il vicesindaco di Torino: «Allora, io… sto rischiando… però non lo dire in giro perché non bisogna scoprirlo molto praticamente io dovrei arrivare primo, perché non vogliono farmi arrivare primo? perché io rischio di andare a fare il vicesindaco, hai capito?».
E poi avrebbe alfieri politici d’eccezione. «Sono sponsorizzato bene da Maurizio Marrone e dall’onorevole Montaruli (estranei all’inchiesta ndr). C’è tutta una costruzione che non sto li a raccontarti». Chiaramente c’è un prezzo a questo appoggio: «Poi ovviamente ricordati di me» dirà Dellipaoli. E la Finanza: «La contropartita che gli richiedeva in cambio del suo sostegno elettorale era la partecipazione alle “Commissioni comunali”, in qualità di membro, dalla quale ne avrebbe ricevuto vantaggi personali».
A fine luglio 2021 si passa all’organizzazione dell’incontro, con il massone che scrive al consigliere: «Vengono quattro/cinque» persone che hanno un certo “peso” e che ti servono». La data è a metà agosto, ma a settembre la Finanza perquisisce Liardo, accusato di peculato per essere entrato in possesso (con l’ausilio di due tecnici dell’anagrafe indagati) di un cd con tutti dati degli elettori senza pagare un’imposta di 2.767,11 euro. Gli contestano il peculato e l’istigazione alla corruzione perché pur di avere quei file, – promise a un’altra dipendente un avanzamento di carriera. Da quel momento in poi i telefoni non parlano più. Interpellato, Liardo non ha voluto commentare.
(da agenzie)
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