Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
NEL 2023 DAL GOVERNO È ARRIVATO UN ASSEGNO DI 54.896 EURO, MENO DELLA METÀ DEI 133.502 EURO RICEVUTI NEL 2022… VILLA CERTOSA, IN SARDEGNA, È STATA MESSA IN VENDITA A 500 MILIONI
C’è un piccolo valore aggiunto nel pacchetto con cui è stata messa sul mercato dagli eredi di Silvio Berlusconi Villa Certosa, la storica residenza nell’isola del Cavaliere che è scomparso quasi un anno fa. La novità emerge dal bilancio 2023 di Immobiliare Idra, la società che controllava le principali abitazioni del fondatore del gruppo Fininvest-Mediaset a Segrate, Macherio e Porto Rotondo.
Proprio l’anno scorso, infatti, Immobiliare Idra ha ottenuto una concessione per 75.994 euro per la realizzazione e poi il successivo utilizzo di un impianto dissalatore proprio nell’area di villa Certosa. Grazie a questa concessione ottenuta dalla Regione Sardegna l’anno scorso Villa Certosa ha un po’ di valore aggiunto che consenta di piazzarla sul mercato a breve.
Era stata messa in vendita a inizio anno dai figli di Berlusconi per 500 milioni di euro, ma ben presto si sono accorti che la richiesta era un po’ alta. Anche per questo motivo gli eredi Berlusconi hanno chiesto al presidente di Idra immobiliare, Giuseppe Spinelli, di svalutare subito in bilancio le tre ville possedute facendo emergere una perdita superiore ai 144 milioni di euro. Ma con la concessione per l’impianto dissalatore qualcosina di più si può sperare di ottenere.
La società immobiliare l’anno scorso ha ancora ricevuto aiuti di Stato per compensare parzialmente il caro-bolletta. Dal governo è arrivato un assegno di 54.896 euro, meno della metà dei 133.502 euro ricevuti l’anno prima. E in effetti il consumo di energia elettrica si è parimenti quasi dimezzato, scendendo dal milione e 484.238 euro del 2022 agli 802.110 euro del 2023.
Nell’anno in cui è scomparso Berlusconi invece è a sorpresa aumentato sensibilmente il costo del personale distaccato presso le tre principali ville, una sola abitata (da Marta Fascina). Nel 2022 quella spesa era di appena 47.152 euro, l’anno successivo è diventata di quasi un milione: per l’esattezza 957.912 euro.
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
“DI GLADIO NON MI DISSE NULLA. DAVANTI ALLE MIE PROTESTE, RISPOSE: LA COSA TI AVREBBE PROCURATO SOLO GUAI” … IL “SENSO DI COLPA” PER ALDO MORO, LA CENA RISERVATA A BONN CON SCHMIDT – “LA CIA? CON L’INTELLIGENCE USA TENEVA UN RAPPORTO CONFIDENZIALE”
«Per anni l’Italia è stato un Paese osservato speciale. Per questo ritengo che negli archivi dei Servizi segreti di Stati alleati o non alleati, ci possano essere tracce utili a illuminare vicende sulle quali la verità non è completa. Come la tragedia di Ustica o il caso Moro…».
Quando si parla di segreti si pensa sempre a Francesco Cossiga. E di Cossiga, Luigi Zanda fu amico e collaboratore: «Anche se nella prima fase della Repubblica — spiega — c’erano questioni la cui conoscenza era riservata a pochissime persone. Infatti di alcune cose Cossiga non mi parlò mai, nonostante vivessimo praticamente insieme. Fu il suo modo di proteggermi».
Da cosa la protesse, per esempio?
«Ricordo quando divenne capo dello Stato. A quei tempi mi ero trasferito a Venezia per lavoro. Un giorno lessi sui giornali di un’organizzazione di nome Gladio, nella cui strutturazione lui era coinvolto. Allora presi l’aereo e andai a trovarlo al Quirinale. In un certo senso protestai: “Perché non mi hai detto nulla?”. Mi rispose gelido: “Perché non c’era ragione che tu sapessi. E perché se avessi saputo, la cosa ti avrebbe procurato solo guai”. Fu così che fece anche in altri casi».
Si comportò diversamente, invece, in una notte d’inverno del 1979. Una notte importante, con un viaggio segreto importante, per un appuntamento importante, di cui Cossiga — che era presidente del Consiglio — avvisò per tempo Zanda. Quella notte il premier italiano sarebbe atterrato nella capitale della Germania Ovest. A Bonn, visto che ancora esisteva la Germania Est e Berlino era divisa dal Muro.
Ad attenderlo ci sarebbe stato solo il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt. Nessun altro. Ufficialmente l’incontro non era in agenda. «E quella notte Cossiga fece una scelta di campo che avrebbe cambiato il corso della storia», racconta oggi Zanda, che nella sua seconda vita è stato capogruppo del Pd al Senato, ma nella prima fu l’uomo più vicino al Picconatore.
«Nel mondo c’era un clima da guerra fredda. L’Unione Sovietica aveva puntato contro l’Europa i missili SS-20 e la Repubblica federale tedesca voleva che la Nato rispondesse al Cremlino: chiedeva che sul territorio europeo venissero installate testate nucleari da puntare contro Mosca. E insisteva perché anche Roma partecipasse al progetto».
Bisognava prendere una decisione sui famosi Euromissili. Così il cancelliere decise di invitare il capo del governo italiano. A tavola le portate finirono rapidamente e i toni della discussione si fecero presto accesi. «Il giorno dopo Cossiga mi raccontò la conversazione. D’altronde tra noi c’era un legame molto stretto. Ci conoscevamo dal 1973: io ero segretario di una Commissione di stanza a Palazzo Chigi, lui un deputato che a Palazzo Chigi veniva spesso. Ben presto il nostro rapporto di confidenza si trasformò in amicizia. Quando fu nominato ministro mi chiese di seguirlo. Fummo insieme anche al Viminale tra il 1976 e il 1978: anni devastati dal terrorismo. Affrontammo quella stagione come commilitoni in guerra. E di quella tragica esperienza da titolare dell’Interno, Cossiga si portò sempre dietro il senso di colpa per non essere riuscito a difendere Aldo Moro».
La cena riservata a Bonn, da presidente del Consiglio, doveva prevedere un menù pesante.
«Sapeva già cosa lo attendeva. Tempo prima l’informazione gli era arrivata per via riservata dagli Stati Uniti. Mi aveva chiamato nel suo studio. Era preoccupato e dibattuto. Da atlantista convinto, capiva la portata dell’iniziativa e la condivideva. Ma temeva per la stabilità del Paese, temeva anzitutto la reazione dell’opinione pubblica di sinistra sollecitata dal Partito comunista italiano. E lui, che con il Pci aveva una relazione privilegiata, sapeva che una sua decisione avrebbe mutato per sempre i rapporti con i comunisti. Con questi dubbi volò in Germania Ovest».
E l’incontro serviva a sciogliere le riserve che si nutrivano a Roma
«È così. Per tutta la sera Schmidt premette perché l’Italia installasse i Pershing e i Cruise. Ma durante la conversazione il cancelliere si accorse che l’ospite era titubante. E allora alzò il tono della voce, dicendo a Cossiga: “Hai queste esitazioni perché non hai 1400 chilometri di confine con la Germania dell’Est, cioè con l’Unione sovietica. Tu lo sai che loro hanno decine di postazioni missilistiche puntate sul mio Paese, ma siccome non hai questo problema mi parli di questioni di politica interna”. Fu una conversazione fuori dai canoni diplomatici».
E il presidente del Consiglio?
«Tornato a Roma mi disse: “Davanti a certi argomenti ho dovuto mettere da parte ogni mia perplessità”».
Mise da parte anche la «relazione privilegiata» che aveva con il Pci e con Enrico Berlinguer, segretario di quel partito e suo primo cugino.
«Ci sono convinzioni in ognuno di noi che non si possono sradicare. Una volta Cossiga mi aveva raccontato che a sedici anni si era deciso a fare politica, ma non sapeva se iscriversi al Pci o alla Dc. Mi confidò che era stata la sua avversione all’Unione Sovietica e fargli compiere la scelta. E quando a cena Schmidt toccò quel tasto…».
Si sbloccò l’adesione italiana al progetto della Nato.
«A Roma la maggioranza di governo era compatta: c’era il sostegno del Partito Repubblicano e c’era stato prima un lavoro importante svolto dal Partito Socialista con i socialdemocratici tedeschi. Accettare gli Euromissili diventò un passo determinante, perché la corsa agli armamenti rese ancor più fragile il sistema economico di Mosca. E quando, anni dopo, gli Stati Uniti avrebbero annunciato la costruzione dello scudo spaziale, l’apparato militare sovietico sarebbe stato messo definitivamente in crisi. Per stare al passo con l’Occidente, il Cremlino avrebbe avuto bisogno di investimenti troppo onerosi».
Di ritorno da Bonn fu il presidente del Consiglio ad avvisare il Pci della decisione?
«Credo che a informare Botteghe Oscure non sia stato Cossiga…».
Quindi fu Mosca.
(Pausa) «Ma non possiamo dimenticarci che quelli erano ancora gli anni della guerra fredda. E anche se nel Pci si avvertiva un grande travaglio, i due campi restavano perfettamente separati. Per i comunisti italiani era impensabile non schierarsi dalla parte dell’Unione Sovietica».
Se ad Enrico Berlinguer la notizia degli Euromissili arrivò dall’Urss, a Cossiga da chi era giunta l’anticipazione?
«Conoscendo i suoi rapporti, i possibili canali possono essere stati esclusivamente tre: il segretario di Stato americano, l’ambasciatore americano in Italia o i suoi amici della Cia».
La Cia…
«Con l’intelligence statunitense, diciamo così, Cossiga teneva un rapporto confidenziale. Lui era intrigato dai servizi segreti, perché aveva la consapevolezza della forza di quello che oggi definiamo “deep state”».
Il lato oscuro della Luna.
«Beh, in ogni sistema democratico c’è il governo e poi c’è una struttura dello Stato con cui in qualche modo bisogna fare i conti. I servizi sono antenne formidabili di conoscenza. E lui era straordinariamente curioso».
In effetti non negò mai questa sua «curiosità».
«Anni prima, aveva chiesto a Moro perché lo avesse scelto come ministro dell’Interno. E Moro gli aveva risposto: “Perché tu sei una persona molto curiosa”. Forse fu proprio grazie alle informazioni che riceveva dai suoi “amici” se Cossiga capì già all’inizio degli anni Ottanta che l’Unione sovietica sarebbe collassata. Mentre fu per intuizione politica se, nel momento in cui cadde il Muro, comprese anzitempo che i partiti italiani della Prima Repubblica sarebbero rimasti sotto quelle macerie. Ma nessuno gli diede retta. Anzi, lo presero per pazzo».
(da Corriere della Sera)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
GRAN LAVORO DIPLOMATICO DI BIDEN CHE PRIMA LIMITA LA RITORSIONE DELL’IRAN E ORA CONVINCE NETANYAHU A CHIUDERE IL CAPITOLO
In questi giorni, per il tramite dell’Oman, Casa Bianca e Teheran hanno concordato tempi e modi dell’attacco congenito in modo da rendere il tutto il meno pericoloso possibile ed evitare che si potesse trasformare nell’inizio di una guerra regionale.
Un attacco pilotato che alla fine si è trasformato in un po’ dei propaganda per l’iran ma senza che nessuno si facesse sul serio male.
Il retroscena del lancio di droni e missili dall’Iran verso Israele che – per fortuna e anche per volontà – non ha causato veri danni sta in un accordo preventivo tra Stati Uniti e Iran mediato dall’Oman.
In pratica in questi giorni, per il tramite dell’Oman, Casa Bianca e Teheran hanno concordato tempi e modi dell’attacco congenito in modo da rendere il tutto il meno pericoloso possibile ed evitare che si potesse trasformare nell’inizio di una guerra regionale.
Tant’è che – nonostante la distanza – il grosso dell’azione militare è stato gestito direttamente dall’Iran per evitare che qualche alleato dal Libano, dalla Siria o dall’Iraq potesse andare oltre.
Ed infatti poche ore prima dell’azione militare Biden è rientrato alla Casa Bianca a riprova del fatto che era informato.
È evidente che Teheran si è limitata a questa azione di propaganda e anche la Casa Bianca ha lanciato un appello perché la cosa finisse qui.
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
C’È CHI PARLA DI “COREOGRAFIA”, DI UN’OPERAZIONE RACCHIUSA ENTRO CERTI LIMITI PER EVITARE LA GUERRA TOTALE… I PROBLEMI DI NETANYAHU CON L’ALA DESTRA DEL GOVERNO CHE VORREBBE UNA CONTRO-RISPOSTA, IL RUOLO DELLA GIORDANIA E DI QUALCHE MONARCHIA SUNNITA DEL GOLFO
Una rappresaglia «telefonata» che non toglie sostanza al messaggio simbolico e forte: l’Iran ha superato la linea rossa attaccando in modo diretto Israele. Il primo di molti tasselli della sfida.
INTELLIGENCE
Ha fatto il suo mestiere dando l’allarme per tempo. È vero che i mullah non si sono nascosti: la rappresaglia era annunciata ed hanno passato comunicazioni attraverso canali riservati sulle loro intenzioni. Però non potevano mascherare i preparativi visto il dispiegamento di mezzi.
Lo spionaggio è servito a valutare la portata della minaccia e ad elaborare scenari per l’eventuale seguito. I sensori dei satelliti americani hanno quasi certamente «visto» la fase iniziale, specie il lancio dei cruise. In «ascolto», sull’altra barricata, i russi attraverso le «stazioni» in Siria, curiosi di scoprire dettagli operativi sugli alleati.
LO SCIAME
Una falange di missili/droni, a centinaia per ingaggiare le difese dello Stato ebraico. Anche questo ampiamente previsto ma non da sottovalutare perché risponde a una proiezione continua da parte di Teheran. La Divisione aerospaziale dei pasdaran ha riprodotto in grande quanto fatto dalle milizie alleate dallo Yemen all’Iraq, testando gli armamenti, le rotte di attacco, le contromosse. Si è servita anche di quelle «prove» per sferrare la ritorsione e userà quanto avvenuto in queste ore nel prossimo round, cercando di rimediare ad errori, ricorrendo a tattiche e quantità di vettori per soverchiare le «batterie». Specie se dovessero utilizzare nuovi vettori balistici.
La Repubblica islamica sta dicendo alla comunità internazionale: abbiamo un lungo braccio, siamo pronti ad usarlo contro qualsiasi avversario. È un segnale con molti destinatari, comprese le milizie sciite che spesso sono servite per il lavoro sporco. Non manca, all’opposto, una corrente di pensiero che considera la mossa iraniana un flop per la sua deterrenza, un’incursione «spettacolare» dai risultati modesti che ha finito per rompere l’isolamento di Israele e messo in secondo piano la causa palestinese.
LA SCENA
Ci sono commentatori che parlano di «coreografia», di un’operazione ampia ma comunque racchiusa entro certi limiti per evitare la guerra totale. C’è sicuramente una componente propagandistica, Israele e Iran/milizie hanno in passato seguito delle «regole di gioco» per circoscrivere il fuoco. In questo caso però l’assalto è stato robusto ed ha costretto il nemico – anzi i nemici – ad una mobilitazione. Contano di sicuro i fatti ma pesa la percezione nella turbolenta arena mediorientale
I dati diffusi da Tel Aviv e Washington sottolineano la capacità di fronteggiare il pericolo rappresentato da armi non proprio rapide con una serie di «trincee» progressive: i caccia, i Patriot, i sistemi Arrow e Iron Dome, una task force aeronavale, la ricognizione elettronica con velivoli e droni, il supporto logistico con le cisterne-volanti e le basi.
Usa, Gran Bretagna, Francia hanno partecipato alla missione al fianco di Israele, confermando un ottimo coordinamento in cieli affollati. Una segnalazione a parte per la Giordania intervenuta con la propria aviazione per fermare gli «intrusi» nonostante le minacce dei mullah. Il regno hashemita, nei momenti difficili, resta legato al campo occidentale, non si tira indietro.
In questi mesi non ha risparmiato critiche per il disastro umanitario a Gaza, ha espresso dissenso pubblico con Gerusalemme, ha dovuto fronteggiare proteste interne pro-Palestina, però ha deciso di associarsi al bastione a tutela del vicino israeliano. E chissà che qualche monarchia sunnita del Golfo non abbia dato una mano in incognito.
L’INCOGNITA
Joe Biden preme su Netanyahu perché si astenga da colpire in reazione l’Iran e gli dici «prenditi la vittoria». Il premier rivendica davanti ai suoi cittadini il successo e chiede unità ad un paese spaccato mentre l’ala destra del governo vorrebbe una contro-risposta. Gli ayatollah sottolineano lo show di forza (a prescindere dagli esiti) che può soddisfare la voglia di vendetta e, come in altre occasioni, promettono «misure difensive» ma se aggrediti.
Si può sperare che la chiudano, per ora, qui sventolando i risultati. Ecco di nuovo la «coreografia», i gesti teatrali, i ruoli predefiniti di «attori» di una lunga tragedia, l’idea di uno scambio quasi concordato.
Solo che le esplosioni sono state reali, i droni li hanno tirati sul serio ed esistono condizioni/motivi che rappresentano un monito. Prima l’invasione dell’Ucraina e poi l’assalto di Hamas hanno insegnato che tutto può ancora accadere.
(da corriere.it)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
LE DIMISSIONI SAREBBERO INEVITABILI
La ministra del Turismo Santanchè ha ricevuto venerdì la notifica dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari nell’inchiesta che la vede indagata per falso in bilancio relativo alla società Visibilia Editore spa, da lei fondata e di cui fino al 23 gennaio del 2022 è stata presidente.
Il filone di inchiesta in cui si ipotizza la bancarotta è “stato stralciato dal procedimento principale poiché per nessuna delle società del gruppo Visibilia è nel frattempo intervenuta dichiarazione di insolvenza”, ha precisato in una nota la Procura di Milano. Lo scorso 22 marzo alla ministra del Turismo era stato già notificato un altro avviso di chiusura delle indagini preliminari per la presunta truffa all’Inps nell’erogazione indebita della cassa integrazione in deroga Covid-19 per 13 dipendenti di Visibilia Editore e Visibilia Concessionaria. Quali ripercussioni avranno quindi queste vicende sul governo?
La scorsa settimana è stata bocciatura della mozione di sfiducia contro la ministra di Fratelli d’Italia, con la maggioranza che ha blindato Santanchè, mantenendo la linea garantista. Ma visto gli ultimi sviluppi giudiziari l’ipotesi dimissioni non è da scartare. “Nessuno mi ha chiesto di dimettermi”, aveva assicurato nelle scorse Santanchè. Ma secondo qualcuno la stessa premier Giorgia Meloni all’inizio di aprile le avrebbe chiesto almeno una riflessione, visto che i prossimi mesi saranno delicati per l’esecutivo, con la campagna elettorale per le europee, durante la quale i partiti del centrodestra si troveranno spesso su fronti contrapposti (alle europee si vota con il sistema proporzionale). Ma per il momento la premier prende tempo.
Qualche giorno fa il vicecapogruppo vicario del Senato di Fdi Speranzon aveva detto che in caso di rinvio a giudizio Santanchè potrebbe valutare anche di fare un passo indietro: “Deciderà lei, in quel caso. Nessuno glielo chiederà. Al momento non c’è alcun rinvio a giudizio e le mozioni di sfiducia a Salvini e Santanchè verranno respinte nettamente e senza problemi. In caso di rinvio a giudizio sarà Santanché a decidere che fare. Se in quel caso dovesse fare un passo indietro sarà il Presidente del Consiglio a decidere il da farsi mantenendo invariati gli equilibri nella maggioranza”
Meloni non si è ancora espressa pubblicamente sugli ultimi sviluppi giudiziari, ma è chiaro che un rinvio a giudizio per Santanchè non potrebbe essere ignorato. In quel caso le chiederebbe di lasciare il ministero.
Ma il gip, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, non si esprimerà prima dell’estate, quindi la senatrice resterà almeno fino al voto di giugno al suo posto. Nel caso in cui il gip dovesse mandare a processo Santanchè, il piano di Meloni è quello di assumere per sé, ad interim, la carica di ministra del Turismo, affidando poi il ruolo operativo al sottosegretario, che oggi non è nominato, secondo quanto ha scritto la Repubblica. In lizza ci sono il deputato Gianluca Caramanna, il vice capogruppo alla Camera Manlio Messina, il senatore Gianni Berrino, Sebastiano Pappalardo che è oggi nel cda dell’Enit, o l’assessore regionale al Turismo in Calabria Fausto Orsomarso.
(da Fanpage)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
IL CONDUTTORE HA FATTO CRESCERE LA PLATEA GIOVANE DEL FESTIVAL, DANDO SPAZIO ALLE TENDENZE SENZA IDEOLOGIA
In questi anni Amadeus è stato per la Rai la gallina dalle uova d’oro (si parla di una media di 100 milioni di introiti pubblicitari all’anno per le casse del Servizio Pubblico). Nello stesso tempo Amadeus non era esente da critiche perché le sue specificità collidevano con la linea editoriale ufficiale. Ricordiamo che con Sanremo Amadeus ha inanellato una serie di record di ascolto mai visti prima. Nello stesso tempo è stato multato su denuncia del Codacons per pubblicità occulta a Instagram
Questa presunta colpa va a colpire quella che secondo me è la migliore dote di Amadeus: la visione multimediale che implica il passaggio della tv generalista tradizionale alla Total Tv, una televisione in cui l’audience è integrata e trainata dall’interazione con gli altri media. La definizione è introdotta da Massimo Scaglioni nell’Annuario 2022 della tv “Dalla tv allo streaming”. Da tempo l’Auditel, accanto alla rilevazione dell’audience tradizionale, fornisce la Total audience comprensiva del consumo tv sul piccolo schermo e del consumo televisivo su altri dispositivi. Cito da Auditel: «Ai 45 milioni di apparecchi tv presenti nelle case degli italiani si sono aggiunti circa 75 milioni di nuovi schermi connessi: un cambiamento rilevante. Che ha inciso profondamente sulla fruizione di contenuti televisivi: non più solo familiare, ma anche individuale»
Sanremo incrementava gli ascolti, soprattutto del pubblico giovane che è il più ambito dai pubblicitari, attraverso un rapporto incrociato di commenti sui social. E non a caso i personaggi social, pur essendo spesso deludenti nelle loro performance televisive, hanno caratterizzato nel recente passato i picchi d’ascolto delle tv generaliste, da Sanremo al record di ascolti di Ferragni da Fazio, al record di Fedez da Belve della Fagnani. Secondo questa logica di Total Tv non è tanto il Festival a far pubblicità a Instagram, quanto Instagram a far da volano agli ascolti di Sanremo! Amadeus è non solo conduttore ma autore. Come tale si rivolge ad un pubblico determinato: la platea giovane dei social e dei talent televisivi. I suoi Sanremo non sono altro che la messa in bella copia dell’industria della musica che gestisce anche le nuove generazioni di artisti, tramite i talent. Reciprocamente Amadeus riesce a conferire a questo mondo di talenti emergenti credibilità ed autorevolezza facendo riferimento alla memoria storica del Festival tramite la rievocazione dei successi storici della manifestazione. Ma soprattutto tesse una rete multimediale che vuole avere nei social e nell’interazione social/musica, la sua cassa di risonanza.
n questa operazione mediatica Amadeus si distanzia in qualche modo dalla propaganda che caratterizza oggi il Servizio Pubblico. In realtà i suoi programmi danno spazio al mainstream con la ripetizione di temi come la fluidità di genere, la resilienza, l’agenda verde, ma tutto questo è gestito come un tributo dovuto allo spettacolo e non tanto e non solo come scopo dello spettacolo. Amadeus amministra le tendenze ideologiche come mode e trend giovanili e la loro esibizione come un tributo alla moda del momento e non ad una qualche forma di verità superiore. I concorrenti si presentano in veste transgender, ma ci viene risparmiata la retorica conseguente. O meglio, sono gli ospiti a fare propaganda. Quando deve farla personalmente Amadeus legge da un gobbo, con la voce asettica di Alexa (la voce di Amazon), testi precompilati. Il suo scopo finale è quello di una grande vetrina delle tendenze in corso, senza porsi il problema del significato ideologico di queste tendenze. Il copione ha funzionato e funziona a livello di ascolti, ma in una Rai dipendente direttamente dal Governo, secondo le regole dettate dalla riforma Renzi, può rivelarsi un corpo estraneo.
Analogamente l’opposizione politica non aspira che a conquistare il centro della propaganda chiedendo una maggiore centralità. Di fronte alla propaganda è preferibile il disimpegno totale e lo sviluppo delle potenzialità del mezzo. Ma la politica non può apprezzare le capacità mediatiche di Amadeus che, in una rete come la Nove possono trovare completa valorizzazione. La Nove è una rete Warner. Come tale conosce e gestisce la multimedialità. Ed è al centro di un puzzle che gradatamente sta costruendo un nuovo modello di televisione generalista intesa come Total Tv.
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
ATTACCATO ALLA POLTRONA, UN DISPERATO CHE SE PERDE POTERE FINISCE A SAN VITTORE
Matteo Salvini non ha alcuna intenzione di arretrare ed è convinto di avere già concesso ai suoi rivali interni, sempre di più, tutto quello che gli veniva chiesto. Ovvero una maggiore attenzione al Nord con la riforma Calderoli (che però difficilmente sarà approvata prima delle Europee), la celebrazione del congresso federale in autunno, un timido allontanamento dall’estrema destra che anche il “moderato” Giancarlo Giorgetti ha sottolineato: «Durante gli ultimi eventi Alternative für Deutschland non era sul palco».
Ecco perché il segretario della Lega è irritato, davanti alle bordate di Umberto Bossi che dà voce a un malessere comune per un crollo dei consensi negli antichi feudi padani. Malessere che, in modo aperto e non attraverso gli spin, hanno in qualche modo lasciato trapelare pure i capigruppo in Parlamento Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Salvini, dopo le esternazioni del Senatur nella sua villa di Gemonio, dissimula il risentimento («alle sue critiche sono abituato da 30 anni») e consegna ad Andrea Crippa, il suo vice più fidato, la risposta: «Senza Salvini la Lega non esisterebbe. Ne parleremo quando ci sarà il congresso».
Due concetti chiari, a sentire chi sta dentro l’inner circle del leader in affanno. Il primo lo spiega un deputato “lealista” lombardo: «Quelli che oggi sono andati a trovare Bossi sono gli stessi che l’hanno lasciato affondare nel fango del caso Belsito, dei diamanti in Tanzania». Il secondo concetto riguarda appunto la sfida: il numero uno di via Bellerio invita chi lo critica a confrontarsi con lui in un congresso federale che dovrebbe finalmente svolgersi entro fine anno.
Salvini vuole fare leva sul fatto di avere ancora in mano i vertici del partito, grazie allo zoccolo duro di commissari nominati ovunque, di eletti da lui messi in lista e della mole di tessere che un Sud corteggiato con la promessa del Ponte gli garantisce. Le assise locali celebrate sinora, d’altronde, premiano il segretario.
Ma molto dipenderà dall’esito delle Europee, cui Salvini guarda con apprensione, adirato anche per la campagna acquisti che Forza Itala sta facendo ai suoi danni, a partire dal Veneto dove manovra l’ex leghista Flavio Tosi. Bossi ha acceso insomma la miccia di un ordigno politico che potrebbe esplodere il 10 giugno.
In caso di disfatta, sarebbe complicato per il Capitano resistere alla pressione di chi gli rimprovera di non avere azzeccato una mossa dal Papeete in poi, con l’avanzata di un direttorio per gestire la transizione verso un’alternativa: Max Fedriga più che Giorgetti, il preferito da Bossi, che però non ha grande voglia di cimentarsi con la gestione del movimento.
Certo è che ciò che Salvini voleva evitare, la prospettiva che la ricorrenza per i 40 anni della Lega lombarda di Bossi si trasformasse in un boomerang, è puntualmente accaduto.
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
INTERVISTA AL 77ENNE GIUSEPPE LEONI, UNO DEI FONDATORI INSIEME A UMBERTO BOSSI DELLA LEGA, AL CURARO CONTRO IL CAPITONE: “IL MIO PRIMO INTERVENTO AL CONSIGLIO COMUNALE DI VARESE, NEL 1985, SE LO RICORDANO TUTTI PERCHÉ LO FECI IN DIALETTO. L’AULA ERA PIENA DI GENTE, SCOPPIÒ UN CASINO. CI FURONO TAFFERUGLI, QUALCUNO VOLEVA PICCHIARMI
Che fine ha fatto il Moroni?
«È morto»
E il Brivio?
«Morto anche lui».
E il Sogliaghi?
«Il Sogliaghi non lo so, non l’ho più visto».
Il Moroni, il Brivio, il Sogliaghi… Chi furono costoro? Nomi e volti riaffiorano alla memoria mentre parlo, nel suo studio di Vergiate in provincia di Varese, con Giuseppe Leoni, 77 anni, architetto, scultore, pittore, pianista, pilota di aeroplano, deputato della Repubblica per due legislature e senatore per cinque; ma, soprattutto, uno dei fondatori, quarant’anni fa, del partito più longevo tra quelli attualmente rappresentati in Parlamento.
Si chiamava, alla nascita, Lega Autonomista Lombarda: diventerà Lega Lombarda nel 1986, Lega Nord nel 1989, Lega per Salvini premier nel 2019. La Lega Autonomista Lombarda nacque nel pomeriggio del 12 aprile 1984 nello studio della notaia Franca Bellorini a Varese. Sul documento – registrato in tribunale il 19 aprile, spese di cancelleria lire 102.000 – si leggono nell’ordine i seguenti cognomi e nomi: Marrone Manuela (seconda moglie di Bossi), Moroni Marino rappresentante di commercio, Bossi Umberto, Brivio Pierangelo commerciante (e cognato di Bossi, avendo sposato la di lui sorella Angela), Sogliaghi Emilio Benito Rodolfo dentista, e infine Leoni Giuseppe. […]
Architetto Leoni, come sta Bossi, il vecchio capo?
«Non deambula più. Vado a trovarlo a casa sua, a Gemonio. A Pasqua volevo portarlo a messa ma diluviava e abbiamo lasciato perdere».
Che cosa ricorda di quel 12 aprile di quarant’anni fa?
«Che era la settimana prima di quella santa e non brindammo neanche perché io sono cattolico e in quaresima faccio il fioretto di non bere».
Quando avete cominciato a far politica?
«L’anno dopo. C’erano le elezioni Comunali a Varese. L’Umberto non si candidò e mandò avanti me. Fui eletto per un pelo, perché la lista prese l’1,2 per cento. Però capimmo subito che il vecchio sistema stava scricchiolando: le elezioni erano state a giugno ma il Consiglio comunale fu convocato per la prima seduta solo il 30 settembre. Era l’epoca della spartizione, tipo Varese alla Dc, Gallarate al Psi e così via. I partiti non riuscivano a trovare un accordo e Varese rischiò il commissariamento».
Ricorda la sua prima seduta in Consiglio comunale, quel 30 settembre 1985?
«Se la ricordano tutti perché io feci il mio intervento in dialetto. E siccome il quotidiano locale, La Prealpina, lo aveva preannunciato, l’aula era piena di gente, almeno duecento persone. Scoppiò un casino. Ci furono tafferugli, qualcuno voleva picchiarmi e un mio amico cominciò a muovere le mani in mia difesa. Si chiamava Alfeo Caccioli. Morto anche lui»
Ma perché fece l’intervento in dialetto?
«Perché da un pezzo i varesini avevano delegato l’amministrazione della città a degli estranei. Su quaranta consiglieri, trenta erano meridionali. Il sindaco uscente, Giuseppe Gibilisco, della Dc, era un siciliano. Il sindaco neoeletto, Maurizio Sabatini, anche lui Dc, era un romano».
Come reagì la città al suo discorso in dialetto?
«Si infiammò. La settimana dopo, se fossimo tornati alle urne, avremmo preso il 5 per cento. Capimmo che stavamo tirando fuori un sentimento che era sommerso ma molto diffuso. Io, per esempio, facendo l’architetto frequentavo molto gli uffici del Catasto, che era un covo di meridionali».
Ma lei ce l’aveva con i meridionali?
«Non ce l’avevo con nessuno, volevo solo difendere le nostre tradizioni e la nostra cultura. Ma mi insultavano, mi davano del razzista. Al secondo Consiglio comunale dissi che nell’assegnazione delle case popolari bisognava dare la precedenza ai residenti: fui denunciato e finii in tribunale. Fra interventi in Consiglio comunale e comizi ho totalizzato 27 avvisi di garanzia».
Se facevate le riunioni in un monolocale non dovevate essere in molti.
«Sérum quater gatt, eravamo quattro gatti. Io, l’Umberto, la Manuela, il Moroni e il Brivio cercavamo di coinvolgere gli amici. Il Giorgio Lozza. Il Pietro Reina. La Graziella Tenconi. Poi c’era il Dino Daverio che lavorava in Svizzera e mi aveva presentato un esperto di federalismo, l’Eros Ratti di Gambarogno. Mi parlarono di un certo Giuseppe Ferrari che era stato eletto al primo parlamento del Regno nella circoscrizione di Gavirate-Luino e alla prima seduta aveva fatto un intervento contro Cavour in nome del federalismo».
Quando arrivò la svolta?
«Con le Politiche del 1987. Per presentare le liste bisognava raccogliere mille firme per ogni circoscrizione. Ci riuscimmo solo in questa di Como-Sondrio-Varese. Convocai tutti gli amici all’Aeroclub di Vergiate e in una mattina tirammo su 800 firme».
Risultato?
«Fummo eletti in due: l’Umberto al Senato e io alla Camera. Così i giornali cominciarono a parlare di noi. Male, naturalmente. Noi parlavamo di federalismo, loro di razzismo. Ma intanto ci facevano pubblicità».
Diventaste un partito strutturato sul territorio.
«Per modo di dire. Ai primi stipendi da parlamentari, 5 milioni di lire al mese, io e l’Umberto cominciammo a pagare chi lavorava per noi. Di tasca nostra: ho qui tutte le fotocopie degli assegni. Poi, alle elezioni del 1992, la Lega poté usufruire del finanziamento pubblico e mettere in piedi una vera macchina elettorale. Fu l’anno della nostra prima grande affermazione. Il resto è storia».
Che cosa è rimasto dopo quarant’anni?
«Siamo rimasti in tre: io, l’Umberto e la Manuela. I quarant’anni li festeggiano gli altri, che non c’entrano niente».
Gli altri vuol dire la Lega di oggi?
«Sì. La Lega di Salvini è un’altra cosa. Una degenerazione. Il federalismo è diventato fascismo. Per noi soci fondatori è un pianto».
(da agenzie)
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Aprile 14th, 2024 Riccardo Fucile
CRESCONO I MALUMORI ALL’INTERNO DELLA LEGA, E QUALCHE PARLAMENTARE CREDE CHE “IL SENATÙR” ABBIA IN MENTE DI FARE LE SCARPE A SALVINI
Che fosse per celebrarlo o per denigrarlo gliene hanno dette di ogni. Da fine anni Ottanta, quando cominciò a ruggire contro «Roma ladrona», Umberto Bossi s’è preso del razzista, dell’eversore, del fascista, e Berlusconi, che usava la parola comunista alla stregua d’un insulto, un giorno spazientito gli diede pure del leninista. I suoi sul fronte opposto lo acclamavano.
Lo chiamavano Libertador come un condottiero annunciato nelle centurie di Nostradamus e nel 1987, quando per la prima volta riuscirono a mandarlo nella Capitale, lo battezzarono Senatùr, soprannome che continua a designarlo anche oggi, nonostante sia stato eletto alla Camera e sia quindi deputato
Di acqua sotto i ponti da allora ne è passata. Il 12 aprile 2024 saranno trascorsi 40 anni dal giorno in cui fondò la Lega. Un mese prima, l’11 marzo 2024, ne sono trascorsi venti dal giorno in cui per poco la malattia non affondò lui. Qual è, quale potrebbe essere oggi il nome che definisce Umberto Bossi? Quale può essere il ruolo di un uomo di 82 anni, indebolito nel fisico ma non nella mente, fondatore e presidente a vita del più longevo partito italiano?
Piazzate in alto, le telecamere di sicurezza sono puntate sul forestiero. Lassù qualcuno ti guarda, ma al citofono nessuno risponde. «Il suo nome è “Il Capo”, con la I e la C maiuscola, mi raccomando», commenta un vicino. «Qui lo chiamano tutti così. Dentro c’è gente che è venuta a trovarlo. Ne arrivano tutti i giorni. E non vengono a prendere il tè». Chi sono? Cosa li spinge fino a Gemonio? La risposta arriva da piazza Podestà a Varese, davanti alla storica sede della Lega. «Sono attivisti e dirigenti, anche figure di prima fila del partito», spiega una donna, «e vanno da Bossi perché è l’unico possibile riferimento, soprattutto in un momento come questo.
La Lega non sta attraversando un bel momento. Registriamo un crescente disagio da parte della base. Le persone non riescono a ritrovarsi in un partito a immagine e somiglianza di Salvini. L’idea delle origini è stata tradita. Senza la bussola del federalismo, la Lega s’è spostata a destra, troppo a destra. È nata come forza popolare e sta diventando sempre più populista».
Come va interpretato il pellegrinaggio a Gemonio? Casa Bossi è diventata il muro del pianto per leghisti doc delusi da Salvini? O è un focolaio di dissenso, pronto a esplodere, magari a breve, se il risultato delle Europee dovesse confermare la fase calante dei consensi?
Chiuso in casa con la moglie Manuela e i figli Roberto Libertà e Sirio, Bossi non parla. Lo ha fatto solo con l’amico Vincenzo Coronetti, direttore di Malpensa24. Una breve intervista in cui ha dribblato le domande su Salvini («Ha le sue idee, poi bisogna vedere se sono quelle giuste»), rilasciando un attestato di stima al ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti («è bravo, è il migliore, sa come si fa»).
«Diplomatico, molto diplomatico», commenta un parlamentare lombardo, che chiede di rimanere anonimo. «Fossi in Salvini mi preoccuperei. Quando l’Umberto fa così vuol dire che sta preparando qualcosa. Tra i due c’è parecchia ruggine. Bossi merita rispetto e gli uomini di Salvini hanno cercato di relegarlo in una stanzetta, all’ultimo piano di Montecitorio.
Aveva bisogno di un paio di persone che lo assistessero e non gli hanno dato nemmeno quelle. Dopo essere stato rieletto alla Camera nel settembre 2022, Bossi di fatto è sparito da Roma. Ha preferito starsene a casa, circondato dai familiari e dai militanti che ancora riconoscono in lui un capo e un faro».
All’ennesima scampanellata, il cancello di casa Bossi, si apre. Arriva Renzo, detto Trota, che dopo l’esperienza in Consiglio regionale lombardo oggi lavora nell’allevamento di bestiame e nella produzione di formaggi col fratello Roberto Libertà.
(da agenzie)
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