Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
L’AUMENTO DEI SALARI E LE NUOVE TECNOLOGIE STANNO RINNOVANDO IL VOLTO DI QUESTE PROFESSIONI
A lungo afflitti da una crisi di manodopera, i mestieri qualificati stanno nuovamente attraendo i giovani lavoratori americani, molti dei quali stanno scegliendo di abbandonare il percorso universitario. L’aumento dei salari e le nuove tecnologie stanno rinnovando il volto di queste professioni, liberandole dallo stereotipo di essere dei lavori di basso livello.
Le iscrizioni ai programmi di formazione professionale sono in aumento mentre le iscrizioni complessive ai college sono in calo. Il numero di studenti iscritti a college comunitari con orientamento professionale è aumentato del 16% lo scorso anno, raggiungendo il livello più alto da quando il National Student Clearinghouse ha iniziato a monitorare tali dati nel 2018.
Una carenza di operai qualificati, causata dal pensionamento di elettricisti, idraulici e saldatori più anziani, sta facendo aumentare il costo della manodopera, come hanno scoperto molti proprietari di case scioccati dai costi di riparazioni e ristrutturazioni degli ultimi anni.
Lo scorso anno la retribuzione media per le nuove assunzioni nel settore edile è aumentata del 5,1% arrivando a 48.089 dollari. Al contrario, i nuovi assunti nei servizi professionali hanno guadagnato 39.520 dollari all’anno, in aumento del 2,7% rispetto al 2022, secondo i dati del fornitore di servizi di gestione stipendi ADP.
Negli ultimi tempi è aumentata la domanda di apprendistati professionali, che consentono agli studenti di combinare l’esperienza lavorativa con un corso di studi spesso pagato dai datori di lavoro.
Inoltre l’ascesa dell’intelligenza artificiale sta cambiando i calcoli sulla carriera di alcuni giovani. La maggior parte degli intervistati da Jobber ritiene che i lavori dei colletti blu offrano una migliore sicurezza lavorativa rispetto a quelli dei colletti bianchi. Ma quasi l’80% degli intervistati nel sondaggio di Jobber ha affermato che i loro genitori volevano che andassero al college. Le professioni che comportano un’istruzione universitaria generalmente guadagnano di più nel tempo. Secondo ADP, i lavoratori dei servizi professionali e aziendali, ad esempio, guadagnano in media 78.500 dollari rispetto ai 69.200 dollari dell’edilizia
Il numero di falegnami negli Stati Uniti è cresciuto negli ultimi dieci anni, mentre la loro età media è scesa da 42,2 a 40,9. Lo stesso vale per gli elettricisti, cresciuti di 229.000. l’età media è diminuita di 2,9 anni.
Alcuni membri della generazione Z affermano di essere attratti dai mestieri qualificati per il loro potenziale imprenditoriale.
(da wsj.com)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
I TRE DISSALATORI DISMESSI IN SICILIA
Si legge che nella Sicilia assetata ci sono tre grandi dissalatori dismessi da vent’anni.
La domanda è una sola, e molto semplice: e perché mai? Perché in una regione arida, e in una fase climatica molto siccitosa, tutto ciò che riguarda il regime delle acque e la gestione delle acque non è costantemente in primo piano, continuamente curato, sempre aggiornato alle nuove tecnologie disponibili?
Perché, nel caso i dissalatori fossero obsoleti, non si è provveduto a rimpiazzarli?
Perché la maledetta parola “emergenza”, perenne miserabile squillo di tromba in un Paese appisolato e imprevidente, deve echeggiare con petulante stupidità quando sappiamo tutti, e da quel dì, che non c’è, né è mai esistita, nessuna emergenza, né idrica, né sismica, agricola, industriale, sanitaria, sociale, politica, istituzionale: c’è solo un costante trascurare le cose in attesa che le cose si sfascino?
La risposta che si dà al bar, in casi come questi, è: “Se non si è fatto niente, è perché nessuno ci poteva guadagnare qualcosa”.
Ma lo Stato, gli enti locali, le municipalizzate, non sono stati inventati “per guadagnare qualcosa”, semmai per spendere i soldi di tutti, perlomeno della valorosa minoranza che paga le tasse, e possibilmente spenderli bene.
Al posto delle varie Commissioni parlamentari di inchiesta costituite a vanvera, spesso con un non recondito scopo punitivo nei confronti di questo e di quello (indimenticabile, in questo senso, la Mitrokhin), si mandi in Sicilia e ovunque ce ne sia bisogno un commando di ingegneri idraulici, geologi, tecnici, maestri tubisti (esisteranno?), naturalisti, con l’incarico di aggiustare il colabrodo esistente e progettare nuovi bacini e nuovi impianti di depurazione senza scempiare il paesaggio.
E il primo che dice che la siccità è “un’emergenza”, venga dissuaso con ogni mezzo. La parola emergenza, in Italia, deve essere bandita. E sostituita con due parole di ben diverso significato: cronica imprevidenza.
(da Repubblica)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
RAHUL GANDHI, NIPOTE DELL’EX PRIMO MINISTRO INDIRA E FIGURA DI SPICCO DEL “CONGRESS PARTY”, GRIDA AL “COMPLOTTO”: “SE IL BJP VINCERÀ QUESTE ELEZIONI TRUCCATE E CAMBIERÀ LA COSTITUZIONE, IL PAESE SARÀ IN FIAMME”
Un enorme striscione campeggiava al comizio dell’opposizione riunita giorni fa a New Delhi contro il partito al governo, il Bjp del premier Narendra Modi: «Il Bjp contro la democrazia» recitava. A ribadire che in ballo nelle elezioni in India (in sette round dal 19 aprile all’1 giugno) non c’è soltanto la scelta del governo ma la sopravvivenza dello stato di diritto.
E l’opposizione, pur riunita anche questa volta in un’alleanza in vista del voto, sta arrivando con le ossa rotte all’appuntamento, sfiancata non soltanto da rivalità e divisioni interne: colpi bassi e scambi di accuse feroci tra i due schieramenti stanno infiammando la corsa. E questo malgrado i sondaggi diano il partito del premier in abissale vantaggio, come se i giochi fossero già fatti. A Modi però non basta vincere, punta a una super maggioranza con i suoi alleati, a 400 seggi su 543.
«Se il Bjp vincerà queste elezioni truccate e cambierà la Costituzione, il Paese sarà in fiamme. Questa non è un’elezione ordinaria», ha tuonato Rahul Gandhi, nipote di Indira e figura di spicco dello storico partito peso massimo della politica indiana ma lontano dalle stanze del potere da dieci anni.
La tensione tra i due schieramenti è andata oltre ogni limite quando l’erede dei Gandhi ha accusato il governo di usare l’Agenzia delle entrate per congelare i conti bancari del suo partito e impedirgli così di fare campagna elettorale. Parlando di «terrorismo fiscale». Le autorità hanno chiesto l’equivalente di 426 milioni di dollari al Congresso per presunte irregolarità risalenti a 5 e a 20 anni fa.
La polizia ha fatto irruzione nella casa del leader dell’altro grande partito dell’opposizione, il Partito dell’uomo comune (Aap): Arvind Kejriwal, governatore della regione di New Delhi e grande critico di Modi, è stato arrestato mentre si accingeva a iniziare la campagna elettorale. Kejriwal è stato preso in custodia dall’Agenzia per i crimini finanziari, con l’accusa di aver accettato tangenti per 12 milioni di dollari due anni fa, quando la sua amministrazione sperimentò per pochi mesi la privatizzazione della vendita dei liquori.
Il caso Kejriwal però si sta rivelando un boomerang per il partito di Modi dopo che sono stati resi pubblici acquirenti e destinatari dei bond elettorali, su ordine della Corte Suprema. Non soltanto è emerso che a beneficiare di questo sistema di finanziamento dei partiti introdotto nel 2018 è stato il gruppo del premier (nelle cui casse sono finiti metà dei quasi 2 miliardi di dollari donati).
A suscitare scalpore è che quasi la metà delle 30 maggiori aziende donatrici si trovava indagata da agenzie governative nel periodo in cui acquistava i bond. L’opposizione è partita all’attacco: l’esecutivo ha utilizzato le agenzie per estorcere denaro.
Non solo. Tra i super donatori c’è Sharath Reddy, il manager dei liquori diventato poi il super testimone contro Kejriwal. Accusato dagli investigatori federali nel 2022 di aver corrotto il partito di Kejriwal in cambio di licenze per gli alcolici, Reddy ha poi acquistato bond elettorali per 6,6 milioni di dollari destinati al Bjp e le accuse contro di lui sono cadute.
Martedì scorso il partito di Kejriwal ha incassato la libertà su cauzione di Sanjay Singh, altro leader di spicco indagato sempre nell’ambito del liquorgate. A intervenire è stata la Corte Suprema perché l’indagine scaturita dalle dichiarazioni di un pentito non ha trovato altri riscontri
Dal 2014, 25 leader dell’opposizione accusati di corruzione sono passati alla maggioranza, dopodiché per 23 di loro le indagini si sono arenate. Il Congresso ha cavalcato la vicenda, dando al Bjp della «lavatrice».
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
LA ASL LO SCOPRE DAI GIORNALI E FERMA TUTTO: “NON POSSONO FARLO SENZA AUTORIZZAZIONE, NON NE HANNO I REQUISITI E NON HANNO CHIESTO LA CONVENZIONE”
Dell’esistenza del primo Pronto soccorso privato in Veneto i responsabili della Ulss 9 nel Veronese lo hanno scoperto solo leggendo i giornali.
A poche ore dall’annuncio, il progetto a Legnago della clinica Domus Salutis è stato fermato dalla Regione, che attraverso l’assessora alla sanità Manuela Lanzarin sull’Arena ammette che di quell’iniziativa il suo ufficio sarebbe stato completamente all’oscuro.
Secondo Lanzarin, il progetto che prevedeva un’alternativa ai centri di emergenza degli ospedali pubblici non può essere avviata dalla Domus Salutis perché «non ne ha i requisiti».
Cosa dice la legge
Il progetto prevedeva di offrire un servizio per trattare i «codici minori», ovviamente a pagamento. Niente da fare per ora, anche perché spiega la Ulss 9, la struttura di Legnago non è neanche convenzionata con il sistema sanitario nazionale. È quindi partita la segnalazione ai carabinieri del Nas, dopo che la notizia era ormai finita sulla stampa locale. Lanzarin ricorda che, secondo la legge, anche per l’assistenza dei casi di «codice minore», non può esistere un Pronto Soccorso non inserito nella rete dell’urgenza-emergenza. «Non può essere un Pronto Soccorso privato perché non ne ha i requisiti – ha detto l’assessora – Non è strutturalmente in grado di farlo e non è convenzionato. Informare le autorità competenti e i cittadini, a tutela della salute pubblica, è un dovere delle istituzioni»
(da Open)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
DALLA CORSA ALLE TELEMATICHE ALLA FUGA DAL SUD, COSA STA SUCCEDENDO
Tra meno di 20 anni le università italiane rischiano di subire una perdita di introiti pari a mezzo miliardo di euro. Un declino attribuibile al crollo previsto del numero degli studenti, stimabile a circa 415mila iscrizioni in meno (-21,2%) entro il 2041, complice il calo demografico. Una stangata che avrà maggiore impatto sulle regioni già in difficoltà, in particolare nel Mezzogiorno. È il quadro che emerge da un recente report dell’Area Studi Mediobanca, secondo cui il crollo delle iscrizioni al Sud raggiungerà soglie superiori al 30%, soprattutto in Molise, Basilicata, Puglia e Sardegna. Questo trend di declino nel Mezzogiorno si protrae ormai da anni. Mentre il Sud crolla, il Nord cresce. Nell’ultimo decennio, gli atenei del Sud hanno registrato un calo degli iscritti del 16,7% e nelle isole del 17,1%. Al contrario, si registrano progressi al Nord con il Nord Ovest che ha visto una crescita del 17,2% e al Nord Est del 13,4%. Per contrastare gli effetti del crollo demografico, un fattore determinante è rappresentato dagli studenti stranieri che scelgono le università italiane. Tuttavia, anche in questo caso il Mezzogiorno risulta essere la destinazione meno attrattiva, con solo il 2,5% di iscritti internazionali, rispetto al 7,7% del Centro Italia e al 9,5% del Nord.
Scarsi investimenti: così restiamo indietro rispetto all’Ue
Faticano su più fronti le università italiane, soprattutto quelle tradizionali. Oltre alla spada di Damocle del calo demografico che incombe (anche) sugli atenei, pesano anche gli scarsi investimenti nell’ambito dell’educazione terziaria. In Italia, infatti, la spesa rimane ancora insufficiente, soprattutto se confrontata con altri paesi europei e quelli dell’Ocse. Secondo Mediobanca, in termini di incidenza sul Pil, l’investimento italiano si attesta intorno all’1%, rispetto alla media europea dell’1,3% e all’1,5% dei Paesi Ocse. Sulla stessa scia, sul fronte della spesa pubblica, il nostro 1,5% è al di sotto del 2,3% dell’Unione europea e del 2,7% dell’Ocse. In generale, lo Stato contribuisce al 61% della spesa per l’istruzione universitaria, rispetto al 76% dell’Ue e al 67% dell’Ocse. Il restante viene principalmente sostenuto dalle famiglie, per il 33%, in contrasto con il 14% dell’Ue e il 22% dell’Ocse.
Fondi statali del FFO in soccorso
Nel 2022, le università statali hanno generato proventi pari a 14,3 miliardi di euro, così suddivisi: il 22% da proventi propri (ad esempio, tasse degli studenti o ricavi da ricerca), il 73,4% da contributi, di cui la maggior parte del Ministero dell’Università, e il restante 4,6% da altre fonti di reddito. Tuttavia, è importante notare che dopo l’entrata in vigore della Riforma Gelmini (2010) e fino al 2016, il Fondo di finanziamento dello Stato alle università (il cosiddetto FFO) ha registrato una riduzione, mentre a partire dal 2017 è iniziata una fase di crescita, anche grazie – negli ultimi anni – ai progetti derivanti dal Pnrr, che hanno permesso di far beneficiare di importanti risorse statali aggiuntive. Nel 2022, infatti, il FFO ha raggiunto un valore di 8,656 miliardi di euro, in netto aumento rispetto ai 7,325 miliardi del 2012 (+18,2%)
Il Pnrr ci prova, ma non ci sono posti letti sufficienti
Ma quanto costa agli studenti andare all’università? linea generale, le rette universitarie delle università statali si attestano su una media di 1.374 euro, mentre le telematiche su 2.147 euro e quelle private su 7.447 euro. Chi arriva in soccorso alle università è il Pnrr, soprattutto sul fronte degli studentati, il cui insufficiente numero di posti incide negativamente sulla mobilità degli studenti, soprattutto al Sud. Non è un caso, infatti, che il Pnrr dedichi una voce specifica agli alloggi per gli studenti, destinando 970 milioni di euro con l’obiettivo di aumentare i posti per fuorisede a oltre 100.000 entro il 2026, rispetto alle circa 40mila unità attualmente disponibili. Secondo i dati dell’Anvur, i posti offerti da università, enti pubblici e regioni coprono solo il 9,4% dei fuorisede, percentuale che sale all’11% se si considera anche l’apporto degli enti privati.
Al Sud per ogni studente che arriva, dieci se ne vanno
La disponibilità di posti varia notevolmente da regione a regione. Ad esempio, in Abruzzo, ci sono quasi 90 studenti per ogni posto disponibile. In Basilicata circa 22 e in Molise 20. Si tratta, per di più, di regioni che hanno saldi migratori studenteschi negativi. In regioni come Basilicata, Calabria, Puglia e Sardegna, infatti, per ogni matricola che si iscrive, dieci studenti abbandonano la regione. Ma rapporti molto alti si riscontrano anche in regioni con forte attrattività studentesca, come in Emilia-Romagna (18,1 studenti per posto), Piemonte (10,8), Veneto (10,3) e Lombardia (7,5). Dati che evidenziano la necessità di interventi mirati per garantire, da un lato, la possibilità di scegliere di studiare in un’altra regione e, dall’altro, promuovere la permanenza nel territorio di provenienza per chi lo desidera
Schizzano le università telematiche: complementari o antagoniste delle tradizionali?
Se da un lato, preoccupano il declino degli studenti, gli investimenti e il persistente divario Nord-Sud, dall’altro emerge il tema della competizione tra diverse tipologie di università. Il sistema universitario del nostro Paese è composto da 61 atenei statali e 31 non statali, questi ultimi suddivisi in 20 tradizionali e 11 telematici. Attualmente, tutti gli atenei statali adottano un approccio tradizionale, ad eccezione della parentesi Covid che ha reso necessario ricorrere per un periodo alla modalità online. Chi pullula di iscritti sono proprio le università telematiche, le quali si trovano, però, a fare i conti con la stretta del governo in termini di standard qualitativi richiesti, soprattutto riguardo al rapporto docenti-studenti e ai tipi di contratti dei professori. Nonostante ciò, in termini di iscritti possono tutt’altro che lamentarsi, considerato che negli ultimi dieci anni sono schizzati del 410,9%. Un incremento che ha permesso loro di aumentare del 112,9% il numero di corsi offerti, del 102,1% il corpo docente e del 131,3% il personale tecnico amministrativo. Il numero di iscritti alle università tradizionali, invece, è rimasto sostanzialmente stabile, senza registrare variazioni significative né in positivo né in negativo.
D’altronde, i vantaggi delle università online, come la possibilità di seguire corsi al di fuori della propria regione riducendo notevolmente i costi e una maggiore accessibilità per i lavoratori, le rendono particolarmente competitive rispetto agli atenei tradizionali, già sofferenti. Non è un caso che il 42,8% degli immatricolati nelle università telematiche sia residente nel Meridione, rispetto al 35,6% degli immatricolati nelle università tradizionali. Chi tiene alto il livello in termini di performance, seppur su un altro fronte, sono proprio gli studenti. Nel 2022, il 77,2% degli studenti era regolare o in corso, in netto miglioramento rispetto al 66,6% del 2012. E a migliorare è anche il voto medio di laurea con cui escono gli studenti, la cui media è passata da 101 su 110 a 104 su 110.
Verso la Programmazione Triennale delle Università
Tuttavia, le telematiche sono sotto torchio dai decreti degli ultimi anni e su cui è in corso una discussione per definire i requisiti minimi, la sostenibilità finanziaria, il rapporto fra docenti a contratto e di ruolo – che al momento è notevolmente sbilanciato verso i primi – e la modalità di erogazione dei corsi. A fronte di questo quadro generale, fondamentale sarà il parere del Consiglio universitario nazionale – previsto per il 9 aprile – sulle linee generali d’Indirizzo della Programmazione Triennale delle Università 2024-2026, la quale fornisce un quadro di insieme all’interno del quale ogni ateneo potrà valorizzare la propria autonomia nelle politiche di internazionalizzazione, offerta formativa, servizi agli studenti e sviluppo delle politiche del personale e della ricerca.
(da Open)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
IL QUOTIDIANO SPAGNOLO DEDICA UNA PAGINA INTERA ALLE CONCENTRAZIONI EDITORIALI A FAVORE DELLA PREMIER… CON RAI, MEDIASET E STAMPA IN MANO AD ANGELUCCI VERSO UN REGIME ORBANIANO
Il caso dell’Agi finisce al centro dell’interesse internazionale. “Meloni vuole tutto il potere mediatico”: titolo inequivocabile, una pagina intera su El Paìs, il più autorevole quotidiano in lingua spagnola nel mondo.
Dopo gli anni di Silvio Berlusconi, l’Italia sta per diventare nuovamente un’osservata speciale per le concentrazioni editoriali che si sono venute a creare a favore della destra e del governo di Giorgia Meloni.
L’articolo del corrispondente da Roma Daniel Verdù mette in fila i fatti e racconta di come Meloni «sia riuscita a controllare i media pubblici», a superare la lottizzazione con un dominio senza precedenti su tutte le reti Rai, ad «avere l’appoggio della principale holding di comunicazione televisiva privata italiana», Mediaset, e a essere spalleggiata dai giornali del gruppo Angelucci. Ampio spazio viene dedicato alla vicenda dell’Agi, la seconda agenzia di stampa italiana che Eni, azienda partecipata dal ministero dell’Economia, starebbe per vendere al gruppo che fa capo ad Antonio Angelucci, imprenditore con interessi nella sanità privata, deputato della Lega e editore del principale polo di quotidiani di destra (Il Giornale, Libero, Il Tempo).
La premier, definita dal Paìs «particolarmente bellicosa con la stampa critica», si sta ora muovendo «verso una concentrazione di giornali, televisioni e radio collegate che culminerà probabilmente con la vendita dell’agenzia Agi nei prossimi giorni».
Una «strana operazione», secondo il quotidiano che ha cercato senza risposta Angelucci: «Il Ministero dell’Economia è cioè l’azionista di maggioranza della società, che deve decidere la vendita di un pezzo fondamentale dell’informazione italiana a un deputato della Lega» che è «il più ricco della Camera» e «con il più alto tasso di assenteismo», e che «ha già più che dimostrato nei suoi resoconti mediatici la sua vicinanza alla Meloni».
Un esempio, ricorda il Paìs, è la prima pagina di fine 2023 di Libero: «“L’uomo dell’anno”, aveva titolato qualche mese fa, inserendo una foto del leader del partito ultra Fratelli d’Italia, che occupava l’intera copertina di un suo giornale».
A guidare Libero era arrivato da pochi mesi Mario Sechi, ex direttore dell’Agi, ed ex portavoce di Meloni. Una storia di porte girevoli che La Stampa ha ampiamente raccontato e che rivelano il ruolo del direttore – confermato al Paìs da fonti interne all’agenzia di stampa – come mediatore nella triangolazione tra i suoi ex datori di lavoro (Eni e Meloni) e il suo attuale editore.
Perché Angelucci sarebbe interessato all’Agi? «Alcune voci all’interno dell’azienda – ha verificato la testata spagnola – indicano che i piani prevederebbero la creazione di un servizio di notizie che distribuirebbe articoli completi per i quotidiani locali, più piccoli. Soprattutto nel Nord Italia, dove Angelucci vorrebbe che le sue aziende sanitarie fossero più presenti – ora le sue aziende hanno sede al Centro Italia – e dove, secondo i lavoratori, avrebbe intenzione di spostare la sede dell’agenzia».
Il potenziale conflitto di interessi non frena le ambizioni della destra meloniana sui media.
«Mai come adesso – osserva il Paìs – un governo ha avuto il sostegno quasi unanime delle tre principali reti (Rai1, Rai2 e Rai3). Poi si è garantito la fedeltà di Mediaset, l’impero mediatico della stessa famiglia che per anni ha finanziato il partito con cui forma una coalizione di governo: Berlusconi-Forza Italia». Azienda, ricorda il quotidiano, dove lavora l’ex di Meloni «il padre della figlia, il giornalista Andrea Giambruno».
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
LA GUARDIA COSTIERA LIBICA E’ AL SERVIZIO DELLE MILIZIE DI HAFTAR, IL CUI FIGLIO SADDAM GESTISCE IL TRAFFICO DI ARMI, DROGA E IL BUSINESS DEI MIGRANTI… STIAMO FINANZIANDO DEI CRIMINALI
La tragedia di Gaza ha oscurato mediaticamente il disastro libico, tema su cui Globalist ha martellato per anni. Disastro che riconquista spazi informativi quando da una motonave italiana gentilmente donata a quell’organizzazione a delinquere denominata Guardia costiera libica – memorabili sono gli articoli in proposito di Nello Scavo per Avvenire e i servizi di Sergio Scandura per Radio Radicale – viene aperto il fuoco contro la Mar Ionio e quanti erano impegnati in un’opera di salvataggio in mare.
Stato fallito
Cosa sia da anni la Libia, Globalist lo ha documentato in decine di articoli, report, interviste: uno Stato fallito, dove a dettar legge sono signori della guerra in combutta con tribù in armi e le peggiori organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani. Solo il governo Meloni-Piantedosi continua a chiudere gli occhi di fronte a questa realtà.
Di cosa si tratti, lo riporta un lancio di Agenzia Nova: “L’inviato delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha affermato che ormai nessuna istituzione del Paese nordafricano gode più di piena legittimità, invitando a formare al più presto un esecutivo unificato per porre fine all’attuale divisione nel Paese. In una conferenza stampa dopo una visita alla città di Tarhuna, 65 chilometri in linea d’aria a sud di Tripoli, il capo della Missione di sostegno delle Nazioni Unite (Unsmil) in Libia ha auspicato l’avvio di un nuovo percorso che possa contribuire a unificare il Paese e consentire una riconciliazione nazionale. Bathily ha dichiarato che la Libia sta attraversando anche una crisi economica, resa evidente dal crollo del valore del dinaro libico, denunciando una diffusa corruzione finanziaria. “Esorto i leader libici a imparare dalla storia per evitare il ripetersi di episodi oscuri. Raggiungere un accordo politico attraverso il dialogo, anche su un governo unificato, è fondamentale per tenere le elezioni, ripristinare la legittimità delle istituzioni libiche e garantire una pace duratura”, ha scritto Bathily su X (ex Twitter)”.
La politica indecente
Annota su Nigrizia Gianni Ballarini, in un report di grande spessore analitico, proprio di una rivista e di un giornalista, dalla schiena dritta: “Le vie della politica sono infinite. Spesso assumono i contorni del paradosso. Talvolta dell’indecenza. Protagonisti di questa ennesima puntata indecorosa sono il ministro dell’interno Matteo Piantedosi e una delegazione governativa che comprendeva il viceministro Edmondo Cirielli e il direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE), Giovanni Caravelli.
Cosa è successo. Su Facebook dell’ufficio informazioni dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (ENL) è stata pubblicata una nota che rivela come il generale Khalifa Haftar abbia ricevuto ieri a Bengasi «una delegazione di alto livello del governo italiano» guidata, appunto, da Piantedosi.
Il curriculum di Haftar
Khalifa Haftar è il signore della guerra della Cirenaica che ha sulle spalle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità durante il secondo conflitto civile libico (2019-2020). Ma la lista dei suoi reati è lunga come quella della spesa. Basta leggere il suo “curriculum su Wikipedia”.
Gli omaggi italiani
Non è la prima volta che il governo di destra italiano si presenta alla corte dell’uomo forte della Cirenaica. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel giugno del 2023, si è recata a omaggiare il generale. E lo stesso Giuseppe Conte ha ossequiato «l’amico Haftar», una persona di cui «mi fido molto» in occasione del vertice di Palermo nel novembre 2018.
Rapporti così stretti tra Conte e il generale, che un paio di anni dopo, dicembre 2020, l’allora presidente del Consiglio con il ministro degli esteri Luigi di Maio si sono recati a Bengasi a trattare con Haftar la liberazione dei 18 pescatori italiani tenuti in ostaggio per 108 giorni dalle milizie libiche.
L’apprezzamento per i trafficanti
E stavolta perché è così paradossale la visita di Piantedosi & co? All’incontro di Bengasi non era presente solo papà Haftar, ma anche due suoi figli: Khalifa e il fratello Saddam.
Davanti alla famiglia che controlla l’area orientale della Libia, Piantedosi ha espresso l’apprezzamento dell’Italia per il ruolo dell’ENL «nel combattere il terrorismo e l’estremismo, e per i suoi significativi sforzi tesi a ridurre l’immigrazione clandestina».
Infine – conclude la nota – i funzionari italiani «hanno dichiarato il sostegno del governo italiano a tutti gli sforzi volti a rafforzare il processo politico e a tenere elezioni presidenziali e parlamentari in Libia».
Forse il ministro non è stato messo al corrente – o forse si è ispirato alle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano del male – che la famiglia Haftar è proprio tra i principali trafficanti di essere umani.
Il ruolo di Saddam
In modo particolare il figlio Saddam. Come ha raccontato Nigrizia nel numero di marzo della rivista, il trentatreenne figlio minore dell’ottuagenario Khalifa è diventato l’indiscusso signore della guerra della Libia orientale.
Negli anni ha diversificato il suo “business”. Oltre al racket e ai rapimenti basati sui riscatti, controlla il mercato della droga e del traffico di armi, gestisce il mercato illegale di oro e dei rottami metallici prelevati da fabbriche confiscate.
Il business sui migranti
Tuttavia, per lui l’affare più lucroso, oggi, si chiama migranti. Un business possibile grazie alla complicità dell’Europa. Bruxelles, infatti, consente a Saddam e ai suoi scagnozzi di realizzare due affari contemporaneamente: guadagnare dal controllo in partenza di esseri umani e dal riportare in Libia gli stessi su indicazione di Frontex. E l’uomo si muove pure sul piano politico a livello regionale. Non è un mistero che ha rafforzato i legami con gli Emirati Arabi Uniti con i quali sostiene le milizie del generale Hemeti in Sudan, fornendo loro armi. Una collaborazione che fa scricchiolare la storica alleanza con l’egiziano al-Sisi che preferisce Khalid Haftar a Saddam nell’area che considera strategica per i suoi interessi. Piantedosi, spogliato da ogni riserva etica, si basa solo sull’aritmetica dell’approccio contenitivo del fenomeno migranti”.
Più chiaro di così.
“Meloni, non ci fai paura”
Così come più chiaro non poteva essere il messaggio lanciato da Luca Casarini, capo missione della ong Mediterranea, dopo il fermo imposto alla Mare Jonio. “Le Autorità hanno notificato al comandante e all’armatore il provvedimento con multa fino a 10mila euro e il fermo amministrativo”, ha reso noto la ong. Secondo quando si apprende, gli operatori della ong sono accusati “di aver istigato la fuga dei migranti per sottrarsi alla guardia libica”. Due giorni fa la guardia libica aveva sparato contro Mare Jonio mentre operava un salvataggio in zona Sar libica (acque internazionali), salvando 56 persone. Successivamente è stato assegnato il porto sicuro di Pozzallo, dove poi è stato comunicato il provvedimento di fermo di 20 giorni in base al decreto Piantedosi.
Fermo che la ong Mediterranea considera una “rappresaglia” e sostiene imposto “sulla base delle accuse false della cosiddetta guardia costiera libica”.
Ribadendo di aver soccorso in acque internazionali 56 persone “nonostante l’attacco a colpi di arma da fuoco dei libici”. Mediterranea ha spiegato di aver raccolto anche 11 persone che si sono gettate in acqua dopo essere state prese a bordo dalla guardia costiera libica.
“Di fronte al salvataggio e nonostante le documentate raffiche di spari dei miliziani contro la Mare Jonio, la risposta del governo italiano è stata di sequestrare la nave. E nel provvedimento si incolpa la Mare Jonio per la fuga delle persone dai carcerieri libici camuffati da guardia costiera, finanziati dall’Italia”, attacca Casarini. “Il comportamento della cosiddetta guardia costiera in mare è stato criminale, come documentato e testimoniato”.
Le persone venivano frustate davanti ai nostri occhi, per questo si sono gettate in acqua. Non abbiamo invitato nessuno a gettarsi in acqua, abbiamo fatto solo quello che ci impone il diritto. Ci hanno notificato delle menzogne per imporci il secondo fermo amministrativo per la Mare Jonio”, ha raccontato in conferenza Denny Castiglione, capomissione della Missione 16 di Mediterranea. Che invece si interroga sulla fine di quanti non è riuscito a salvare, “visto il trattamento riservato loro dai libici”. “I soccorritori sono stati testimoni prima di percosse date sul ponte della motovedetta a persone che volevano scappare e che abbiamo documentato – aveva già raccontato Casarini dopo lo sbarco a Pozzallo – Uno dei sopravvissuti ha una ferita alla testa, è stato colpito con un calcio di fucile. Poi gli spari che hanno generato il panico. I proiettili sono arrivati ad un metro dai soccorritori”.
Mediterranea ha diffuso il video dell’attacco, con scene che testimoniano il panico, migranti che si buttano in mare per paura di essere colpiti, altri che dalla motovedetta sembrano essere spinti in acqua proprio dai libici. “Quando mai si spara per soccorrere? E a sparare sui soccorritori della Mare Jonio è stata proprio la motovedetta Fezzan 658, già appartenuta alla Guardia di Finanza e donata proprio dal governo italiano ai miliziani libici. Colpi di kalashnikov in aria, poi in acqua, verso i soccorritori e i migranti. Inaccettabile”. Alla fine della conferenza, Casarini ha mandato un messaggio alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Non ci fai paura, noi continueremo a pensare che è giusto salvare vite, questi provvedimenti non ci f
ermeranno, noi continueremo”.
Assuefazione colpevoleNe parla Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italy, ong che da anni opera nel Mediterraneo centrale e fa parte della flotta civile, sempre più ristretta a causa delle politiche di criminalizzazione del governo, in una bella intervista a firma Marika Ikonomu su Domani: “Da anni documentiamo questi episodi, in alcuni casi li abbiamo subiti e in altri li abbiamo testimoniati con le missioni di monitoraggio aereo, un’azione di denuncia importante. Le nostre testimonianze sono state portate davanti alla Commissione europea, alle commissioni Esteri e Difesa in Italia, proprio nel momento in cui venivano discussi gli accordi con la Libia e i finanziamenti delle missioni militari internazionali dell’Italia all’estero. Ma sembra non esserci alcuna testimonianza sufficiente a fermare un’intenzione politica chiara, di contenimento. Le attuali politiche italiane ed europee trattano la migrazione come polvere da spazzare sotto un tappeto, che si chiama nord Africa. Al costo di scendere a compromessi assolutamente inaccettabili, quando stipulano accordi con paesi terzi. Com’è possibile accettare che le autorità libiche sparino addosso a cittadini europei, che stanno portando avanti un’operazione di soccorso nel pieno rispetto del diritto internazionale?
E lo facciano peraltro da motovedette che appartenevano alle autorità italiane. Come è possibile definire soccorso in mare l’operazione di aggressione di ieri? Ricordo un episodio del 6 novembre 2017, pochi mesi dopo l’accordo con la Libia. Durante un naufragio, ci spararono. C’erano persone in acqua e almeno 20 di loro hanno perso la vita, altre sono state soccorse da Sea Watch e altre ricondotte in Libia. In quell’occasione c’era anche un elicottero della Marina militare italiana, si sentiva il pilota gridare alla motovedetta libica di spegnere il motore perché stavano uccidendo una persona. «Stop the engine, stop you are killing a person!», erano le parole di un ufficiale che si trovava davanti a una situazione simile a quella di ieri. Però allora questo caso fece notizia e partì un appello importante alla Cedu”.
E all’intervistatrice che le chiedeva quali fossero oggi gli interlocutori politici delle Ong, Linardi consegna una considerazione amara, ma tutt’altro che remissiva: “L’attività di soccorso in mare prima aveva una risonanza politica più forte. Ma c’è stata anche una strumentalizzazione, come dicevo prima. Noi continuiamo ad avere interlocuzioni con le figure politiche che si sono sempre interessate al tema, e che cercano di portare queste questioni in parlamento. Ma il livello generale di interesse è minore, rispetto ad anni fa. Continuano a ripetersi situazioni estreme senza però che vi sia un impatto. Vediamo immobilismo di fronte alle nostre azioni di denuncia, alle tragedie o agli atti di violenza. È un tema alto nell’agenda europea ma le politiche si sviluppano in direzione opposta. In generale, penso che ci sia un problema di narrazione. Manca lo spazio a una narrazione positiva della migrazione. Quello che succede in mare è tragico, ma manca un lavoro di soggettivizzazione di queste persone. Dare spazio alla loro voce, al dopo, a ciò che succede di positivo”.
(da Globalist)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO DI CATENO DE LUCA: “SE MI TOLGONO LA SCORTA COMBATTERO’ DA SOLO”
Il Capitano Ultimo risponde con un filo di voce. «Sono stato operato alle corde vocali», dice. «Quindi deve accontentarsi di questo tono basso».
Va bene. Del resto non sono le parole a riportarla sulla scena pubblica ma quel gesto, togliere il passamontagna…
«Non era programmato. Mi è venuto spontaneo quando ho cominciato a parlare. Non è che la gente può votare una persona in maschera, hanno diritto di guardarmi in faccia. E come ho detto: è stato un gesto d’amore per il popolo, per continuare a servirlo con la stessa umiltà che ho avuto da carabiniere. Sono sempre stato e sempre sarò un carabiniere degli ultimi».
La mafia — e lei lo sa bene — non dimentica e non perdona. Non ha paura che i mafiosi vedano questo gesto, questa candidatura, come una sfida?
«Devo dire la verità, un po’ di preoccupazione ce l’ho. Per la mia famiglia soprattutto. A casa non mi dicono nulla ma so bene che sono preoccupati. Però sono anche certo che l’amore vince su tutto ed è questo che conta».
Lei oggi è un generale in congedo.
«Sì, ma sono rimasto Capitano. Sono quello della squadra Crimor che catturò Totò Riina, gli altri gradi sono ridicoli. E le dirò di più: l’Arma dei generali mi ripugna, non mi appartiene. Io sono dell’Arma della gente, delle piccole stazioni, dei figli del popolo che ho a cuore e che abbraccio».
Lei ha sempre la scorta, giusto?
«Sì. Come sa è un argomento complicato ormai da sette anni. A settembre il Consiglio di Stato deciderà definitivamente se Bagarella è ancora pericoloso per me oppure no. Nel frattempo è venuto fuori che nel carteggio per decidere questa storia della scorta non ci sono i verbali dei collaboratori che raccontano dei piani per uccidermi. E sa cosa fa l’avvocatura dello Stato?»
Cosa?
«Dice che siccome Riina è morto il pericolo non esiste più. E quel che disse di me Provenzano? E il progetto di Bagarella per farmi fuori? Niente. I verbali non ci sono quindi il pericolo non c’è. E in questi sette anni avessi ricevuto una telefonata da un ministro, un prefetto…»
Deluso da tutti quanti?
«Beh, uno Stato che tratta così la vita di una persona… Dispiace. Ora il Consiglio di Stato ci dirà se Bagarella non è più un pericolo, ma se non lo è allora non ha senso tenerlo al 41 bis. E comunque posso dire una cosa?»
Dica.
«Se mi tolgono la scorta combatterò da solo. Del resto mi chiedo: ha senso avere una scorta contro il parere dei ministri degli Interni che si sono susseguiti in questi anni e contro il parere del comandante dei carabinieri?»
Torniamo alla candidatura. Come ha conosciuto Cateno De Luca?
«Lo conosco da quand’ero in Calabria a fare l’assessore con Jole Santelli. Ho visto una persona umile e per me l’umiltà vince».
Ha provato a immaginarsi eletto?
«Sì. Mi vedo come una persona che si dona al popolo. Noi faremo una lotta e una politica diversa, non quella dei potentati e dei partitoni».
Ci faccia degli esempi.
«Per esempio: faremo una lotta alla mafia in cui verranno sciolte le cosche, non i Comuni per infiltrazione mafiosa. Non allontaneremo dalla Sicilia una ragazza violentata perché qualcuno l’ha minacciata ma manderemo via lui, quello che l’ha minacciata. Non daremo la scorta a un uomo o a una donna in una città e non in un’altra, sennò la sua protezione è una commedia. Saremo attenti ai diritti dei sindacati dei carabinieri, spesso bistrattati dai vertici. Chiederemo il parere degli studenti delle scuole superiori per gli interventi comunali di programmazione urbanistica: per capire che cosa pensano e che città vogliono i ragazzi…».
Ha ancora le sue aquile reali Wahir e Lacrima?
«Certo. Sono sempre con loro in memoria del genocidio dei nativi americani e gli Apache delle bianche montagne».
E adesso che ne farà del suo passamontagna?
«Lo terrò sempre in tasca per ricordarmi da dove vengo e per ricordare una lotta che sarà finita solo quando le mafie saranno annientate».
(da agenzie)
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Aprile 7th, 2024 Riccardo Fucile
GLI EX SECESSIONISTI VOGLIONO PARLARE SOLO DI AUTONOMIA REGIONALE E NON DI SICUREZZA E MIGRANTI
«Qua un po’ di Dna della Lega si respira». Quando la battuta sfugge in modo un po’ goffo a Maurizio Fugatti, presidente della provincia di Trento. Matteo Salvini per un attimo alza la testa china sul cellulare. Poi si rituffa nelle sue letture. Invece la platea di amministratori, quadri e militanti che il capogruppo leghista alla Camera, l’alessandrino Riccardo Molinari, ha riunito al museo dell’Auto di Torino per discutere di autonomia applaude convinta.
E poco dopo saluta con un’ovazione quasi liberatoria le parole del ministro Roberto Calderoli: «In Italia abbiamo il Pordoi, che è come essere in Austria, Livigno che è come stare in Svizzera e poi Lampedusa che non è a livello della costa del Nord Africa ma ben più giù».
Si respira un’aria un po’ retrò dentro questa sala stracolma, dove riecheggiano le parole dell’ordine dell’«Umberto» (Bossi, ndr): il Sud che sperpera i soldi sottratti al Nord, il buongoverno contro l’assistenzialismo. Salvini, che di fatto inaugura la campagna elettorale per le Europee, abbozza.
Il popolo leghista del Nord in questo momento è più sensibile al portafogli – l’autonomia vuol dire gestirsi le risorse a casa propria, il piano casa per tanti vuol dire togliersi un bel po’ di impicci – che alla sicurezza o all’immigrazione. E infatti il leader si mette in scia: «La Lega nasceva quarant’anni fa parlando di autonomia e adesso, in occasione di questo anniversario, la stiamo per portare a casa. Quando? In estate, non importa se prima o dopo le Europee, ma manteniamo la nostra promessa originaria e la dedichiamo a chi ci chiede dove va la Lega: nel solco delle sue origini, la nostra è una storia di coerenza».
Certo, il vice premier non manca di ricordare le tappe del suo tour elettorale: Bari, Napoli, Potenza («dove abbiamo un sindaco, e chi l’avrebbe mai immaginato quarant’anni fa»). Lo fa per rivendicare la sua direzione: «Cambia il mondo e quindi cambia anche la Lega, che ha fatto una scelta nazionale che però non toglie nulla alla nostra storia». Ma è una precisazione quasi d’ufficio. Aprire la campagna verso il 9 giugno radunando i presidenti di Regione del Nord per suonare la grancassa dell’autonomia è più di un manifesto: è la concessione a chi nel partito da tempo chiede di tornare a parlare alla propria gente. Al Nord.
C’è chi lo fa in toni istituzionali, come il presidente del Friuli Massimiliano Fedriga: «L’autonomia differenziata è una priorità ed è importante approvarla per dare una nuova opportunità al Paese, tutto. Dire che il Sud non ne è all’altezza vuol dire mentire e umiliarlo».
C’è chi si accalora, come il governatore veneto Luca Zaia: «È un’assunzione di responsabilità che la Lega ha il merito di portare in un Paese dove ce n’è poca. Finiamola con il dire che i soldi vanno al Nord. Sono balle. La verità è che qualcuno li gestisce bene e altri no. La risposta non può sempre essere l’assistenzialismo ed è vomitevole che si dica che se non ti curo bene è per colpa di qualcun altro».
c’è chi, come il capogruppo alla Camera Molinari, dà il senso di un’offensiva che mira anche a depotenziare sul nascere il premierato tanto caro a Giorgia Meloni: «Il ruolo della Lega in questa maggioranza e in questo governo è bilanciare la spinta della destra nazionalista e centralista che promuove il premierato. Noi siamo la forza riformatrice: oggi con l’autonomia, domani con il ritorno alle province elettive».
Ma è il padre della riforma, Calderoli, a rispolverare tutto il repertorio caro alla platea. «Ormai consumo quantità industriali di farmaci per il mal di stomaco. Mi dicono che voglio dividere l’Italia; ma se è già divisa in sei-sette parti. Mi dicono che scuola e sanità non funzioneranno per colpa mia; perché, adesso funzionano? E se sono un disastro non sarà colpa di come sono stati gestiti finora ‘sti benedetti soldi?»
Cita le classifiche Ocse sull’istruzione: «Come mai la maggior parte delle risorse vanno nelle zone dove gli studenti sono più ignoranti e sono in fondo alle graduatorie? Chi prende più soldi ha i risultati peggiori eppure al diploma la lode viene concessa a tutti. E allora qualche controllatina va data».
(da la Stampa)
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