LIBIA, I CRIMINALI IN DIVISA SPARANO SU CHI SALVA I MIGRANTI: FINANZIATI E ARMATI DALL’ITALIA
LA GUARDIA COSTIERA LIBICA E’ AL SERVIZIO DELLE MILIZIE DI HAFTAR, IL CUI FIGLIO SADDAM GESTISCE IL TRAFFICO DI ARMI, DROGA E IL BUSINESS DEI MIGRANTI… STIAMO FINANZIANDO DEI CRIMINALI
La tragedia di Gaza ha oscurato mediaticamente il disastro libico, tema su cui Globalist ha martellato per anni. Disastro che riconquista spazi informativi quando da una motonave italiana gentilmente donata a quell’organizzazione a delinquere denominata Guardia costiera libica – memorabili sono gli articoli in proposito di Nello Scavo per Avvenire e i servizi di Sergio Scandura per Radio Radicale – viene aperto il fuoco contro la Mar Ionio e quanti erano impegnati in un’opera di salvataggio in mare.
Stato fallito
Cosa sia da anni la Libia, Globalist lo ha documentato in decine di articoli, report, interviste: uno Stato fallito, dove a dettar legge sono signori della guerra in combutta con tribù in armi e le peggiori organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani. Solo il governo Meloni-Piantedosi continua a chiudere gli occhi di fronte a questa realtà.
Di cosa si tratti, lo riporta un lancio di Agenzia Nova: “L’inviato delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha affermato che ormai nessuna istituzione del Paese nordafricano gode più di piena legittimità, invitando a formare al più presto un esecutivo unificato per porre fine all’attuale divisione nel Paese. In una conferenza stampa dopo una visita alla città di Tarhuna, 65 chilometri in linea d’aria a sud di Tripoli, il capo della Missione di sostegno delle Nazioni Unite (Unsmil) in Libia ha auspicato l’avvio di un nuovo percorso che possa contribuire a unificare il Paese e consentire una riconciliazione nazionale. Bathily ha dichiarato che la Libia sta attraversando anche una crisi economica, resa evidente dal crollo del valore del dinaro libico, denunciando una diffusa corruzione finanziaria. “Esorto i leader libici a imparare dalla storia per evitare il ripetersi di episodi oscuri. Raggiungere un accordo politico attraverso il dialogo, anche su un governo unificato, è fondamentale per tenere le elezioni, ripristinare la legittimità delle istituzioni libiche e garantire una pace duratura”, ha scritto Bathily su X (ex Twitter)”.
La politica indecente
Annota su Nigrizia Gianni Ballarini, in un report di grande spessore analitico, proprio di una rivista e di un giornalista, dalla schiena dritta: “Le vie della politica sono infinite. Spesso assumono i contorni del paradosso. Talvolta dell’indecenza. Protagonisti di questa ennesima puntata indecorosa sono il ministro dell’interno Matteo Piantedosi e una delegazione governativa che comprendeva il viceministro Edmondo Cirielli e il direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE), Giovanni Caravelli.
Cosa è successo. Su Facebook dell’ufficio informazioni dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (ENL) è stata pubblicata una nota che rivela come il generale Khalifa Haftar abbia ricevuto ieri a Bengasi «una delegazione di alto livello del governo italiano» guidata, appunto, da Piantedosi.
Il curriculum di Haftar
Khalifa Haftar è il signore della guerra della Cirenaica che ha sulle spalle accuse di crimini di guerra e contro l’umanità durante il secondo conflitto civile libico (2019-2020). Ma la lista dei suoi reati è lunga come quella della spesa. Basta leggere il suo “curriculum su Wikipedia”.
Gli omaggi italiani
Non è la prima volta che il governo di destra italiano si presenta alla corte dell’uomo forte della Cirenaica. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel giugno del 2023, si è recata a omaggiare il generale. E lo stesso Giuseppe Conte ha ossequiato «l’amico Haftar», una persona di cui «mi fido molto» in occasione del vertice di Palermo nel novembre 2018.
Rapporti così stretti tra Conte e il generale, che un paio di anni dopo, dicembre 2020, l’allora presidente del Consiglio con il ministro degli esteri Luigi di Maio si sono recati a Bengasi a trattare con Haftar la liberazione dei 18 pescatori italiani tenuti in ostaggio per 108 giorni dalle milizie libiche.
L’apprezzamento per i trafficanti
E stavolta perché è così paradossale la visita di Piantedosi & co? All’incontro di Bengasi non era presente solo papà Haftar, ma anche due suoi figli: Khalifa e il fratello Saddam.
Davanti alla famiglia che controlla l’area orientale della Libia, Piantedosi ha espresso l’apprezzamento dell’Italia per il ruolo dell’ENL «nel combattere il terrorismo e l’estremismo, e per i suoi significativi sforzi tesi a ridurre l’immigrazione clandestina».
Infine – conclude la nota – i funzionari italiani «hanno dichiarato il sostegno del governo italiano a tutti gli sforzi volti a rafforzare il processo politico e a tenere elezioni presidenziali e parlamentari in Libia».
Forse il ministro non è stato messo al corrente – o forse si è ispirato alle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano del male – che la famiglia Haftar è proprio tra i principali trafficanti di essere umani.
Il ruolo di Saddam
In modo particolare il figlio Saddam. Come ha raccontato Nigrizia nel numero di marzo della rivista, il trentatreenne figlio minore dell’ottuagenario Khalifa è diventato l’indiscusso signore della guerra della Libia orientale.
Negli anni ha diversificato il suo “business”. Oltre al racket e ai rapimenti basati sui riscatti, controlla il mercato della droga e del traffico di armi, gestisce il mercato illegale di oro e dei rottami metallici prelevati da fabbriche confiscate.
Il business sui migranti
Tuttavia, per lui l’affare più lucroso, oggi, si chiama migranti. Un business possibile grazie alla complicità dell’Europa. Bruxelles, infatti, consente a Saddam e ai suoi scagnozzi di realizzare due affari contemporaneamente: guadagnare dal controllo in partenza di esseri umani e dal riportare in Libia gli stessi su indicazione di Frontex. E l’uomo si muove pure sul piano politico a livello regionale. Non è un mistero che ha rafforzato i legami con gli Emirati Arabi Uniti con i quali sostiene le milizie del generale Hemeti in Sudan, fornendo loro armi. Una collaborazione che fa scricchiolare la storica alleanza con l’egiziano al-Sisi che preferisce Khalid Haftar a Saddam nell’area che considera strategica per i suoi interessi. Piantedosi, spogliato da ogni riserva etica, si basa solo sull’aritmetica dell’approccio contenitivo del fenomeno migranti”.
Più chiaro di così.
“Meloni, non ci fai paura”
Così come più chiaro non poteva essere il messaggio lanciato da Luca Casarini, capo missione della ong Mediterranea, dopo il fermo imposto alla Mare Jonio. “Le Autorità hanno notificato al comandante e all’armatore il provvedimento con multa fino a 10mila euro e il fermo amministrativo”, ha reso noto la ong. Secondo quando si apprende, gli operatori della ong sono accusati “di aver istigato la fuga dei migranti per sottrarsi alla guardia libica”. Due giorni fa la guardia libica aveva sparato contro Mare Jonio mentre operava un salvataggio in zona Sar libica (acque internazionali), salvando 56 persone. Successivamente è stato assegnato il porto sicuro di Pozzallo, dove poi è stato comunicato il provvedimento di fermo di 20 giorni in base al decreto Piantedosi.
Fermo che la ong Mediterranea considera una “rappresaglia” e sostiene imposto “sulla base delle accuse false della cosiddetta guardia costiera libica”.
Ribadendo di aver soccorso in acque internazionali 56 persone “nonostante l’attacco a colpi di arma da fuoco dei libici”. Mediterranea ha spiegato di aver raccolto anche 11 persone che si sono gettate in acqua dopo essere state prese a bordo dalla guardia costiera libica.
“Di fronte al salvataggio e nonostante le documentate raffiche di spari dei miliziani contro la Mare Jonio, la risposta del governo italiano è stata di sequestrare la nave. E nel provvedimento si incolpa la Mare Jonio per la fuga delle persone dai carcerieri libici camuffati da guardia costiera, finanziati dall’Italia”, attacca Casarini. “Il comportamento della cosiddetta guardia costiera in mare è stato criminale, come documentato e testimoniato”.
Le persone venivano frustate davanti ai nostri occhi, per questo si sono gettate in acqua. Non abbiamo invitato nessuno a gettarsi in acqua, abbiamo fatto solo quello che ci impone il diritto. Ci hanno notificato delle menzogne per imporci il secondo fermo amministrativo per la Mare Jonio”, ha raccontato in conferenza Denny Castiglione, capomissione della Missione 16 di Mediterranea. Che invece si interroga sulla fine di quanti non è riuscito a salvare, “visto il trattamento riservato loro dai libici”. “I soccorritori sono stati testimoni prima di percosse date sul ponte della motovedetta a persone che volevano scappare e che abbiamo documentato – aveva già raccontato Casarini dopo lo sbarco a Pozzallo – Uno dei sopravvissuti ha una ferita alla testa, è stato colpito con un calcio di fucile. Poi gli spari che hanno generato il panico. I proiettili sono arrivati ad un metro dai soccorritori”.
Mediterranea ha diffuso il video dell’attacco, con scene che testimoniano il panico, migranti che si buttano in mare per paura di essere colpiti, altri che dalla motovedetta sembrano essere spinti in acqua proprio dai libici. “Quando mai si spara per soccorrere? E a sparare sui soccorritori della Mare Jonio è stata proprio la motovedetta Fezzan 658, già appartenuta alla Guardia di Finanza e donata proprio dal governo italiano ai miliziani libici. Colpi di kalashnikov in aria, poi in acqua, verso i soccorritori e i migranti. Inaccettabile”. Alla fine della conferenza, Casarini ha mandato un messaggio alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Non ci fai paura, noi continueremo a pensare che è giusto salvare vite, questi provvedimenti non ci f
ermeranno, noi continueremo”.
Assuefazione colpevoleNe parla Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch Italy, ong che da anni opera nel Mediterraneo centrale e fa parte della flotta civile, sempre più ristretta a causa delle politiche di criminalizzazione del governo, in una bella intervista a firma Marika Ikonomu su Domani: “Da anni documentiamo questi episodi, in alcuni casi li abbiamo subiti e in altri li abbiamo testimoniati con le missioni di monitoraggio aereo, un’azione di denuncia importante. Le nostre testimonianze sono state portate davanti alla Commissione europea, alle commissioni Esteri e Difesa in Italia, proprio nel momento in cui venivano discussi gli accordi con la Libia e i finanziamenti delle missioni militari internazionali dell’Italia all’estero. Ma sembra non esserci alcuna testimonianza sufficiente a fermare un’intenzione politica chiara, di contenimento. Le attuali politiche italiane ed europee trattano la migrazione come polvere da spazzare sotto un tappeto, che si chiama nord Africa. Al costo di scendere a compromessi assolutamente inaccettabili, quando stipulano accordi con paesi terzi. Com’è possibile accettare che le autorità libiche sparino addosso a cittadini europei, che stanno portando avanti un’operazione di soccorso nel pieno rispetto del diritto internazionale?
E lo facciano peraltro da motovedette che appartenevano alle autorità italiane. Come è possibile definire soccorso in mare l’operazione di aggressione di ieri? Ricordo un episodio del 6 novembre 2017, pochi mesi dopo l’accordo con la Libia. Durante un naufragio, ci spararono. C’erano persone in acqua e almeno 20 di loro hanno perso la vita, altre sono state soccorse da Sea Watch e altre ricondotte in Libia. In quell’occasione c’era anche un elicottero della Marina militare italiana, si sentiva il pilota gridare alla motovedetta libica di spegnere il motore perché stavano uccidendo una persona. «Stop the engine, stop you are killing a person!», erano le parole di un ufficiale che si trovava davanti a una situazione simile a quella di ieri. Però allora questo caso fece notizia e partì un appello importante alla Cedu”.
E all’intervistatrice che le chiedeva quali fossero oggi gli interlocutori politici delle Ong, Linardi consegna una considerazione amara, ma tutt’altro che remissiva: “L’attività di soccorso in mare prima aveva una risonanza politica più forte. Ma c’è stata anche una strumentalizzazione, come dicevo prima. Noi continuiamo ad avere interlocuzioni con le figure politiche che si sono sempre interessate al tema, e che cercano di portare queste questioni in parlamento. Ma il livello generale di interesse è minore, rispetto ad anni fa. Continuano a ripetersi situazioni estreme senza però che vi sia un impatto. Vediamo immobilismo di fronte alle nostre azioni di denuncia, alle tragedie o agli atti di violenza. È un tema alto nell’agenda europea ma le politiche si sviluppano in direzione opposta. In generale, penso che ci sia un problema di narrazione. Manca lo spazio a una narrazione positiva della migrazione. Quello che succede in mare è tragico, ma manca un lavoro di soggettivizzazione di queste persone. Dare spazio alla loro voce, al dopo, a ciò che succede di positivo”.
(da Globalist)
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