Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
DOPO UN ANNO DI INTERVISTE A RETI UNIFICATE, IL MILITARE E LE SUE IDEE MAL-DESTRE HANNO STUFATO …IL DATO SCOMPOSTO PER AREE DOVREBBE FAR RIFLETTERE IL “CAPITONE”: VENDE SOPRATTUTTO NEL NORD-EST, BACINO STORICO DELLA LEGA, E POCO O NIENTE AL SUD E AL CENTRO (DOVE VANNACCI È CAPOLISTA)
Il generale è in caduta libera, e questa volta non c’entrano i
paracadute dell’esercito. Il secondo libro di Roberto Vannacci, “Il Coraggio vince”, fa flop in libreria.
Il soldato mal-destro l’anno scorso divenne improvvisamente una celebrità con la prima fatica, “Il mondo al contrario”. Un successo clamoroso e senza precedenti nel panorama recente dello stantio mercato editoriale italiano.
Vendette la bellezza di 240mila copie. Vere. E, considerando che la gran parte di esse fu acquistata quando il volume era autoprodotto (solo successivamente è stato ripubblicato dalla casa editrice “il Cerchio”), il libro è stato in grado di cambiare la vita a Vannacci, fruttandogli, pare, più di un milione di euro.
Ma in Italia, si sa, una volta assurti alla ribalta, è facile diventare presto parte dell’arredamento. E così, Vannacci, come molte altre meteore prima di lui, ha iniziato a macinare ospitate tv, a rilasciare interviste a giornali unificati. A essere onnipresente e, di conseguenza, a stufare gli italiani.
Il risultato? “Il coraggio vince”, dall’uscita a oggi (son passati poco più di 40 giorni), ha venduto meno di 15mila copie. Proprio nel momento in cui Matteo Salvini l’ha candidato per le Europee, sperando nel suo traino per risollevare la Lega, il generale incursore ha fatto un tonfo clamoroso, il tutto nel giro di un anno.
È interessante analizzare il dato scomposto nelle sei settimane di vendita del libro: stando a quanto apprende Dagospia, infatti, dopo un inizio a circa 5000 copie, ormai si è assestato 800 copie a settimana, e se va avanti così non supererà mai le 30 mila totali. La scommessa di Salvini, insomma, potrebbe non essere così fruttuosa, soprattutto perché Vannacci vende soprattutto al nord-est, cioè nel bacino elettorale che è già della Lega, dove questa settimana ha venduto 439 copie).
Il “seggio in più” che garantirebbe il generale al partito, secondo il vicesegretario del Carroccio, Andrea Crippa, rischia di essere un miraggio: anzi, in quella zona, come si è visto dalle prese di posizione dei leghisti doc, il nome di Vannacci è kriptonite.
“Il coraggio vince”, invece, non vende praticamente niente al sud e nelle isole (33 copie questa settimana), e va maluccio anche al centro (151 copie), dove Vannacci sarà capolista.
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
SOPRA LA SOGLIA DI SBARRAMENTO DEL 4% ALLEANZA RENZIANI-BONINO (4,4%), E VERDI-SINISTRA (4,3%)… SOTTO AZIONE AL 3,5%
Nell’ultimo sondaggio di Quorum/YouTrend per Sky TG24 resta in testa Fratelli d’Italia (27,6%, in flessione dello 0,2% rispetto a una settimana fa), davanti a Pd (20,6%) e M5S (16,3%). Dietro di loro continua il duello fra Forza Italia (8,3%) e Lega (7,9%) per il ruolo di seconda forza del centrodestra.
Grande movimento attorno alla soglia di sbarramento: Stati Uniti d’Europa perde lo 0,6% e arriva al 4,4%, appena un decimo davanti ad Alleanza Verdi Sinistra (4,3%)
In leggera salita Azione (3,5%, +0,2%), che si avvicina all’obiettivo 4%. Seguono Pace Terra Dignità 2,0% (+0,1%); Libertà 1,0% (-0,6%); Un altro partito 4,1% (-0,1%); Astenuti + Indecisi 40,5% (+2,7%).
(da agenzie)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
LE PARTECIPATE SERVONO ALLA DESTRA ANCHE PER “RISARCIRE” I TECNICI NON GRADITI, DA SOSTITUIRE CON BUROCRATI AMICI… CON LA NUOVA TORNATA DI NOMINE IN ARRIVO, CI SONO 694 POLTRONE IN BALLO, TRA SOCIETÀ E ORGANI SOCIALI
La pattuglia che sconfessa lo slogan meloniano del «mai più
amichettismo» è assai nutrita. Al punto che in molti casi la “scenetta” del manager dell’Agenzia per la cybersicurezza Bruno Frattasi e del presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo, sul palco di Pescara con la maglietta in mano a sostegno di FdI, è superflua.
Perché in tanti consigli di amministrazione delle partecipate di Stato il governo del «merito come ascensore sociale», copyright di Giorgia Meloni, è pieno, strapieno, di uomini di partito o legati alla politica. Non eletti, non ricandidati, segretari di sezioni provinciali di Fratelli d’Italia e Lega oppure iscritti a Forza Italia. In questo caso la maglietta sul palco non la devono mostrare: sanno già a chi devono rispondere.
Repubblica ha contato almeno una ventina di politici che il governo ha piazzato nei cda di aziende strategiche dello Stato. A partire dalla casa madre della presidente del Consiglio, Fratelli d’Italia: Alessandro Zehentner, candidato non eletto al Senato per i meloniani, siede nel consiglio di amministrazione dell’Enel.
Insieme a Pontecorvo, nel board dell’ex Finmeccanica siede Francesco Macrì, ex consigliere comunale meloniano ad Arezzo, in rampa di lancio per una candidatura blindata alle ultime politiche. La candidatura è saltata ma già nell’autunno del 2022, appena la destra arrivò a Palazzo Chigi, disse con tono sicuro: «Avrò un incarico nazionale». Ed eccolo servito.
Con una norma fatta approvare dal Parlamento il governo ha poi creato una nuova società, la Acque del Sud, che prende il posto dell’Eipli, carrozzone che gestiva le reti idriche tra l’Abruzzo e la Puglia. A presiedere Acque del Sud è l’ex liquidatore della stessa Eipli, Luigi Giuseppe Decollanz, avvocato di Bari, con esperienza nel settore ma anche coordinatore del partito di Fratelli d’Italia nel capoluogo pugliese.
Nella provincia FdI pesca alla grande: l’ex assessore meloniano di Frosinone, Fabio Tagliaferri, è stato nominato al vertice di Ales, società in house del ministero della Cultura guidato da Gennaro Sangiuliano
Anche il partito del vicepremier Matteo Salvini è molto attivo sul fronte controllate di Stato. Pure lui ha una passione per il «merito », parola inserita nel nome dell’ex ministero della sola Istruzione, guidato oggi, in quota Carroccio, da Giuseppe Valditara. Quando c’è da scegliere la classe dirigente, Salvini guarda molto in casa.
Nei giorni scorsi nella neonata società Autostrade dello Stato, controllata al 100% dal ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti, sono stati nominati Carlo Vaghi al vertice e Christian Schiavon alla presidenza del collegio sindacale. Entrambi sono dirigenti leghisti in Lombardia e in Veneto. Per dire, il merito.
Nel cda di Leonardo siede Altieri Trifone, leghista di Conversano, provincia di Bari, mentre l’ex senatore del Carroccio Paolo Arrigoni ha ottenuto una poltroncina come presidente del Gestore servizi energetici (Gse)
L’ex assessora leghista del Friuli Venezia Giulia, Federica Seganti, siede nel cda dell’Eni, ma in quota Lega c’è anche Paolo Marchioni, ex sindaco di Omegna, nel cda di Poste, e l’ex consigliera della Regione Lombardia Francesca Ceruti nel cda di Consap insieme all’ex deputato Antonio Gennaro.
Non è da meno Forza Italia guidata dal vicepremier Antonio Tajani. Pochi voti alle urne nel 2022: molti degli allora uscenti parlamentari non hanno ritrovato lo scranno tra Camera e Senato. Ma una poltroncina di Stato comunque sì. Ed ecco quindi l’ex deputato Giuseppe Moles nel cda della società Acquirente Unico del Gse: nel cda dell’azienda madre siede anche l’ex senatrice azzurra Roberta Toffanin.
Ma le partecipate servono alla destra anche per risarcire i tecnici non graditi, che si vuole sostituire con “burocrati” amici, più in linea con l’indirizzo del governo. Non sempre, però, i “malgraditi” si possono mandare a casa direttamente.
È il caso del Ragioniere di Stato Biagio Mazzotta: Palazzo Chigi e il Mef hanno deciso che il suo mandato è giunto al capolinea, ma lui ha un contratto che scade a gennaio del 2026. Ecco allora che il governo ha deciso di “agevolare” le dimissioni, con una buonuscita che tira in ballo proprio le partecipate. Cosa di meglio della presidenza di Ferrovie da offrire al Ragioniere? Detto fatto. Ed è solo l’inizio. Ci sono 694 posti in ballo, tra società e organi sociali. In tanti già aspettano una chiamata. Come si diceva? Ah, sì, «il merito»
(da la Repubblica)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
PIETOSA BUGIA, IN REALTA’ IL GOVERNO TUNISINO NON LI VUOLE
Il governo non costruirà un hotspot per i migranti in Tunisia. Lo assicura il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, pur confermando che il modello da seguire per la gestione dei flussi migratori sia quello fondato su una cooperazione rafforzata con i Paesi di origine e transito. In un’intervista a La Stampa il titolare del Viminale afferma che l’idea di un hotspot in Tunisia “è da escludere nel modo più assoluto” perché “non ce n’è bisogno”.
Nei prossimi giorni Piantedosi incontrerà al Viminale funzionari provenienti dall’Algeria, dalla Libia e dalla Tunisia “per una importante riunione”, anche se non è ancora chiaro quale sarà il tema preciso dell’incontro.
Il ministro si limita a dire che sarà “un’altra tappa della collaborazione con i Paesi di partenza e di transito”. E spiega: “Stiamo lavorando alla condivisione di progetti di rimpatrio volontario assistito che, se funzioneranno, serviranno ad alleggerire la pressione anche nel territorio tunisino, nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone”.
Questo non significa, però, che il governo ci stia ripensando sui centri in Albania. Sono due cose molto diverse, sottolinea il ministro. Per poi spigare che i primi migranti saranno portati in Albania “appena saranno pronte le strutture per ospitarli”. Sui ritardi nel via al progetto, Piantedosi commenta: “Non conta la data di partenza, ma il risultato dell’operazione, che prevedo possa essere estremamente importante. Al progetto guardano con attenzione tutti i nostri partner europei”.
Secondo l’ultimo aggiornamento disponibile nel sito del ministero dell’Interno, dall’inizio dell’anno sono sbarcati sulle coste italiane 16.090 migranti. Secondo quanto sostenuto più volte dal governo italiano, nei centri in Albania dovrebbero essere ospitate 3mila persone al mese, ma i posti effettivamente disponibili sembrano essere molti meno. Facendo un po’ di calcoli, sorgono diverse domande sull’utilità della spesa che il governo sta sostenendo per costruire i centri in Albania, anche considerando che secondo diversi esperti del settore non è con queste due strutture che si riuscirà a favorire i rimpatri o a migliorare la logistica dell’accoglienza.
(da Fanpage)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
LA CARTA DELLA DISPERAZIONE, CIOE’ VANNACCI, NON PIACE AI MILITANTI: E’ IL MENO APPREZZATO DEI CANDIDATI LEGHISTI
Per affrontare il declino del partito, si realizza l’incrocio fra
LdS e LdV. La Lega di Salvini e la Lega di Vannacci. E ciò rende evidente la distanza, non solo storica, dalla Lega, anzi: le Leghe, delle origini.
In origine, il “territorio di riferimento” aveva caratteri economici e urbanistici molto precisi. Era, infatti, costituito dalle aree di piccole imprese e piccole città. Un ambiente “lontano da Roma” e, semmai, più “vicino all’Europa”. Vista la proiezione dell’economia e delle imprese oltre confine.
A fine decennio, per iniziativa di Umberto Bossi e Roberto Maroni, venne costituita “la Lega delle Leghe”, cioè, la “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”. Che marcò la distanza fra il Nord e il resto del Paese. Un passaggio segnato dalla marcia lungo il Po, dalle sorgenti sul Monviso alla laguna di Venezia, nel settembre 1996.
Fino al 2013, quando Matteo Salvini divenne segretario del partito. E ne cambiò l’identità e il profilo. D’altronde, nel corso degli anni, la Lega aveva subìto un declino pesante e costante, crollando al 4%, in ambito nazionale, alle elezioni del 2013, quando si presentò con il Popolo delle Libertà, di Silvio Berlusconi.
E all’11% in Veneto. […] Salvini definì e realizzò una svolta profonda. E radicale. In quando ne cambiò le “radici”. Infatti, si proiettò oltre i confini del Nord. Sotto il profilo geopolitico e dell’identità. Salvini, infatti, trasformò la “Lega Nord” in “Lega Nazionale”.
Ispirandosi al modello di successo delineato, in Francia, da Marine Le Pen, leader del Front National. Divenuta, presto, sua alleata e amica. In questo modo il partito riprende a crescere, fin dalle elezioni Europee del 2014. Quando risale sopra il 6%. Salvini, allora, precisa il suo disegno politico. Trasforma, cioè, la Lega in un “partito nazionale” di destra, sulle tracce del Fn di Marine Le Pen. Un “partito personale”. Anche nel simbolo: “Lega per Salvini Premier”.
Una scelta che dà effetti positivi evidenti, alle elezioni politiche del 2018, quando supera il 17% e diviene il terzo partito in Italia. E alle Europee del 2019 va oltre il 34% e ottiene 9 milioni di voti. Il percorso della Lega Nazionale di Salvini si compie con il governo giallo-verde, costituito insieme al M5S di Giuseppe Conte. Quando, “entrambi i partiti sperimentano il governo degli anti-partiti”. Una contraddizione che, in seguito, pagano entrambi “i partiti”.
In particolare, la Lega di Salvini, che scende rapidamente. Fino a scivolare sotto il 9%, nei sondaggi recenti condotti da Demos. E, prima ancora, alle elezioni politiche del 22 settembre del 2022, quando ha ottenuto l’8,8%. Erosa e “prosciugata”, anche nelle sue zone di forza, nel Nord, soprattutto dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Che ne raccoglie l’eredità di anti-partito […] Attualmente coloro che voterebbero per la Lega, sono stimati intorno all’8,5%. Parallelamente, è calato anche il grado di fiducia nei confronti di Matteo Salvini.
Su Vannacci, però, non sembrano esservi dubbi. È il meno “stimato” dei candidati leghisti, fra chi vota per la Lega e, a maggior ragione, fra gli elettori nell’insieme. Tuttavia, è indubbio che Salvini abbia coinvolto Vannacci per dare una svolta a un declino ormai di lungo periodo. Questa scelta, però, sembra aver indebolito la legittimazione del leader leghista, fra gli elettori nell’insieme. Che oggi gli preferiscono Luca Zaia.
Tuttavia, la posizione di Salvini nel partito appare ancora solida. Quasi 9 elettori su 10 della Lega, infatti, confermano un alto grado di consenso, nei suoi riguardi. Ben oltre gli altri leader leghisti. Compreso Bossi e lo stesso Zaia. Quasi 6 su 10 pensano che non ci sia alternativa al “capo” attuale. Neppure nel caso di un risultato deludente alle prossime elezioni Europee. Anche se, in questo caso, circa 3 elettori leghisti su 10 la pensano diversamente.
(da “la Repubblica”)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
LE LISTE SONO MOSCISSIME: MANCANO NOMI DELLA SOCIETÀ CIVILE CAPACI DI ATTIRARE CONSENSI E NON SONO STATE CONCESSE DEROGHE AL LIMITE DEI DUE MANDATI A BIG COME DI BATTISTA E RAGGI
Se più indizi faranno una prova lo si saprà solo il 9 giugno, per adesso la certezza è che il M5S non si avvicina alle Europee in ottimo stato di salute. La composizione delle liste è stata votata sul sito del partito da sole 18mila persone, poco più di un decimo degli aventi diritto di voto, cioè i 170 mila iscritti.
Mancano nomi della società civile capaci di attirare consensi fuori dai confini classici e come ampiamente previsto non c’è stata alcuna deroga o apertura a nomi della vecchia guardia, tipo Alessandro Di Battista, Virginia Raggi, Roberto Fico.
Lo scouting di Giuseppe Conte non ha sortito alcun fuoco d’artificio, perlomeno a livello comunicativo: Ugo Biggeri di Banca Etica, il direttore de La Notizia Gaetano Pedullà, la ex calciatrice e allenatrice Carolina Morace, una figura nota dell’antimafia come Giuseppe Antoci. Stop.
Per il resto ci si affida all’usato sicuro: capolista nel Nord-Ovest è l’uscente Mariangela Danzì, al Nord-Est l’altra uscente Sabrina Pignedoli, al Sud l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico, da sempre organico al M5S. Nonostante i sondaggi che attestano i 5 Stelle al 15-17 per cento, il combinato disposto di voti reali in Sardegna, Abruzzo e Basilicata e delle tendenze storiche è impietoso. Il terrore di finire attorno – se non sotto – il 10 per cento, è tanto.
Alle ultime regionali le liste del Movimento hanno preso rispettivamente il 7,8 per cento, 7 per cento e 7,7 per cento. Poi come detto c’è la casistica storica. Nel 2014 il Movimento era entrato per la prima volta in Parlamento da un anno e come oggi stava all’opposizione: i sondaggi lo accreditavano attorno al 25 per cento, la campagna elettorale fu aggressiva e antisistema, si parlava di referendum per l’uscita dall’euro, piazza piene. Il M5S prese il 21 per cento.
Cinque anni più tardi: il governo gialloverde era in carica da un anno, il reddito di cittadinanza era stato appena varato e dal cilindro comunicativo uscì fuori la storia ora sepolta nella memoria del franco svizzero. I sondaggi davano i 5 Stelle tra il 22 e il 24, presero il 17.
La costante è sempre una: alle elezioni per l’Europarlamento il Movimento va sempre peggio del previsto. In testa alle ragioni che ogni volta ci si prova a dare, c’è la questione delle preferenze. Da ex non-partito senza radicamento, con personale politico ridotto e regole inflessibili per le liste — no alle candidature civetta, no ai terzi mandati, votazioni interne che premiano gli attivisti, spesso sconosciuti al grande pubblico — diventa poi difficile presentarsi con nomi da centinaia di migliaia di preferenze, che quindi possano trainare un po’ il partito.
Come nel 2014 e nel 2019, anche stavolta il M5S non ha un gruppo europeo di riferimento da indicare. Archiviata l’epoca euroscettica che portò all’alleanza con il britannico Nigel Farage, con Conte alla guida si è tentato senza successo l’accordo a Bruxelles prima con i socialisti e poi con i verdi.
Lo strattone dell’ex presidente del Consiglio a Bari e in Puglia su un tema centrale per l’elettorato (attuale, passato e potenziale) come la legalità e la “questione morale” basterà per rivitalizzare il M5S? Difficile dirlo, di sicuro da giugno in poi Conte dovrà tornare a discutere con mezzo gruppo parlamentare di un argomento che ciclicamente torna sul tavolo: il tetto ai due mandati.
Con la propria leadership indebolita, il presidente dovrà scendere a patti con chi già pensa al dopo 2027. Se invece le Europee andranno bene, il M5S già oggi diventato partito di Conte sarà contiano in purezza.
(da per la Repubblica)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
SARANTIS THANOPULOS : “SI PERDE LA DIMENSIONE DELLE COSE E CI SI ESTRNEA DALLA REALTA'”
Dottor Sarantis Thanopulos, il potere fa ammalare?![](https://i.postimg.cc/sgDm6qq2/meloni-med-1200x630-12-1200x630-1.jpg)
Il potere non fa bene né alla nostra psiche né al nostro corpo. Può essere usato come droga, perché ha un potente effetto esaltante, antidepressivo. Nelle sue forme più autoreferenziali il potere trasforma la persona che lo esercita in un personaggio separato dai propri sentimenti, assorbito dalla celebrazione rituale di sé stesso.
Il potere fa perdere peso? Modifica i valori del sangue? Alza la pressione arteriosa?
La costante tessitura di azioni a difesa del proprio dominio e l’assenza di uno scambio vero e significativo con gli altri comprimono le emozioni. Questo ha delle conseguenze inevitabili sulla salute del proprio corpo.
Si moltiplicano i retroscena e le voci secondo le quali la premier viva sempre più spesso con costernazione, a volte con sincera difficoltà, la sua residenza a palazzo Chigi.
Sarebbe del tutto comprensibile e tutto sommato naturale. Viviamo in un mondo performante in cui è molto importante mostrare che stai facendo qualcosa, piuttosto che avere le idee chiare su quello che fai. Non hai il tempo necessario per formarle. Figuriamoci per realizzarle. Si agisce invece che sentire e pensare. Piuttosto che trovare nel confronto con l’altro uno spazio di ampliamento e arricchimento del proprio pensiero, vivi la sua presenza in termini di costante competizione: devi dimostrare di essere più bravo di lui. È una cosa sfibrante.
È il potere dell’uno sull’altro.
Diventa tale il potere puro, centrato sulla sua autoriproduzione. Del tutto opposto alla dimensione nobile del potere condiviso, centrato sull’interesse comune, sul miglioramento della vita collettiva.
Meloni oltre che dall’opposizione da chi deve difendersi?
Dai maschi della sua coalizione. Il suo stesso partito strutturalmente maschilista, convintamente maschilista. Non è una buona situazione per una donna. Direi che il nostro mondo continua a non essere un mondo buono per le donne.
Ma sembrano tutti devoti!
Devoti finché le riconosceranno una superiorità nel rappresentare i loro interessi. Ma convincere gli uomini dell’area politica e ideologica che lei rappresenta ciò che va bene per loro, è una fatica non indifferente. Dimostrare che fai bene nonostante sei una donna e non perché lo sei, star sempre in allerta, è cosa ingrata.
L’allerta produce stress.
Altro che! Può far ammalare anche seriamente.
In effetti fare politica ha bisogno di una perfetta forma.
I costi personali, anche fisici, sono sovente molto seri. Lo straniamento, la spersonalizzazione della propria esistenza, la rinuncia al pieno sviluppo della propria esperienza soggettiva, è una condizione logorante permanente di chi esercita grande potere.
Probabilmente risente del fatto che dovrebbe rinnovare il suo sguardo sul mondo, ma è cresciuta anche affettivamente (sul piano delle umane amicizie e simpatie) in un ambiente di prospettive davvero ristrette.
Re Carlo prima, sua nuora Kate Middleton qualche settimana dopo, sono stati colpiti da malattie piuttosto serie. Nel caso della monarchia il potere è un aggregato della propria nascita.
Vivono troppo sotto i riflettori, sull’immagine. È questo impoverisce la loro vita personale e i loro affetti. Devono far vedere, devono mostrare piuttosto che essere.
Il potere logora dunque chi ce l’ha.
Sul piano della salute psichica e fisica sicuramente. Si perde il nesso col tempo, la dimensione naturale delle cose, la relazione con i piaceri piccoli ma significativi che tessono la trama della vita. Si rischia di estraniarsi dalla realtà.
La vita cambia velocità, saporeIl potere deve essere democratico, condiviso, gestito con equilibrio nel rispetto di sé e degli altri. Diversamente diventa disumanizzante, spersonalizzante. Il potere gerarchico, volto al dominio, ci allontana dalla realtà, ci fa ammalare e, dagli il tempo necessario, ci rovina.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
UN FLORILEGIO CONTINUO DI AMENITA’ REAZIONARIE
Il cefalo Salvini naviga in superficie e ancora non lo sa, ma Roberto Vannacci, la nuova felpa elettorale della Lega, esperto pescatore di Versilia è pronto a cucinarselo sulla prossima brace di Bruxelles con il ricco contorno delle sue buie idiozie. Se incasserà tanti voti quanti libri veduti, e quante pernacchie ricevute, diventerà lui il generale della Lega, tanti saluti al cefalo che tornerà a spiaggiarsi come ai tempi comici del Papeete, estate 2019, senza neanche le pupe in tanga a saltellare sulle note dell’inno di Mameli. Se invece la sua incursione politica risulterà una grottesca esercitazione d’improperi senza incremento elettorale, bè, saranno i colonnelli della Lega, specialmente i veneti e i lombardi, a accendere sul pratone di Pontida il fuoco della congiura secessionista per fare la festa a quel che resterà di Salvini, un segretario pronto per il ripostiglio delle scope. E forse anche un ex ministro da incorporare ai 143 costosissimi progetti del Ponte sullo Stretto, destinati da mezzo secolo al macero.
Dopo 250 mila libri venduti e altrettante interviste – ultimissime perle “le scuole separate per i disabili”, e “Mussolini statista” – Vannacci s’è finalmente sfilato la vestaglietta a fiori che esibiva lo scorso Capodanno a Viareggio, per indossare i panni del candidato alle prossime Europee. Circostanza che tutti i giornali analogici, digitali, televisivi, psicosociali, hanno collocato subito dopo la notizia del Papa al prossimo G7 a dire quanto le gerarchie della politica e del buon senso stiano annegando nel marasma dell’indistinto culturale.
Candidato sicuro di sé oltre ogni ragionevole dubbio, il capomanipolo degli incursori, conquisterà il seggio per avere detto e scritto il nulla contundente che fiorisce tra i tavolini dei bar della Nazione, quando passa lo Spritz a innaffiare le chiacchiere che dal trifoglio del moderatismo conformista si voltano nella gramigna reazionaria con attitudini aggressive.
Apre il catalogo “il sacro suolo della Patria”. “L’ho difesa sotto i colpi del mortaio e della mitraglia”. Nessun sacrificio è troppo grande, compreso quello della “leva obbligatoria” per gli smidollati ragazzi italiani “che non sanno cosa sia la vita”, avendo “rinunciato alla virilità”. Dopo la patria vengono il Dio degli eserciti e la famiglia della tradizione. Dunque cristiani sempre. E abbasso la cultura gender, gli uomini con le gonne, i trans, gli omosessuali, che “mi dispiace, ma non sono normali”, detto da uno che si definisce “un maschio testosteronico”.
Segue un inchino a tutte le donne, ci mancherebbe, che devono fare le donne e possibilmente i figli. Guai alle femministe che “sono fattucchiere” di cultura “difforme” e che rivendicano l’aborto come un diritto, invece di riconoscerlo come “una infelice necessità”.
Massima allerta sugli immigrati “che sono troppi”, disturbano l’unicità dei popoli che altrimenti “diventano paccottiglia”: “Quanti ne vogliamo, cinque milioni, dieci milioni, e poi?”. La paccottiglia comprende i neri di pelle, ovvio. “L’italiano è bianco, lo dice la statistica”. Quindi la nerissima Paola Egonu, è fuori dalla statistica anche se indossa la maglia di pallavolista nazionale: “I suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”. Che invece scalda il cuore del generale – proprio come fa l’Aperol nello Spritz – dove sgocciola un intero sussidiario di antenati: “Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia di sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare, Dante, Fibonacci, Lorenzo De’ Medici, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Mazzini, Garibaldi”.
Anche se Giulio Cesare, Leonardo, Michelangelo – il generale non lo sapeva prima che l’avvertissero del misfatto – appartengono tutti a quelle “lobby gay” che tanto gli stanno sul testosterone.
Militare di carriera figlio di militari, Roberto Vannacci nasce il 20 ottobre 1968 a La Spezia. Cresce a Ravenna. Ma specialmente a Parigi dove vede per la prima volta esseri viventi di colore nero rimanendo colpito dal “netto contrasto con il bianco dei loro bulbi oculari”. Passato lo stupore, “i neri smisero di incuriosirmi”, ricorda, anche perché “tra i marmocchi con cui mi arruffavo” nei cortili di Parigi, ce n’era più di qualcuno. Straniero tra gli stranieri “mi sono sempre considerato diverso rispetto al contesto nel quale vivevo”. Da lì, il crescente amor di patria: “Ero italiano e ne facevo un punto di orgoglio”.
Indossa presto la divisa. Studia Scienze strategiche e Relazioni diplomatiche. Entra nei corpi speciali. Si laurea atleta di guerra. Va in missione in Somalia, Ruanda, Yemen, Costa d’Avorio, Iraq, Libano, Libia, Afghanistan, dove i nostri miliari, secondo i telegiornali italiani, fanno buona diplomazia, portano giocattoli e pennarelli ai bimbi indigeni. Scala la gerarchia fino alla nomina di generale della Brigata paracadutisti della Folgore, anno 2016. Tre anni dopo entra in urto con le gerarchie militari sul tema spinoso dei proiettili all’uranio impoverito, veleno per i soldati nei teatri di guerra. Vannacci non sta zitto, accusa l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone di avere mentito alla Commissione parlamentare presieduta da Gian Piero Scanu, deputato pd, minimizzando i danni dell’uranio sui fronti dell’Iraq e dei Balcani. Da qui la ruggine con lo Stato maggiore e pure con Guido Crosetto, che invece le armi le coccola da molto prima di fare il ministro della Difesa.
Tra una guerra e l’altra si sposa con Camelia, ragazza rumena, fa due figlie, oggi adolescenti. Quando non gira il mondo, vive a Viareggio, patria della anarchia e opportunamente del carnevale in maschera. Va in palestra, prende il sole ai bagni Balena. Ha pochi amici, niente cene, niente salotti. Fino a un anno e mezzo fa non lo conosceva nessuno. Oggi – per colpa sua e nostra – traversa la Passeggiata a cavallo della sua fama. Tutti stupiti che dalla massima riservatezza, sia passato ai fuochi d’artificio di generale Tempesta. Dal silenzio, alla prosopopea che esibisce in tv. Lui fa gli occhi dell’uomo saputo: “Ho imparato a trattare con i talebani che mettevano il Kalashnikov sul tavolo, ogni parola una minaccia. Figuriamoci se mi impressionano le chiacchiere della politica”. Quelle ce le mette il povero Salvini, quando lo difende per difendere sé stesso. Al generale basta e avanza il Kalashnikov. A noi i popcorn.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Aprile 29th, 2024 Riccardo Fucile
L’ESECUTIVO NON VARA IL REGOLAMENTO PER LE GARE CHIESTE DALL’UE E S’INVENTA UNA NUOVA MAPPATURA DELLE COSTE
Sulle concessioni balneari la tattica del governo non è
cambiata: nessuna gara. Fatta una mappatura della situazione, che è stata bocciata dall’Ue, ora si dice che se ne farà un’altra. Così, anche di fronte alle manifestazioni di piazza del settore, sceso a Roma l’11 aprile per chiedere un intervento legislativo, la risposta è rimasta sempre la stessa: vedrete che l’Europa ci darà ragione. Ma, settimana dopo settimana, a gestire il caos normativo in prima linea si stanno trovando i sindaci delle città interessate. E sarà sempre peggio fino al 31 dicembre.
Il quadro legislativo è ormai noto: in base alla direttiva europea Bolkestein, l’Italia deve mettere a gara le concessioni demaniali, balneari e non solo. Nessun governo lo ha fatto per un decennio, puntando a proroghe successive, ma una serie di sentenze del Consiglio di Stato – la più importante nel 2021 – e le pressioni europee hanno reso imprescindibili le gare. Nel decreto Milleproroghe del luglio 2022, governo Draghi, è stato stabilito che tutte le concessioni sarebbero andate a gara entro il 31 dicembre 2023, come imposto dal Consiglio di Stato, e che successivi decreti attuativi avrebbero determinato come organizzare le gare e gli eventuali indennizzi per i concessionari uscenti.
Ma quei decreti non sono mai stati scritti e già dall’estate scorsa decine di sindaci hanno chiesto al governo di intervenire: senza un intervento legislativo, i funzionari comunali che avessero prorogato le concessioni sarebbero incorsi in un illecito, mentre in caso di gare pubblicate ognuno sarebbe andato per conto suo. È quello che sta succedendo: il governo ha concesso una proroga tecnica fino al 31 dicembre 2024 e sta scommettendo sulla trattativa con l’Ue. Una prima mappatura, ultimata a settembre, ha sancito che solo il 30% delle spiagge italiane sia in concessione, negando la “scarsità” della risorsa da mettere a gara. Ma non ha convinto il commissario Ue Thierry Breton, che ha invitato a un’analisi più “qualitativa” delle aree demaniali. Questa la linea che il governo ha ribadito, dieci giorni fa, alle associazioni dei balneari: una nuova mappatura e trattative ad oltranza per evitare nuove gare e la procedura di infrazione. Nel mezzo, c’è la realtà.
Il caso Jesolo.
Il Comune fattosi agnello sacrificale dell’inerzia governativa è stato Jesolo, in Veneto. Forte di una legge regionale che prevede che a presentare istanza sia il gestore uscente, e se non la presenta nessun altro la spiaggia resti a quello, il sindaco di Fratelli d’Italia ha puntato ad aggiudicare i pezzi di litorale prima dell’inizio della stagione. Ma in due casi sui primi 8 aggiudicati a febbraio ha fatto domanda più di una cordata: in entrambi i casi non hanno vinto gli uscenti. Gli sconfitti hanno parlato di “guerra fratricida” ed è partito un coro unanime da sud a nord sul “rischio grandi capitali”. Confcommercio insieme ai sindacati balneari ha condannato l’esito delle gare, Confcommercio del Veneto invece ha detto che vanno benissimo. Anche perché ad aggiudicarsi una delle concessioni contese, in cordata con altri, è stato un dirigente locale di Confcommercio. Maurizio Gasparri, insieme a diversi politici di maggioranza, ha criticato il Comune: “Non avrebbe dovuto fare gare in assenza di regole nazionali”. Sono partiti i ricorsi degli sconfitti e tutte le altre aggiudicazioni previste prima dell’estate sono state rinviate a ottobre: il Tar si esprimerà l’8 maggio sulla richiesta di sospensiva, che se accolta creerebbe un’estate di caos. L’amministrazione però chiarisce: con le leggi vigenti non era possibile prorogare le concessioni senza far partire le nuove gare.
Rimini e gli altri.
Così da mesi ognuno va in ordine sparso, usando criteri diversi. Rimini, Ravenna, Genova, Lignano, Latina e decine di altri Comuni hanno avviato le gare prorogando, contestualmente, di un anno le concessioni. Le aggiudicazioni sono previste alla fine della stagione e, in assenza di criteri condivisi a livello nazionale, il bagno di sangue per i politici locali che dovrebbero assumere le decisioni è pressoché certo. “La tattica del silenzio, della dilazione e della furbizia porta a un solo approdo: le cose comunque vanno avanti, anche se si fa finta di non vedere. E alla fine questi sono i risultati. Se le gare vedono prevalere soggetti che hanno grandi capacità finanziarie e di investimento, il rischio è che si perdano quella tipicità e quel tratto umano che è stato il punto di forza” delle spiagge italiane, ha detto, subito dopo gli esiti delle gare, il sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad (Pd). E dire che le hanno vinte solo imprenditori locali, pur se con il criterio dei maggiori investimenti.
I ricorsi.
Altri amministratori si sono limitati a prorogare al 31 dicembre le concessioni, senza avviare le gare. Che non fosse una buona idea lo hanno appreso i Comuni contro cui ha presentato ricorso il coordinamento nazionale Mare Libero, che da tempo insiste per lo stop alle proroghe. Da febbraio, una serie di sentenze dei Tar di Calabria e Campania, citando le sentenze pregresse del Consiglio di Stato, hanno dichiarato illegittime le proroghe: “Le disposizioni legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime sono in contrasto con il diritto eurounitario”. “Tutte le autorità amministrative e giudiziarie sono chiamate a compiere il proprio dovere di accertamento, controllo e sanzionatorio” già oggi, spiega Roberto Biagini di Mare Libero.
I sindacati balneari.
Nel frattempo, dopo anni di promesse impossibili, le associazioni dei balneari arrivano all’estate divise tra chi propone uno sciopero e chi spinge per una linea concertativa con il governo. “Per avere regole certe, se sarà necessario, ci saranno ulteriori step di forte pressione verso la politica – aveva detto alla manifestazione dell’11 aprile Maurizio Rustignoli, presidente di Fiba – Se non verremo ascoltati siamo pronti a tenere le spiagge chiuse”. “Noi siamo tutti uniti e vogliamo una sola cosa, continuare a fare il nostro lavoro”, ha ribadito Antonio Capacchione di Sib-Confcommercio.
Altri 9 sindacati di balneari, però, avevano scelto di mandare una lettera al governo in cui si ribadiva “il più vivo sostegno” a Meloni “per come sta conducendo questa non semplice trattativa”, chiedendo un incontro, che si è tenuto il 16 aprile: continueremo a trattare con l’Ue, la promessa, nessuna gara. Quelle, semmai, le faranno i Comuni a loro rischio e pericolo, mentre il governo mappa – e rimappa – le coste.
(da ilfattoquotidiano.it)
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