Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
PRESENTATI ESPOSTI A MESSINA E A REGGIO CALABRIA: A RIVOLGERSI AI MAGISTRATI SONO 40 TRA TECNICI E PROFESSIONISTI LONTANI DAL MONDO DEI PARTITI
Contro il Ponte, sulle due sponde dello Stretto si passa a vie
legali. Dopo quello presentato alla procura di Roma dall’Alleanza Verdi e Sinistra e dal Pd, anche gli Uffici di Reggio Calabria e Messina hanno ricevuto due corposi e documentati esposti.
Sulla riva siciliana dello Stretto, sono stati oltre quaranta professionisti messinesi, magistrati, avvocati e docenti universitari, a mettere insieme carte e documenti per contestare la legittimità del Ponte anche dal punto di vista procedurale.
A Villa San Giovanni invece è stato il Pd a farsi promotore dell’iniziativa. “Ai magistrati chiederemo di voler valutare l’emergenza o meno di eventuali reati esitati da un’approssimazione che sembra elevata a regola, da una accelerazione immotivata, funzionale ad interessi di certo lontani da Villa e da Messina”, dice il segretario cittadino Enzo Musolino.
L’esposto dei professionisti messinesi
Al centro dell’esposto dei professionisti messinesi – depositato alla Corte dei Conti e in procura della Repubblica a Messina e inviato per conoscenza a quella di Roma e al Cipess -gli ultimi due passaggi dell’iter del procedimento: il parere del comitato scientifico della “Stretto di Messina” e la successiva delibera di approvazione da parte del consiglio d’amministrazione della stessa società. Di fatto, ai magistrati si chiede: siete proprio sicuri che sia tutto regolare?
Al contrario, per i quaranta che hanno lavorato all’esposto, è plausibile ipotizzare che il parere e la delibera abbiano creato le premesse per un ingiusto e illecito depauperamento delle casse dello Stato. In più, si sottolinea, “le 68 raccomandazioni, che riempiono l’intero contenuto dell’elaborato del comitato scientifico, dimostrano la piena consapevolezza nei membri dello stesso comitato della irrealizzabilità dell’opera, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle sperimentazioni fatte”.
Nel parere – si ricorda – neanche si accenna che il progetto definitivo, come integrato dalla società costruttrice “Webuild”, può essere approvato “solo a condizione di fare quanto raccomandato”. Al contrario, è stato dato il “via libera” senza condizioni, ma soltanto suggerendo di fare in futuro altre indagini.
Al riguardo – ed è clamoroso, sottolineano gli esperti – dev’essere ancora concepita e costruita la macchina che dovrebbe testare, secondo una di quelle famose “raccomandazioni”, la tenuta dei cavi portanti del Ponte sullo Stretto.
Fare luce sugli atti aggiuntivi
Gli autori dell’esposto, infine, sottolineano che nella valutazione richiesta all’autorità giudiziaria e a quella contabile si deve tener conto che i soggetti in questione sono pubblici ufficiali, o equiparati; che quelli da loro esitati sono atti pubblici; che ingenti sono il profitto privato e il danno pubblico che possono conseguire a condotte, che, eventualmente, venissero ritenute integrative di reati contro la fede pubblica e il patrimonio.
Gli esperti chiedono inoltre supporto alla magistratura per fare luce sui cosiddetti “atti aggiuntivi”, con i quali “Webuild” e “Stretto di Messina” ridaranno vita ai lucrosi contratti, a suo tempo risolti dal Governo Monti, che mai sono stati resi pubblici.
Le criticità che hanno già fermato il progetto
Dall’altra parte dello Stretto, per bloccare il Ponte si punta sulle voragini procedurali. Ai magistrati della procura di Reggio Calabria – emerge dalle carte, che mettono in fila tutte le criticità – si chiede di verificare “se e in che misura sia legittimo un iter così pieno di buchi, omissioni e ingiustificate accelerazioni. Noi ci siamo limitati a mettere in fila le cose e il quadro che ne è emerso è francamente sconcertante – spiega il segretario del Pd di Villa San Giovanni – Ai magistrati abbiamo chiesto se questa inquietudine è solo nostra o è condivisibile”
Dell’opera – emerge dalle dieci pagine di esposto – non è mai stata dimostrata la fattibilità, né all’epoca dello stop imposto dal governo Monti, né nel 2021 quando a mettere mano al progetto è stato il gruppo di lavoro nominato dal Mit. In più, il progetto del 2012 – di recente “aggiornato” dalla Stretto di Messina, senza tuttavia fare nuovi studi – non ha mai avuto Via (valutazione di impatto ambientale) positiva e ha incassato parere negativo riguardo l’incidenza dell’opera sui siti della Rete Natura 2000, tutelati dall’Europa.
Nell’area dello Stretto – si ricorda – ci sono due zone di protezione speciale e 11 Zone Speciali di Conservazione, in larghissima parte sovrapponibili all’area di cantiere e che da questi verrebbero devastate. Ma una valutazione di impatto ambientale non c’è, come non c’è uno studio geomorfologico e sul rischio sismico, in un’area classificata come zona sismica 1, cioè di massima pericolosità.
Società risorte, progetti riciclati
Anche la procedura con cui progetti e contratti sono tornati in vita – si spiega nell’esposto – presenta più di una criticità. Per far ripartire i cantieri con un decreto legge è stata “riesumata” la società Stretto Di Messina Spa e decisa la sua ricapitalizzazione da parte di Anas e RFI, riportando in vita il contratto che aveva con il contraente generale (ieri Eurolink, oggi Webuild) stipulato nel 2006.
Un iter neanche troppo limpido se è vero che a un giorno esatto dall’autorizzazione arriva la necessaria relazione integrativa sul progetto – che è quello del 2012 – riguardo rispondenza al progetto preliminare e prescrizioni, soprattutto in merito alla compatibilità ambientale. Una valutazione fin troppo rapida e di certo lacunosa. Mancano totalmente le prove sulla tenuta del ponte al vento e di microzonizzazione sismica. Non a caso – si ricorda nell’esposto – lo stesso comitato tecnico-scientifico della Stretto di Messina ha espresso parere favorevole, subordinandolo però a 68 “osservazioni” che mettono in luce tutte le lacune tecnico-scientifiche.
Il giallo dei costi
Aggiornamenti, verifiche e studi necessari – si fa notare – che rendono il costo del progetto sempre più indeterminato e sicuramente più elevato di quello previsto nel DEF che si assestava sui 14,5 milioni di euro. E anche lì, al conto mancava un pezzo e non da poco: il calcolo dei costi per i collegamenti stradali. “Il procedimento di riesumazione del rapporto contrattuale con Eurolink, senza gara, doveva comunque rispettare il limite della direttiva europea con un aumento dei costi non superiore al 50%, così come più volte ribadito dall’Anac. Limite – e probabilmente questo è uno dei punti più critici – che non viene rispettato, nonostante l’inquietante balletto di cifre a cui si sta assistendo e soprattutto alla luce di una loro evidenza indeterminatezza». E adesso la parola passa alla magistratura.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
LO PSICOTERAPEUTA ASSOLTO PERCHE’ IL FATTO NON SUSSITE… UNA MASSA DI INFAMI CHE PER LURIDE RAGIONI POLITICHE HANNO MASSACRATO MEDIATICAMENTE UN INNOCENTE
Claudio Foti è lo psicoterapeuta al centro del caso Bibbiano. La scorsa settimana è stato assolto anche in Cassazione dal reato di abuso d’ufficio e lesioni gravi. Perché «il fatto non sussiste». Diciassette persone sono tuttora a processo in primo grado sul caso dei falsi affidi ai comuni della Val d’Enza.
L’accusa è di aver falsificato rapporti e relazioni per togliere i bambini alle famiglie naturali. Foti dice oggi al Corriere della Sera che quando lo hanno arrestato «la prima persona a cui ho pensato è stato Enzo Tortora. Fin da subito ho preso precauzioni, soprattutto di tipo psicologico, perché ho sempre avuto la preoccupazione di ammalarmi: conosco e l’ho studiato lo stress da ingiustizia giudiziaria. È una delle forme più logoranti». Spiega che razionalmente non ha avuto paura delle condanne.
Accuse infondate
«Perché le accuse erano totalmente infondate e deformanti rispetto a quello che è stato il mio lavoro di 40 anni», sostiene. «Tuttavia, quando c’è una persecuzione mediatica e politica di questo tipo, non si può che essere preoccupati. L’assoluzione è stato un momento di sollievo e di felicità», aggiunge. Foti sostiene di non voler entrare nel merito del processo ancora in corso: «Una cosa però la so: sono state coinvolte persone che hanno dato tutto per il lavoro di prevenzione e contrasto della violenza sui minori. Sono persone sincere, attaccate al loro lavoro, efficienti, sensibili e che godevano della fiducia anche del tribunale per i minori». Secondo lui si tratta di un errore: «Sono convinto che verrà fuori quanto queste persone abbiano sempre lavorato in buona fede e mi auguro che emerga la qualità personale e professionale di tutte loro».
La distruzione dell’immagine professionale
Foti lamenta «la distruzione della mia immagine professionale, il 95% del mio lavoro è venuto meno, a partire dall’attività di formazione che ho sempre svolto in giro per l’Italia. Il centro studi Hänsel e Gretel è rimasto senza richieste e, dunque, si è sciolto, ma è stata dura anche sul piano personale perché, mio malgrado, sono diventato una delle persone più infangate e deturpate sul piano mediatico degli ultimi anni. Su di me è stato detto di tutto: che inseguivo i bambini per spaventarli, che facevo l’elettroshock».
E dice di essersi protetto «per esempio non leggendo più i giornali per certi periodi. Tuttavia ho sofferto, ho pianto tanto, ma sono sopravvissuto imparando dalla sofferenza». E aggiunge che l’inchiesta ha fatto anche altri danni.
Il trauma collettivo di Bibbiano
Secondo lui «si può parlare di “trauma collettivo di Bibbiano”: gli operatori della tutela vengono guardati da una parte dell’opinione pubblica con diffidenza, come fossero potenziali demoni, ma anche le famiglie affidatarie vengono guardate con sospetto; e la disponibilità a diventarlo è diminuita moltissimo, almeno a Reggio Emilia.
Ciò significa minor disponibilità a prendersi in carico altri bambini e ad aiutare altre famiglie». Adesso dice che vuole voltare pagina: «Ci tengo al risarcimento culturale e ripartirò con la capacità di tenere a bada la rabbia. Spero possano contare in questo senso anche i tre libri che ho scritto in questi cinque anni: il primo uscirà a maggio e il suo titolo è Lettere dal trauma. Dal dolore alla speranza».
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
SU 7.000 DONNE TRA I 18 E 34 ANNI SENZA FIGLI, IL 21% NON LI VUOLE: “AVERE FIGLI E’ UNA LIBERA SCELTA, SI RISPETTI ANCHE CHI NON LI DESIDERA”
«Bambini no grazie, non vogliamo riprodurci, non vogliamo
essere madri o padri, non fa parte del nostro progetto di vita». Un’indagine dell’istituto Toniolo su settemila donne tra i 18 e i 34 anni senza figli dice che il 21% di loro non ne vuole.
Il 29% afferma di essere debolmente interessata. Un dato che può spiegare le culle vuote in Italia e in Occidente: «Avere figli è una scelta libera. Non è cercando di convincere chi non li vuole che cambieranno le cose, ma sostenendo chi invece vuole diventare genitore», dice il demografo Alessandro Rosina a Repubblica.
La ricerca spiega che tra le donne nate alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, la quota che non ha figli è del 22 per cento. Di questo 22 per cento, circa il 12 per cento è childfree. Ovvero hanno liberamente scelto di non essere madri e oggi rivendicano il diritto di dimostrare che l’identità femminile non è necessariamente coincidente con la maternità.
Clara Di Lello, 30enne che ha fondato il gruppo Childfree, spiega al quotidiano che non vuole figli «semplicemente perché non ho l’istinto materno. Per la vita e il mestiere che faccio il posto per un bambino non c’è. Anzi, questa storia che in quanto donna sarebbe giusto che diventassi madre, l’ho sempre sentita come una imposizione. E il mio compagno è d’accordo».
E aggiunge che «soltanto l’idea mi mette ansia. Troppa responsabilità. Poi amo il mio tempo libero».
Stigma sociale
Di Lello dice di avvertire lo stigma sociale, «ma le cose stanno cambiando. Oggi una donna può sentirsi completa anche senza la maternità. I figli sono diventati una libera scelta, non un imperativo sociale. Certo, quando mi definisco childfree c’è ancora qualcuno che mi accusa di egoismo, perché di figli non ne nascono più. O pensa che io sia sterile».
Anche se le capita, come fotografa, di essere assunta per matrimoni e battesimi: «I matrimoni sono grandi feste, le mie foto diventano ricordi. E trovo anche carini i bambini nei battesimi, mi impegno perché tutti siano felici. Ma non sento alcun trasporto materno e la sera sono ben contenta di tornare a casa, nella mia pace con il mio compagno. Però mi sposerò, i matrimoni, come dicevo, mettono allegria»
Cosa ha fatto la società per la mia generazione?
Ma non ha paura di rimanere sola da anziana: «Mica si fanno i bambini per avere un’assicurazione contro la solitudine. E siamo certi che poi questi figli si prenderanno cura di noi? Magari da vecchia vivrò in una comune con altri anziani e ci prenderemo cura gli uni degli altri».
E quando le si obietta che i figli sono il futuro della società, replica così: «Ribalto la domanda. Cosa ha fatto la società per la mia generazione? Noi non avremo pensioni, sanità, viviamo nella precarietà, chissà se tra 40 anni il mio ipotetico figlio avrà acqua potabile da bere. Lo Stato sostenga chi i figli li vuole, rispettando noi felici senza».
(da Open)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
LE PROTESTE PER IL “DIRITTO AL FUTURO” SI STANNO DIFFONDENDO IN TUTTA EUROPA
Negli ultimi anni le lotte non-violente per il «diritto al futuro» dei giovani si sono diffuse a macchia d’olio su tutto il territorio d’Europa. Chi si sente minacciato dal cambiamento climatico e pensa che i governi non facciano abbastanza scende in strada.
Chi crede che i diritti civili, umani, quelli delle minoranze, il diritto all’istruzione siano stati vìolati si mobilita. Chi pretende un futuro più equo, giusto e pure di pace riempie le piazze. Sono diversi i movimenti giovanili di protesta emersi: qualcuno si è spento, altri sono ancora attivi. E tutti svolgono un ruolo di primo piano nel determinare lo stato di salute di una democrazia.
«I governi dovrebbero cambiare l’approccio nei loro confronti: non considerarli più soltanto come gruppi di opposizione, ma includerli negli spazi decisionali e favorirne la partecipazione concreta», spiega a Open il politologo francese Yves Mény, presidente emerito dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e autore del libro Le vie della democrazia, in uscita per il Mulino il prossimo 19 aprile. «Nella tradizione mediterranea, in Grecia, Spagna, Francia e Italia c’è un atteggiamento di rifiuto nei loro confronti – continua -. Mentre nella tradizione anglosassone e nordeuropea, dove la contestazione può essere molto dura, viene dato loro molto più spazio».
I movimenti sociali, a cui aderiscono i giovani, non sono organizzazioni in senso stretto. Si pongono obiettivi che portano molto spesso a rivendicazioni (politiche) e utilizzano strumenti di azione, quali la protesta, per fare pressione sui governanti. Caratteristiche, queste, che «hanno qualificato in tutti i periodi storici i movimenti giovanili: c’è sempre stata una capacità di mobilitazione più forte tra i giovani, c’è più entusiasmo, voglia di cambiare le cose», sottolinea Mény. Ma le loro caratteristiche, ciò che li contraddistingue, possono variare da Paese a Paese. «Quelli che nascono negli Stati del Nord tendono ad essere più forti e diversificati rispetto a quelli del Sud», spiega il politologo. «Con questo non voglio dire che non esistono movimenti di protesta, ad esempio, a favore di politiche sul clima adeguate e contro il cambiamento climatico nei Paesi del Sud. Ci sono, certo, ma sono più deboli – continua -. Basti pensare che la maggior parte dei gruppi climatici hanno nomi inglesi (Friday for Future, Extinction Rebellion). L’attivismo climatico è più nordico, che meridionale». Mentre nel Sud Europa «a prevalere sono i movimenti a favore della parità, dei diritti delle donne o contro la violenza di genere. I giovani chiedono che vengano rispettati i cosiddetti diritti civili – spiega -. E da questo punto di vista la Spagna è all’avanguardia: ha sofferto molto il machismo nel passato, ma oggi è al primo posto tra i Paesi che riescono a raccogliere le istanze dei giovani e dare più risposte». Ma non solo: molto spesso ci si trova di fronte a mobilitazioni che riescono a tenere insieme più dimensioni. Pensiamo, ad esempio, al movimento femminista o a quello climatico che al loro interno intersecano più rivendicazioni.
Oggi l’impegno dei giovani di tutti gli Stati europei «si manifesta, però, meno sul piano della mobilitazione elettorale perché non si sentono a loro agio nelle strutture partitiche – precisa Mény -. Al contrario, trovano invece spazio nei movimenti a scopo specifico come appunto può essere l’ambiente, la parità di genere, i diritti della donne, l’istruzione, la battaglia per gli alloggi studenteschi». Se guardiamo al passato i movimenti giovanili erano strettamente collegati ai partiti politici. Oggi, al contrario, questo legame viene meno. Le strutture partitiche sono sempre meno capaci di rappresentare i diversi j’accuse della società civile più giovane. «La novità, se vogliamo, – afferma il professore – è una sorta di sostituzione dei movimenti ai partiti per quanto riguarda la rivendicazione e la mobilitazione su temi specifici e questo è un elemento positivo per la democrazia». La criticità sta però nel fatto che «i movimenti giovanili sono spesso poco strutturati, a volte passeggeri. In Italia, ad esempio, – continua – il movimento delle Sardine fu un fuoco di paglia. Riuscì a mobilitare tante persone in poco tempo, ma poi si spense. E questo è il problema di molti movimenti: non riescono a mantenere la loro forza nel lungo periodo».
La frammentazione della sinistra e il suo non-parlare più ai ceti “deboli” ha aperto spazi poi conquistati dalla destra e ha lasciato campo ai movimenti sociali che si sono trovati a dare voce a chi si sentiva lontano (ed escluso) dai meccanismi partitici. «I movimenti giovanili si posizionano politicamente sia contro la destra, sia contro la sinistra. Storicamente, però, – precisa ancora Mény – sono più vicini ai temi della sinistra. La novità è che vediamo nascere movimenti giovanili che possono essere pericolosi per la democrazia perché sono attratti, al contrario, dalle istanze che cavalca l’estrema destra, come accade in Germania. Sono attratti dal radicalismo o magari si trovano su posizioni anti-immigrazione».
Ciò che occorre tenere bene a mente è che nonostante il posizionamento nello spettro politico, il motore della democrazia è «l’insoddisfazione». Perché «la stessa democrazia è sempre alla ricerca di un ideale che non verrà mai raggiunto», chiosa. E questa situazione porterà inevitabilmente a migliorare (o almeno a provarci) lo stato attuale delle cose. Ma l’eterna frustrazione mette in crisi le strutture classiche delle democrazie? «La brutta notizia è che le democrazie d’Europa sono in crisi – risponde Mény -; la buona notizia è che sono sempre state in crisi perché si è sempre alla ricerca di qualcosa che sia migliore, che sia perfetto. Faccio un esempio: sperare che tutti i cittadini partecipino al dibattito pubblico è un sogno, non è una realtà o sperare che tutti i diritti siano perfettamente garantiti anche questo è un ideale, è un bellissimo ideale, ma sappiamo che ci sono e ci saranno sempre problemi nell’attuazione di questi principi. Quindi l’insoddisfazione spinge i giovani a tentare di migliorare la situazione» e a chiedere alla politica di agire.
A giocare un ruolo chiave nella diffusione dei contenuti e dei messaggi di questi movimenti giovanili sono state, e lo sono (forse) tuttora, le rivoluzioni tecnologiche. I social network hanno permesso di mobilitare più rapidamente le masse, “responsabilizzarle”, farle sentire parte del cambiamento. Eppure, la rete sociale che si crea al loro interno, per Mény, ha «un effetto paradossale». Ovvero, «siamo in comunicazione in ogni momento della giornata con tutto e tutti, ma nello stesso tempo non c’è una vera e propria aggregazione, se non un’aggregazione di tipo “emotivo” – sottolinea -. L’abbiamo visto tre/quattro anni fa con il movimento dei gilet gialli in Francia». I social, in quel caso, sono riusciti ad organizzare le masse scese in strada, ma il movimento si è concluso in un nulla di fatto «perché non ha saputo esprimere un’ambizione collettiva. Anche perché i gilet jeunes – continua il politologo – rifiutavano categoricamente la rappresentanza. Anzi, era vista come un tradimento e tale rifiuto ha fatto in modo che il movimento non riuscisse a trasformare le proprie istanze in conquiste politiche».
Il paradosso di questa rivoluzione tecnologica è che porta all’isolamento. La comunicazione avviene all’interno della rete soltanto tra persone che hanno le stesse opinioni, non c’è una discussione con chi ha idee diverse dalle proprie. In questi contesto, dunque, le idee simili si consolidano a vicenda, lasciando fuori le opinioni considerate diverse. «E quando, al contrario, si crea una comunicazione, questa – precisa l’esperto – è basata sull’odio, sull’invettiva. La tecnologia avrebbe potuto facilitare l’espressione del voto e delle diverse opinioni. In realtà contribuisce più al narcisismo e all’isolamento, che alla creazione di comunità o movimenti che riescono a durare nel tempo. Invece di promuovere una mobilitazione più organizzata, strutturata, duratura e forte, concorre all’individualismo e a esplosioni brevi di passione».
Le sfide per i movimenti giovanili
Le sfide dei movimenti giovanili sono tante e diversificate. Ma, forse, quella più impellente, quella più urgente, è di riuscire a trovare un punto di contatto tra le proteste che nascono nelle società, portatrici di istanze di fatto politiche, con le istituzioni. È necessario che i governi europei «inizino a vedere questi movimenti sociali, tra cui quelli giovanili, non soltanto come gruppi di opposizione», afferma il politologo. E riuscire ad avere un atteggiamento più collaborativo potrebbe aiutare a risolvere, per certi versi, il grande problema dell’astensionismo. Sempre più giovani scelgono infatti il partito del “non voto” a causa dei malumori verso una classe politica da anni incapace di rappresentare le loro richieste. «La democrazia soffre un po’ dappertutto di una specie di disincanto che si riflette nel comportamento della gente e in particolare dei giovani. Sempre più ragazzi scelgono l’astensionismo per vari motivi. L’immagine che ci restituisce il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, dove si vedono queste donne che in massa vanno a votare, non è più d’attualità – dice Mény -. L’altro elemento che offre una spiegazione di questo disincanto è l’attrazione verso partiti più radicali, più estremi, sia a sinistra che soprattutto – come vediamo in tutta Europa – a destra». A volte, però, è anche necessario scendere a compromessi: «Io scrivo spesso che il popolo non esiste, è un concetto astratto. Esistono le persone, i singoli, che fanno parte di gruppi che hanno interessi diversi e legittimano la propria posizione. Ciò che è difficile è arrivare al cosiddetto compromesso – prosegue -. Certo, ci sono delle cose sulle quale non è possibile, come ad esempio sui diritti fondamentali, sulla dignità e sulla libertà delle persone. Ma su tanti altri temi i compromessi sono necessari. Anche se i giovani sono meno pronti a “compromettersi” perché sono più idealisti».
L’Europa tra 10 anni
«Immaginare l’Europa del 2034 è sfida ardua, benché 10 anni siano pochi per fare previsioni», dice Mény. Ci sono due scenari possibili: uno ottimista, l’altro pessimista. «Nel primo scenario l’Europa, passo dopo passo, diventerà più forte e avrà inventato dei meccanismi democratici nuovi. Già oggi la protezione dei diritti fondamentali, e non solo il diritto all’aborto, è molto più estesa e profonda in Europa che negli Stati Uniti. Questo scenario è quello prudente perché sarà un processo lento e meglio che sia lento perché il problema di tutte le rivoluzioni è che la rivoluzione chiama la contro-rivoluzione», afferma. Secondo scenario, più negativo: «L’Europa si è allargata a 35-36 Stati che sono diventati democratici da pochissimo tempo, che sono diventati Stati-nazione da poco e dunque sono propensi a celebrare la loro nuova sovranità. E c’è il rischio a un certo punto si verifichi il fallimento del progetto europeo. Ma questo scenario sarebbe talmente terribile dal punto di vista delle conseguenze economiche, politiche e pure pacifiche che io preferisco dire che è talmente brutto – conclude Mény – che non può succedere». Ma, purtroppo, non è poi così scontato.
(da Open)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
NEI PROSSIMI SEI ANNI UN MEDICO SU TRE ANDRA’ IN PENSIONE
Thomas Edison, uno dei più grandi inventori di tutti i tempi,
diceva che il medico del futuro non darà medicine ma motiverà i suoi pazienti ad avere cura del proprio corpo e a prevenire le malattie.
Un secolo dopo quel tipo di medico che ha il tempo di ascoltare i propri pazienti ancora non si è visto.
Ai pazienti basterebbe riuscire ad avere almeno un’assistenza degna di questo nome dal proprio medico di medicina generale, che è il primo contatto quando hanno un problema di salute. Il Sistema sanitario è messo a dura prova da finanziamenti insufficienti, con carenza di specialisti ospedalieri dove servono, e liste d’attesa che spingono i cittadini a pagare di tasca propria almeno 4 visite e 2 esami diagnostici su 10. E chi non può permetterselo troppo spesso rinuncia a curarsi. In questo contesto la figura del medico di famiglia è un punto di riferimento imprescindibile, ma sono pochi, non valorizzati nel loro ruolo e non adeguatamente formati per rispondere ai bisogni di una popolazione sempre più anziana e con malattie croniche. La medicina di famiglia va ridisegnata e, oggi, c’è l’occasione buona perché dopo 50 anni siamo di fronte al più grande ricambio generazionale.
Chi entra e chi esce
Nei prossimi sei anni, su 37.860 medici di famiglia in servizio, 12.600 andranno in pensione. Cioè uno su 3. Nello stesso periodo la stima è che ne entreranno 10.714. Vuol dire che gli ingressi non copriranno le uscite, e già adesso ogni medico di medicina generale (mmg) ha in carico 1.399 pazienti contro i 1.171 di 10 anni fa (qui 10b3).
È il caso di cominciare a pensarci adesso per investire su una professione che è il primo filtro all’intasamento dei pronto soccorso, e che da anni è colpevolmente relegata alla serie B.
Cosa fare? Vediamolo punto per punto seguendoli nella loro carriera: dal quando iniziano a studiare Medicina, a quando vanno a lavorare nel loro ambulatorio.
Professione senza appeal
Per prima cosa i giovani laureandi andrebbero invogliati a diventare medici di famiglia, cosa che oggi non succede: il 78% degli studenti in Medicina durante i 6 anni di università non ha neppure l’opportunità di conoscere l’attività del dottore di medicina generale perché gli atenei non prevedono lezioni o tirocini mirati né la presenza degli mmg ai corsi. Una volta terminati gli studi universitari, vanno eliminate le differenze economiche tra chi frequenta il corso triennale di formazione per diventare medico di famiglia e chi una Scuola di specializzazione per diventare chirurgo, cardiologo, ortopedico, ecc. Il corso per mmg, che non è universitario ma dipende dalle Regioni, è pagato con una borsa di studio di 11 mila euro l’anno, cioè 966 euro al mese, soggetti a Irpef, con contributi a carico di chi lo frequenta e nessun assegno in caso di maternità. Ben diversa è la situazione degli specializzandi ospedalieri che hanno una borsa di studio di 26 mila euro l’anno, contributi inclusi e senza Irpef. Già questo indica a monte la scarsa considerazione per il medico di base. La conseguenza è che i neolaureati in Medicina se hanno un’alternativa di solito la preferiscono: i numeri dimostrano che più aumenta il numero di posti nelle scuole di specializzazione, meno candidati ci sono al corso di formazione triennale per diventare medico di medicina generale. Infatti se nel 2019 con 1.765 borse di studio c’erano 4 candidati per ogni posto disponibile, nel 2023 con 2.596 posti ben 10 Regioni (come Lombardia, Piemonte, Veneto e Toscana) non sono riuscite a coprire tutte le borse di studio e 347 sono andate a vuoto.
Il corso di formazione
Cosa succede quando i giovani medici arrivano al corso triennale di formazione? Il programma delle attività è regolato da norme di 18 anni fa (d.m. 7 marzo 2006 qui) che nelle 1.600 ore di teoria non prevede informazioni aggiornate con i tempi: dal lavoro nelle Case di Comunità finanziate dal Pnrr, all’uso di apparecchiature per gli esami di primo livello (spirometri, Ecg, ecografi), ecc. Dal 2018 gli mmg in formazione possono lavorare in ambulatorio con propri pazienti (qui art. 9), e dal 2020 per le 3.200 ore di formazione pratica vengono fatte valere le ore di lavoro in ambulatorio senza di fatto nessun tutor (qui). È un paradosso perché nella sostanza è come ammettere che il corso serve a poco. La soluzione può essere quella di trasformare la formazione del medico di famiglia in una vera e propria specialità, sull’esempio delle scuole di «Family medicine» europee. Questo, con ogni probabilità, alzerebbe il livello della professione rendendola più attrattiva per i laureati migliori, e verrebbe sottratta anche al controllo delle lobby dei potenti sindacati dei medici che, oggi, gestiscono le scuole di formazione ed hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo (vedi Dataroom del settembre 2022).
Le prestazioni offerte
Quando poi il medico di famiglia entra nel proprio ambulatorio deve essere messo in grado di offrire ai pazienti prestazioni in linea con i bisogni crescenti. Prendiamo come esempio un paziente con una patologia cronica cardiovascolare. Oggi va dal medico di famiglia che gli fa un’impegnativa per una visita cardiologica e un elettrocardiogramma. Il paziente deve quindi andare al Cup per fare la prenotazione, perdendo tempo in lista d’attesa. Se invece il medico avesse un elettrocardiografo e fosse formato a usarlo, potrebbe monitorarlo direttamente e inviarlo dallo specialista solo in caso di criticità. Un paziente con sospetto di colica renale oggi viene visitato e il medico di famiglia può prescrivergli un antidolorifico e mandarlo a fare un’ecografia. Se invece avesse a disposizione un ecografo potrebbe valutare se c’è la presenza di un calcolo e avviare una terapia. Il 28 gennaio 2020 sono stati stanziati 235 milioni di euro per fornire agli mmg gli strumenti per gli esami di primo livello (qui), ma non è ancora è stato acquistato nulla. Probabilmente anche per la resistenza dei più anziani che sostengono di non saperli usare, mentre il 70% dei giovani medici ritiene importante potere eseguire questi esami.
Il rapporto con il Servizio sanitario nazionale
Arriviamo infine alla domanda delle domande: in che rapporto devono essere i medici di famiglia con il servizio sanitario? Da anni sono dei liberi professionisti convenzionati con il Ssn e la loro attività è regolata da un contratto firmato dai sindacati, ma una parte importante dei giovani chiede di diventare dipendente. Infatti c’è una levata di scudi mai vista prima contro il nuovo accordo collettivo nazionale dell’8 febbraio 2024. Il motivo è che in base alle nuove regole chi ha meno di 400 pazienti, dunque la stragrande maggioranza dei giovani medici di famiglia, è chiamato a mettere a disposizione dell’Asl 38 ore la settimana per fare la guardia medica o attività simili contro le 6 ore di chi ha 1.500 pazienti, cioè i più anziani. I giovani sono convinti che si troveranno con tutti gli svantaggi della libera professione (trovarsi un sostituto e pagarlo in caso di malattia o vacanza) e anche quelli della dipendenza (non hai più modo di gestire il tuo tempo perché sei obbligato a fare quello che dice l’Asl, con un tot di ore come guardia medica). A questo punto una parte di loro chiede di rendere la professione dipendente al 100%, con tutte le garanzie che ciò comporta (malattie e ferie coperte, ecc..). La Fimmg che rappresenta il 62,8% dei dottori di famiglia iscritti a un sindacato è contraria, come non vede di buon occhio l’ingresso nelle Case di Comunità. Lo status quo consente agli mmg, di continuare a fare anche lavori fuori dagli ambulatori e quindi di guadagnare di più. I giovani invece sono la forza-lavoro che potrebbe andare a lavorarci, a patto che la politica sia in grado di coinvolgerli. Negli ultimi decenni questa professione si è sfilacciata, l’assistenza sul territorio impoverita, la domanda è in crescita esponenziale, la tecnologia ha fatto passi avanti: per tutte queste ragioni l’approccio va modificato. E il momento è propizio, proprio perché siamo di fronte a un travaso generazionale.
Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Giovanni Viafora
(da corriere.it)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
L’ACCUSA È FRODE FISCALE. L’AZIENDA GARANTIVA TARIFFE COMPETITIVE GRAZIE A UN SISTEMA DI FATTURE FALSE PER CONTRATTI DI APPALTO FITTIZI E MANODOPERA ILLEGALE… IN CORSO PERQUISIZIONI A MILANO, LODI, PAVIA E TORINO
Il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano ha sequestrato per frode fiscale 64,7 milioni di euro alla società GS spa del gruppo dei supermercati Carrefour Italia in una delle inchieste del pm di Milano Paolo Storari sui cosiddetti “serbatoi di manodopera”: un presunto sistema, come emerso in altre inchieste simili come il caso Esselunga, attraverso il quale grandi aziende si garantiscono “tariffe altamente competitive” sul mercato “appaltando manodopera” in modo irregolare per servizi di logistica e “movimentazione merci”.
Le indagini, che hanno portato oggi al decreto di sequestro preventivo d’urgenza firmato dal pm, con la collaborazione anche del Settore Contrasto Illeciti dell’Agenzia delle Entrate, vedono al centro, come spiega il procuratore Marcello Viola in una nota, “il fenomeno della somministrazione illecita di manodopera”. Gli accertamenti riguardano “una complessa frode fiscale derivante dall’utilizzo, da parte della beneficiaria finale”, ossia GS, “del meccanismo illecito di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti a fronte della stipula di fittizi contratti di appalto per la somministrazione di manodopera, in violazione della normativa di settore, che ha portato all’emissione e al conseguente utilizzo dei falsi documenti per un ammontare complessivo superiore a 362 milioni di euro”.
In particolare, ricostruendo “la ‘filiera della manodopera’, è stato rilevato che i rapporti di lavoro” con GS “sono stati ‘schermati’ da società ‘filtro’ che a loro volta si sono avvalse di diverse società cooperative (società ‘serbatoio’), che hanno sistematicamente omesso il versamento dell’Iva, nonché degli oneri di natura previdenziale e assistenziale” ai lavoratori.
Sono in corso “perquisizioni nelle province di Milano, Lodi, Pavia e Torino nei confronti delle persone fisiche e giuridiche coinvolte, con contestuale notifica delle informazioni di garanzia, anche in tema di responsabilità amministrativa degli enti in relazione agli illeciti penali commessi dai dirigenti della società, a favore di quest’ultima”. Nel giugno dello scorso anno, tra l’altro, in una delle tante indagini di questo genere, erano stati sequestrati 48 milioni di euro ad Esselunga, dopo i casi che avevano riguardato, tra gli altri, Dhl, Gls, Uber, Brt e Geodis.
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
NELLE ULTIME ORE, PER SALVINI È ARRIVATA UNA BRUTTA NOTIZIA: IL DANSK FOLKEPARTI, IL PARTITO POPULISTA DANESE, LASCIA L’EURO-GRUPPO “IDENTITÀ E DEMOCRAZIA” (COFONDATO DAL LEGHISTA E MARINE LE PEN) E PASSA CON ECR, GUIDATO DA GIORGIA MELONI
La metà dei leghisti che ieri si trovano in piazza Podestà a
Varese per festeggiare i 40 anni del partito, quando Matteo Salvini riparte per altre mete tira un gran respiro di sollievo collettivo: tutto è andato bene. Nessuna contestazione, nessuna intemperanza
All’indomani delle dure parole di Umberto Bossi («Serve un nuovo leader») la preoccupazione era alta. Per i salviniani doc, la pratica ansiogena del compleanno è ormai amministrata. E si parla del libro di Matteo Salvini. E soprattutto del fatto che venerdì scorso il generale Roberto Vannacci sarebbe stato avvistato in via Bellerio.
Insomma, il dado pare ormai tratto: il capo di Stato maggiore delle forze operative terrestri correrà alla guida delle liste leghiste in molte delle cinque circoscrizioni europee. Forse tutte. Non una buona notizia per i candidati a Bruxelles, anche se resta da capire per quale circoscrizione opterà il generale dopo la probabile elezione. In ogni caso, nel partito si prevedono 7 eletti.
I nuovi ingressi previsti dai veggenti leghisti sono la sindaca di Monfalcone Anna Maria Cisint a Nordest, Aldo Patriciello (ex FI) al Sud e il nuovo acquisto in Sicilia Raffaele Stancanelli, già eurodeputato ma per FdI.
Ma nelle ultime ore, per la Lega è arrivata una brutta notizia: il Dansk Folkeparti, il partito populista danese che aderiva all’euro- gruppo Identità e democrazia cofondato da Matteo Salvini e Marine Le Pen, ha scelto di cambiare riferimento: ora è schierato con Ecr, i Conservatori europei presieduti da Giorgia Meloni.
Ma a Varese per molti altri il punto è diverso: il compleanno della Lega sarebbe stato organizzato con il freno a mano tirato a due mani. Troppo alto il rischio di contestazioni al segretario, troppi i dubbi sul rischio amarcord nei confronti di un partito così diverso da quello che i bossiani chiamano la «Salvini premier» badando bene a non aggiungerci la parola Lega. I più amari dicono che c’è di peggio: «La verità è che ci siamo persi il territorio, che anche nei momenti più difficili è stato la nostra forza».
E così, nonostante la presenza del segretario, dei tre ministri Calderoli, Giorgetti e Valditara, dei capigruppo Molinari e Romeo e di tre candidati alle europee — Ciocca, Sardone e Tovaglieri — la festa non può dirsi un pienone. Per i vicini a Salvini, non sembra poi un problema: «La verità è che siamo un partito diverso. Le radici sono quelle e non le potremo mai rinnegare. Ma oggi i discorsi di allora non ci porterebbero da nessuna parte: il segretario rappresenta lo ieri, l’oggi e il domani». L’altro tema è, appunto, il libro di Matteo Salvini. Si intitola Controvento (Piemme), è dedicato a Umberto Bossi e Roberto Maroni, ed è già in prevendita online. Ma la presentazione è già colpo di teatro. Sarà infatti a Milano il 25 aprile, quando il capoluogo lombardo sarà come sempre la sede del principale corteo per la festa della Liberazione
(da Corriere della Sera)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
SVELA LA ROSICATA DI MARIO DRAGHI, LO SFOTTO’ A DI MAIO (“ERA IL PIÙ BRAVO DI TUTTI. ORA VIVE DENTRO A UN BIDONE DI PETROLIO”), L’ATTACCO A CINGOLANI (“L’HO SUGGERITO IO: MI AMMAZZEREI”), LA TELEFONATA DI ROMANO PRODI PER FAR ELEGGERE DRAGHI AL COLLE…NEANCHE UNA PAROLA PER CONTE
Difende il Movimento 5 Stelle a spada tratta, ma non nomina mai Giuseppe Conte (mentre ricorda gli inizi insieme a Gianroberto Casaleggio). Svela retroscena, pungendo tra lodi e sfottò i protagonisti dell’ascesa e della caduta del governo Draghi. Beppe Grillo è un fiume in piena.
Al Teatro Nazionale di Milano fa tappa il suo show Io sono un altro e il fondatore del Movimento riesce a infilare una serie di battute salaci.
Nel mirino finiscono il ministro Gennaro Sangiuliano: «Una bella mente aperta, ma da una parte all’altra», l’ex ministro Roberto Cingolani: «L’ho suggerito io: mi ammazzerei». E l’ex delfino Luigi Di Maio: «Solo il nome mi inquieta un po’. Era politicamente il più bravo di tutti. Ministro del Lavoro, ministro degli Esteri, ora è un diplomatico. Vive dentro a un bidone di petrolio e quando si abbassa il prezzo esce».
Racconta della telefonata di Romano Prodi per far eleggere Mario Draghi al Quirinale. Un rapporto complesso quello con l’ex numero uno della Bce, nato sotto il segno dell’«umorismo». Con uno scambio nel loro primo colloquio. «Le fragole sono mature», dice Grillo citando uno dei suoi cavalli di battaglia stellati-zen.
«I mirtilli ancora no», replica Draghi. Che loda, a detta di Grillo, quanto fatto dallo showman in politica: «Sei stato geniale».
Poi il rapporto si deteriora con l’elezione del capo dello Stato. «Devi stare lì, portarci fuori dai casini», gli ho detto. «Dal giorno dopo lui non ha più salutato nessuno dei nostri, neppure Fico che era la terza carica dello Stato».
Grillo difende il Reddito di cittadinanza (e domani sarà al Parlamento europeo a parlare del reddito universale) e il Superbonus non manca un elogio ai cinesi e il solito mantra sul tetto dei due mandati («Dovrebbe essere una legge dello Stato»).
(da agenzie)
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Aprile 15th, 2024 Riccardo Fucile
A CONTE VANNO BENE SOLO I CANDIDATI CHE DECIDE LUI, I BARESI SAPRANNO COME RINGRAZIARLO DEL FAVORE CHE STA FACENDO AI SOVRANISTI
A Bari si discute ancora nel centrosinistra, che è ancora nel
caos in vista delle prossime elezioni amministrative, che si terranno a giugno, in concomitanza con le regionali in Piemonte e con le elezioni europee. E dopo lo strappo di Conte che ha deciso all’ultimo di sfilarsi dalle primarie, che avrebbero dovuto tenersi lo scorso 7 aprile, per appoggiare il candidato Michele Laforgia, c’è chi non si è arreso ancora alla disgregazione del campo largo per le prossime comunali e vorrebbe un candidato unico.
Dopo le inchieste sul voto di scambio che hanno coinvolto esponenti del centrosinistra al comune di Bari e in Regione, le posizioni di Pd e M5s non potrebbero essere più distanti. Al momento in campo per il ruolo di sindaco, per cui si vota a giugno, ci sono Vito Leccese, vicino ad Antonio Decaro e appoggiato dal Pd; e l’avvocato penalista Michele Laforgia, sostenuto da M5s e Sinistra italiana.
Per tentare di ricomporre la coalizione in vista delle elezioni, dove il centrodestra unito ha proposto il 36enne leghista Fabio Romito, l’ex governatore pugliese Nichi Vendola (Si) aveva suggerito il 78enne Nicola Colaianni, ex professore universitario, magistrato e parlamentare, che però ha rinunciato alla candidatura.
“Ho accolto – ha spiegato in una nota – con spirito di servizio la proposta di candidarmi unitariamente per il centrosinistra per evitarne la divisione da più parti temuta. Ho garantito ai due candidati, e alle forze che li sostengono, pari dignità, controllo sulla pulizia delle liste, trasparenza e, naturalmente, legalità. Ho riscontrato, tuttavia, che, pur nella sostanziale convergenza ideale e programmatica, permangono rigidità che non rendono possibile una composizione”.
“Con lo stesso spirito di servizio – ha detto ancora Colaianni – rinuncio perciò al tentativo e rimetto con serenità ai due candidati il compito di porre le basi per il sostegno reciproco nelle fasi ulteriori del procedimento elettorale”.
“Ringrazio le numerose persone, talune sconosciute prima d’ora o astensioniste da lunga data o finanche residenti in altre parti d’Italia e animate perciò solo da finalità ideali – ha aggiunto – che mi hanno espresso solidarietà e volontà di accompagnare questo battito d’ali di farfalla”.
Il principale ostacolo alla candidatura di Colaianni, che avrebbe così riunito il fronte progressista, era legato alle perplessità espresse da Conte: “Rigenerazione in questo caso suona provocatorio, considerata la sua età. Lasciamo che i rappresentanti delle forze politiche locali si confrontino”. E ancora: “Non abbiamo ragione per accantonare la candidatura di Michele Laforgia ma vedremo quello che succederà”.
Il candidato Vito Leccese dal canto suo si era detto anche disposto a fare un passo indietro: “La mia candidatura è in campo solo per unire la coalizione. Ma sono le forze che mi sostengono a decidere”, ha ribadito in una intervista a ‘La Repubblica’. “Sto incontrando i responsabili delle forze politiche che sostengono la mia candidatura per decidere. Poi – ha spiegato – vedrò Michele Laforgia per capire insieme a lui come procedere. L’obiettivo di mantenere l’unità della coalizione per me è fondamentale”.
Quanto a Nicola Colaianni come possibile candidato unitario, aveva detto: “Apprezzo la sua disponibilità e lo ringrazio. È sicuramente un nome autorevole, una grande personalità con la quale ho avuto modo di collaborare”. Secondo Leccese il giudizio di Conte su di lui è “ingeneroso”, “è evidente che da parte di Conte non ci sia nessuna voglia di lavorare al campo largo”.
Per Leccese bisogna invece ricordare che l’obiettivo è “sconfiggere il centrodestra, il nostro vero avversario. Fermare gli scellerati progetti sull’autonomia differenziata, bloccare la degenerazione della società italiana. E soprattutto non interrompere quella svolta, quella spinta al cambiamento avviata negli ultimi dieci anni da Antonio Decaro, il quale ha anche realizzato molti di quei sogni che abbiamo inseguito fin dagli anni Novanta, come la creazione di un parco nel sito della ex Fibronit, la fabbrica di amianto che ha generato 400 morti”.
Nei giorni scorsi in un’intervista a Fanpage.it la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo, si era detta scettica sull’ipotesi di un candidato unitario per il centrosinistra a Bari: “Lo strappo di Conte nella Regione Puglia con l’annuncio dell’uscita del Movimento 5 Stelle dalla Giunta è un’accelerazione nel senso opposto che mi aspettavo. Una brutta mossa, che spero rimanga un fatto locale. Non conosco e non voglio entrare nei dettagli della vicenda di Bari ma ne posso trarre una lezione. Mettersi a disposizione, come avevo fatto io a ottobre per il Piemonte, significa proprio questo: non volersi imporre a tutti i costi ma dare la disponibilità ad aiutare a trovare soluzioni unitarie anche considerando il proprio eventuale sacrificio”.
(da Fanpage)
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