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IL QUOTIDIANO SOVRANISTA “LA VERITA'” CONTRO SANTANCHE’: “ATTACCATA ALLA POLTRONA”

Gennaio 27th, 2025 Riccardo Fucile

REGOLAMENTO DI CONTI NEL CENTRODESTRA, IL FUOCO AMICO DI MARIO GIORDANO CONTRO LA PITONESSA

Mario Giordano su La Verità oggi chiede le dimissioni di Daniela Santanchè. E dice che la ministra del Turismo «è incollata alla poltrona*, tanto che «fra lei e il potere c’è solo il Vinavil».
Giordano ricorda che l’esponente di Fratelli d’Italia chiedeva dimissioni «a raffica»: «Sarebbe facile accusarla di incoerenza, ma nessuno ha capito che da quando lei è diventata ministro è cambiato tutto. Ora ci sono le dimissioni a punti: anche se arriva un rinvio a giudizio, c’è il bonus».
Infine, la conclusione della Cartolina: «Per questo, cara Daniela, abbiamo deciso di scriverle: per esprimerle solidarietà e farle i complimenti. Pochi ministri sono stati attaccati come lei, ma soprattutto pochi ministri sono stati attaccati come lei alla poltrona. Più che attaccata, incollata, per la verità. Così toccherà innovare anche i soprannomi: altro che Pitonessa, lei è Lady Coccoina».
(da agenzie)

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IL TRIONFO DELLE DISEGUAGLIANZE

Gennaio 27th, 2025 Riccardo Fucile

META’ DELLA POPOLAZIONE MONDIALE LOTTA PER SOPRAVVIVERE CON MENO DI 6.8 DOLLARI AL GIORNO

Mentre il mondo affronta crisi ecologiche, instabilità geopolitiche e economiche, una costante attraversa i decenni: la crescita inarrestabile delle disuguaglianze. Se da un lato l’élite globale rafforza le proprie posizioni con patrimoni esponenziali, dall’altro quasi metà della popolazione mondiale continua a lottare per sopravvivere con meno di 6,85 dollari al giorno. Il rapporto di Oxfam, “L’ora più buia per l’uguaglianza”, smaschera con brutale precisione le dinamiche alla base di un sistema che favorisce pochi privilegiati, perpetuando un ciclo di povertà per miliardi di persone.
Numeri allarmanti
Nel 2024, la ricchezza dei miliardari è cresciuta di 2.000 miliardi di dollari, ovvero 5,7 miliardi al giorno, un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. L’élite composta da 3.000 miliardari ha visto le proprie fortune decollare, consolidando un sistema economico profondamente squilibrato. Elon Musk, il più ricco al mondo, ha incrementato il suo patrimonio del 31% raggiungendo 330 miliardi di dollari, mentre Mark Zuckerberg ha registrato una crescita del 69%, portandosi a 198 miliardi.
Questa concentrazione di ricchezza coesiste con una povertà globale stagnante: circa 3,5 miliardi di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno, un livello che rende quasi impossibile condurre una vita dignitosa. Secondo la Banca Mondiale, ci vorrà più di un secolo per sollevare l’intera popolazione del pianeta al di sopra di questa soglia, a meno di drastici cambiamenti.
La favola del merito
L’idea che i miliardari siano tali grazie al merito è un mito sempre più insostenibile. Oltre il 36% della ricchezza miliardaria è ereditata, e questo fenomeno è destinato a crescere nei prossimi decenni. Si prevede un trasferimento generazionale di 5.200 miliardi di dollari in ricchezza ereditata, creando un’aristocrazia globale che perpetua i vantaggi senza meritocrazia.
Il rapporto evidenzia che molte delle fortune miliardarie derivano da poteri monopolistici. Amazon, ad esempio, controlla oltre il 70% del mercato degli acquisti online in Germania, Francia, Regno Unito e Spagna, una posizione dominante che soffoca la concorrenza e riduce le opportunità per le piccole imprese. Aliko Dangote in Nigeria, detentore di un quasi monopolio sul cemento, è un altro esempio di come le rendite monopolistiche siano spesso la base della ricchezza.
Un sistema fiscale e commerciale sbilanciato
L’attuale sistema economico globale non solo favorisce i miliardari, ma perpetua disuguaglianze storiche radicate nel colonialismo. I Paesi a basso reddito sono costretti a fare affidamento su sistemi fiscali regressivi e commercio iniquo. Secondo Oxfam, i Paesi ricchi drenano annualmente circa 1.000 miliardi di dollari dai Paesi poveri attraverso scambi commerciali impari e pratiche fiscali abusive.
Inoltre, il debito è un altro strumento di oppressione economica. Paesi come Haiti e Indonesia continuano a pagare debiti coloniali ereditati, che hanno drenato risorse vitali per lo sviluppo. Tra il 1970 e il 2023, i Paesi in via di sviluppo hanno pagato 3.300 miliardi di dollari in interessi ai creditori occidentali.
Italia: il riflesso delle disuguaglianze globali
Anche in Italia, le disuguaglianze economiche sono evidenti. Il 5% più ricco delle famiglie italiane detiene quasi il 48% della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera possiede appena il 7%. Questa concentrazione di ricchezza ha visto un incremento costante negli ultimi decenni, con un aumento del coefficiente di Gini, che misura la disuguaglianza, passato da 0,67 a 0,71 dal 2010 al 2024.
Le politiche fiscali italiane contribuiscono a questa disuguaglianza. La proliferazione di esenzioni e aliquote ridotte favorisce le fasce più ricche, mentre i lavoratori dipendenti subiscono un carico fiscale sproporzionato. Il sistema fiscale, anziché essere un meccanismo redistributivo, amplifica le disparità.
Le distorsioni del mercato del lavoro
Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da una crescita dell’occupazione precaria e salari stagnanti. Circa il 59% dei lavoratori italiani ha sperimentato almeno un anno con basse retribuzioni dal 2015 al 2022. Anche i contratti a tempo determinato sono in costante aumento, con un’incidenza particolarmente alta tra i giovani.
La decisione del governo di sostituire il Reddito di Cittadinanza con l’Assegno di Inclusione ha escluso migliaia di famiglie in difficoltà dal sostegno pubblico. Nonostante una retorica centrata sul contrasto alla povertà, le nuove misure si sono rivelate insufficienti e spesso inadeguate.
Conclusioni: il bivio davanti a noi
Il rapporto di Oxfam offre un quadro impietoso di un sistema economico che premia i privilegiati e punisce i vulnerabili. Per cambiare rotta, è necessaria un’azione globale e locale che metta al centro la redistribuzione della ricchezza, il controllo sui monopoli e l’introduzione di politiche fiscali progressive.
Il futuro dipende dalla volontà politica di affrontare le disuguaglianze. Continuare sulla strada attuale significa non solo perpetuare l’ingiustizia sociale, ma anche compromettere la sostenibilità economica e ambientale del pianeta. Il vero progresso non si misura in miliardi accumulati, ma nella capacità di garantire dignità e opportunità per tutti.
(da LaFionda)

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UN ANNO DI PIANO MATTEI SOTTO LA PROPAGANDA, NIENTE

Gennaio 27th, 2025 Riccardo Fucile

RICICLO DI VECCHI PROGETTI, POCHI FONDI, MANCATA TRASPARENZA E COLLABORAZIONE CON LA SOCIETA’ CIVILE, OSCURI I CRITERI DI SELEZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI AI TAVOLI

Era stata raccontata come una scatola aperta alla condivisione e alla collaborazione, ma dopo un anno non è altro che una scatola vuota. È così che descrive il Piano Mattei per l’Africa chi tra le organizzazioni della società civile si occupa di monitorare l’iniziativa presentata il 29 gennaio 2024 in modo altisonante, in Senato, dalla premier Giorgia Meloni. Di fronte a lei i rappresentanti di 46 paesi del continente africano, i tre presidenti delle istituzioni europee, i vertici dell’Onu, dell’Unione africana e delle organizzazioni internazionali.
Nel discorso di apertura, la premier raccontava di un progetto strategico che avrebbe smontato «narrazioni distorte, come quella che vorrebbe l’Africa un continente povero», rifiutato interventi calati dall’alto, introdotto «un metodo nuovo» e promosso il principio della «condivisione».
Un anno dopo non è chiaro quali siano i tasselli che compongono il puzzle, quanti fondi siano stati spesi e quale sia l’obiettivo: se «una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria» – per dirla con la premier – o al contrario l’ennesimo piano di sfruttamento delle risorse del continente africano.
I pochi ricercatori che se ne occupando propendono per la seconda. Il percorso tracciato fin qui sembra ricalcare una storia conosciuta, che racconta di interessi privati di grandi multinazionali, poca trasparenza, mancata collaborazione con le comunità locali e con la società civile africana, vantaggi che corrono solo in una direzione – verso l’Europa – interessi energetici, ed estrattivismo fossile. A gennaio 2024, il ministro della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, aveva dichiarato che il piano si sarebbe occupato anche di gas.
Cos’è il piano
Il Piano Mattei ha individuato sei direttrici: istruzione-formazione, agricoltura, salute, energia, infrastrutture fisiche e digitali. La prima relazione sullo stato di attuazione del programma, trasmessa al parlamento e aggiornata al 10 ottobre 2024, è stata presentata in ritardo rispetto al termine del 30 giugno, «per il solo anno in corso».
«Dopo un anno, non è chiaro se sia un’iniziativa di cooperazione, di internazionalizzazione delle imprese, energetica, o di contenimento dei flussi migratori», commenta Cristiano Maugeri, Programme Developer di ActionAid. L’ong, durante l’audizione alla commissione Esteri della Camera, ha segnalato «l’estrema astrattezza e genericità del piano, nonché una preoccupante mancanza di trasparenza»: non si conoscono il criterio di selezione dei progetti e delle organizzazioni invitate ai tavoli.
Dei tre tavoli di coordinamento previsti, l’unico che risulta funzionante è quello sulla sicurezza energetica, che si è già riunito cinque volte, e addirittura convocato per la prima volta pochi giorni dopo il primo decreto del Piano. Infine non si conoscono i principi dietro «l’identificazione dei componenti» della cabina di regia, in cui è stata inserita la fondazione Med-Or di Leonardo, presieduta dall’ex ministro Marco Minniti. A sostegno del piano, la fondazione della società produttrice di armi si è trasformata in Fondazione per l’Italia, in cui sono confluite anche le partecipate: Cdp, Enel, Eni, Fs, Fincantieri, Poste Italiane, Snam e Terna.
I finanziamenti
«C’è astuzia dietro alla creazione di un piano del genere, che manca di un percorso parlamentare, senza regole e struttura», continua Maugeri, «perché può essere modificato in qualsiasi momento».
Soprattutto se la governance, come in questo caso, tende all’accentramento di funzioni verso la Presidenza del consiglio. Dei 5,5 miliardi di euro annunciati da Meloni per il piano, di cui tre miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa due miliardi e mezzo dalla Cooperazione allo sviluppo, non è previsto alcun finanziamento aggiuntivo ad hoc.
In questo modo, il piano «allunga la sua ombra sulla gestione del Fondo per il clima», spiega Maugeri, che si chiede se valgano, o siano derogati, i limiti posti su questi finanziamenti per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dagli accordi internazionali sul clima. In ogni caso, capire le risorse spese per i progetti è «forse una delle parti più difficili», spiega Simone Ogno, campaigner di ReCommon: «Non esiste uno schema ben preciso ma emergono interventi molto spot». Quanto previsto dall’Italia è «davvero poco, viste le ambizioni del piano, che sono sempre oggetto di propaganda», sottolinea.
I progetti
Per Ogno il processo è simile a quello del Pnrr: «Per evitare ritardi, hanno inserito i progetti già esistenti delle principali multinazionali italiane». Il risultato, dice, è «un collage di piani di investimento delle attività delle multinazionali italiane». Eppure, Meloni nel suo discorso aveva detto basta «alla logica delle risorse spese in miriadi di micro interventi»
Nella relazione, sono in totale 21 i progetti di cui si dà conto: 17 nei nove paesi destinatari dei progetti pilota (Algeria Egitto, Tunisia, Marocco, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico e Repubblica del Congo) e quattro regionali o transnazionali. «Si tratta di mega progetti infrastrutturali a beneficio fondamentalmente dell’export verso l’Europa di risorse legate all’energia – prosegue Ogno – o alla creazione di poli logistici favorevoli al trasferimento delle merci verso l’Occidente». Secondo ReCommon si sta entrando in una fase critica in cui inizieranno ad emergere in maniera ancora più netta i grandi interessi.
Molti dei progetti che sono confluiti nel Piano Mattei erano già esistenti. Come il Centro agroalimentare di Manica, «un progetto che nasce già vecchio», come raccontato da Domani, perché era stato promosso dalla cooperazione italiana nel 2021. Un polo logistico per l’incontro di domanda e offerta che ReCommon giudica un modo per distogliere l’attenzione dall’azione di multinazionali energetiche come Eni. E, nello specifico, dal progetto estrattivo di fronte alle coste del Mozambico. C’è poi il “corridoio di Lobito” nell’Africa meridionale, con l’obiettivo di collegare la città di Luacano, in Angola, con Chingola, in Zambia, attraverso la Repubblica democratica del Congo per facilitare il trasporto di minerali e prodotti agricoli.
Se ci spostiamo verso nord est, in Kenya, come raccontato da Report, il progetto relativo alla produzione di olio di ricino per biocarburanti ha, sulla carta, l’obiettivo di sostenere gli agricoltori locali. Eni ha beneficiato di 75 milioni di euro del Fondo Clima e di 135 dalla Banca centrale. Un progetto «già in corso e dai dubbi risultati», scrive ActionAid, «che rischia di mettere in competizione, in un paese che sta sperimentando l’ennesima crisi alimentare, la produzione agricola per la produzione di energia con quella per gli alimenti». Quello che si è osservato finora, spiega Ogno, è «l’impoverimento dei terreni e una bassa produttività rispetto a quella attesa. Così anche la controparte economica destinata ai contadini è di molto inferiore».
Servono misure concrete, ha segnalato ActionAid, di salvaguardia e tutela: «Una due diligence obbligatoria in tema di diritti umani e ambiente». Al momento, dice Ogno, non rimane nulla per i bisogni della popolazione locale, anche se 600 milioni di persone vivono in povertà energetica: «I soldi pubblici vanno nei fatti a beneficio dei soliti privati».
Il piano ha preso il nome del fondatore di Eni, Enrico Mattei, conosciuto per i rapporti di collaborazione con i paesi africani, che – citato da Meloni – «amava dire: “l’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono”». Il Piano Mattei sembra invece andare in un’altra direzione, con l’ambizione di diventare l’hub energetico europeo. Non un’ambizione originale, la stessa di altri paesi Ue. E così, nonostante la propaganda del governo, «la questione migratoria», conclude Ogno, «è nettamente in secondo piano rispetto a quella energetica».
(da Domani)

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INFERMIERI E MEDICI: QUANTO GUADAGNANO DAVVERO E CHI HA FATTO SALTARE GLI AUMENTI

Gennaio 27th, 2025 Riccardo Fucile

LA CARENZA DI QUESTE FIGURE PROFESSIONALI STA METTENDO A RISCHIO LA TENUTA DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE… LE RESPONSABILITA’ DEL GOVERNO

Solo dentro agli ospedali pubblici oggi in Italia mancano 60 mila infermieri, e sarà difficile trovarli. I motivi sono almeno tre.
Il primo: gli attuali 20 mila posti del corso triennale di laurea in Infermieristica sono il doppio rispetto a 24 anni fa, ma su 100 messi a bando alla fine si laureano in 70, sia perché non tutti i posti vengono coperti durante le iscrizioni, sia perché troppi studenti lasciano tra il primo e secondo anno (fonte: Angelo Mastrillo, docente di Organizzazione delle professioni sanitarie dell’Università di Bologna).
Il secondo: a sostituire i 13 mila pensionamenti all’anno non bastano certo i 10 mila laureati del 2023 e i 12 mila del 2024. Le uscite, dunque, continuano a non essere coperte dagli ingressi, e se anche se nel prossimo triennio le cose dovessero andare meglio chissà quanti anni ci vorranno per bilanciare coprire i buchi di organico ereditati dal passato (fonte: Claudio Buongiorno Sottoriva, ricercatore del Cergas-Sda Bocconi).
Terzo: il fenomeno delle dimissioni volontarie è inarrestabile. C’è infatti un’emorragia continua di professionisti che lasciano il Sistema sanitario nazionale, tant’è che fra il 2017 e il 2023 si contano 7.708 liberi professionisti in più, e solo nel 2023 almeno altri tremila sono scappati all’estero (fonte: Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche – Fnopi).
La conclusione è che il Servizio sanitario nazionale è poco attrattivo perché a fronte di turni massacranti, rischio aggressioni, possibilità di carriera vicina allo zero la busta paga è misera.
Il rinnovo del contratto
Il contratto degli infermieri, come quello dei medici e più in generale della Pubblica amministrazione, prevede un rinnovo ogni tre anni. I fondi li deve stanziare il governo che di solito lo fa con le leggi di Bilancio. La firma arriva dopo una contrattazione tra i sindacati e l’Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni, che tratta per lo Stato. Vediamo come si è arrivati fin qui e cosa si prospetta in futuro.
Tutti i ritardi
A partire dal luglio 2009 fino al maggio 2018 gli infermieri non vedono un euro in più in busta paga a causa del blocco dei contratti dalla Pubblica amministrazione. Uno stop introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi per il risanamento dei conti pubblici, confermato in seguito dai premier Monti, Letta e Renzi, e dichiarato poi incostituzionale (qui). Il primo aumento di 81 euro lordi al mese arriva con il rinnovo del contratto 2016-2018 (qui).
La trattativa per il triennio 2019-2021 viene conclusa il 2 novembre 2022 (qui). In busta paga entreranno 163 euro lordi al mese in più, che fanno arrivare gli infermieri alla retribuzione attuale di 27.476 euro lordi all’anno (su 13 mensilità) per un neoassunto. Vuol dire che netti al mese sono 1.694 euro, che diventano 1.939 dopo 30 anni di carriera. Intanto nel 2022, 2023 e 2024 si è accumulata un’inflazione che ha eroso il potere d’acquisto del 17% e che pesa come un macigno su uno stipendio già di per sé basso.
Salta la firma
E arriviamo al rinnovo del contratto 2022-2024. Dopo 7 mesi di trattative poteva essere firmato il 15 gennaio 2025, ma è saltato per un minuscolo 0,39%. Il peso delle sigle sindacali contrarie è stato maggiore di quelle a favore: 47,05% contro 46,66%. Hanno detto no la Fg Cigl (che rappresenta il 21,60% dei lavoratori), la Uil Fpl (19,02%) e il Nursing up (6,43%); contro il sì di Cisl Fp (23,72%), Fials (12,13%) e Nursind (10,81%) (qui).
Gli aumenti sul tavolo
Che cosa c’è sul tavolo economicamente lo ricostruiamo incrociando le tabelle messe a disposizione di Dataroom dall’Aran e dal Nursind, il più importante sindacato degli infermieri, poiché gli altri rappresentano complessivamente i lavoratori del comparto Sanità. In totale le risorse in gioco ammontano a 1 miliardo e 784 milioni.
La Legge di bilancio 2024 (comma 27) ci mette 1,5 miliardi per aumentare lo stipendio-base di 135 euro lordi al mese (su 13 mensilità) e 7,3 euro di indennità infermieristica. La Legge di bilancio 2025 mette 35 milioni per aumentare l’indennità di altri 6,5 euro mensili (comma 352), più 31 euro al mese da altre piccole voci. Tirando le somme: un aumento di 180 euro lordi in più al mese, ossia 2.340 euro lordi all’anno.C’è poi un trattamento aggiuntivo per gli infermieri del Pronto Soccorso. Considerata la difficoltà di trovare professionisti disposti a lavorare in questi reparti, la Legge di bilancio 2023 (comma 526) mette un’indennità specifica di 140 milioni, e altri 35 la Legge di bilancio 2025 (comma 323). Queste somme tradotte nella busta paga prevedono 353 euro lordi al mese in più dal 1° giugno 2023, a cui se ne aggiungono 81 dal 1° gennaio 2024, e 108 dal 1° gennaio 2025. In sintesi: dal 1° gennaio 2025 per un infermiere di Pronto soccorso l’aumento complessivo arriva a 542 euro lordi al mese. Se i soldi a disposizione vengono divisi tra una platea più ampia, che tiene conto anche dei tecnici e degli amministrativi, queste cifre si riducono per tutti a 477 euro lordi al mese (-12%). Sul tavolo anche la detassazione del 5% per gli straordinari, che si traduce in un risparmio di 4,80 euro di tasse sui 17,62 presi per un’ora di straordinario diurno.
Slitta tutto
Cosa comporta la mancata firma del rinnovo contrattuale 2022-2024? Che i soldi a disposizione non vengono portati a casa adesso. E in più non può partire la contrattazione per il rinnovo 2025-2027 per cui la Legge di bilancio 2025 ha già stanziato 1 miliardo e 904 milioni. Nel dettaglio: 1 miliardo e 484 milioni per lo stipendio-base (comma 128), ossia 150 euro lordi al mese dal 2027; a cui vanno ad aggiungersi 250 milioni per l’indennità di specificità infermieristica (comma 352) di 53 euro mensili lordi; e 35 milioni per l’indennità di Pronto soccorso (comma 323), cioè altri 60 euro lordi mensili a decorrere dal 2026. In totale per un infermiere si tratta di 203 euro lordi mensili in più, e 263 per chi lavora in Pronto Soccorso.
Gli aumenti previsti per i medici
Anche il rinnovo del contratto dei medici segue lo stesso schema: finanziamenti stanziati dalle Leggi di bilancio e contrattazione tra le sigle sindacali e l’Aran. Oggi un primario di area chirurgica con incarico da oltre venticinque anni percepisce 8.600 euro lordi al mese (per tredici mensilità), un medico con oltre quindici anni di anzianità riceve 6.665 euro lordi, tra i cinque e i 15 anni di servizio la remunerazione è di 6.305 euro lordi. Poiché le trattative di solito partono una volta concluse quelle degli infermieri, sarà dunque inevitabile uno slittamento in avanti. L’ultimo rinnovo i medici l’hanno firmato il 23 gennaio 2024 ed è relativo al 2019-2021 (qui e qui il Dataroom del novembre 2023). Cosa mettono sul tavolo le Leggi di bilancio per il contratto 2022-2024? La legge di bilancio 2024 (comma 27) prevede 956 milioni per l’aumento dello stipendio-base, che tradotti sono 438 euro lordi al mese. Mentre la Legge di bilancio 2025 stanzia 50 milioni per l’indennità di specificità medica (comma 350) pari a un aumento di23euro lordi al mese, e 75 milioni per l’indennità di Pronto soccorso (comma 323) pari ad altri 800 euro lordi al mese in più.
Un altro miliardo e 261 milioni sono stati stanziati per il rinnovo del contratto 2025-2027.
Saranno anche pochi soldi, ma adesso chissà quando saranno portati a casa.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)

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