UN ANNO DI PIANO MATTEI SOTTO LA PROPAGANDA, NIENTE
RICICLO DI VECCHI PROGETTI, POCHI FONDI, MANCATA TRASPARENZA E COLLABORAZIONE CON LA SOCIETA’ CIVILE, OSCURI I CRITERI DI SELEZIONE DELLE ORGANIZZAZIONI AI TAVOLI
Era stata raccontata come una scatola aperta alla condivisione e alla collaborazione, ma dopo un anno non è altro che una scatola vuota. È così che descrive il Piano Mattei per l’Africa chi tra le organizzazioni della società civile si occupa di monitorare l’iniziativa presentata il 29 gennaio 2024 in modo altisonante, in Senato, dalla premier Giorgia Meloni. Di fronte a lei i rappresentanti di 46 paesi del continente africano, i tre presidenti delle istituzioni europee, i vertici dell’Onu, dell’Unione africana e delle organizzazioni internazionali.
Nel discorso di apertura, la premier raccontava di un progetto strategico che avrebbe smontato «narrazioni distorte, come quella che vorrebbe l’Africa un continente povero», rifiutato interventi calati dall’alto, introdotto «un metodo nuovo» e promosso il principio della «condivisione».
Un anno dopo non è chiaro quali siano i tasselli che compongono il puzzle, quanti fondi siano stati spesi e quale sia l’obiettivo: se «una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria» – per dirla con la premier – o al contrario l’ennesimo piano di sfruttamento delle risorse del continente africano.
I pochi ricercatori che se ne occupando propendono per la seconda. Il percorso tracciato fin qui sembra ricalcare una storia conosciuta, che racconta di interessi privati di grandi multinazionali, poca trasparenza, mancata collaborazione con le comunità locali e con la società civile africana, vantaggi che corrono solo in una direzione – verso l’Europa – interessi energetici, ed estrattivismo fossile. A gennaio 2024, il ministro della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, aveva dichiarato che il piano si sarebbe occupato anche di gas.
Cos’è il piano
Il Piano Mattei ha individuato sei direttrici: istruzione-formazione, agricoltura, salute, energia, infrastrutture fisiche e digitali. La prima relazione sullo stato di attuazione del programma, trasmessa al parlamento e aggiornata al 10 ottobre 2024, è stata presentata in ritardo rispetto al termine del 30 giugno, «per il solo anno in corso».
«Dopo un anno, non è chiaro se sia un’iniziativa di cooperazione, di internazionalizzazione delle imprese, energetica, o di contenimento dei flussi migratori», commenta Cristiano Maugeri, Programme Developer di ActionAid. L’ong, durante l’audizione alla commissione Esteri della Camera, ha segnalato «l’estrema astrattezza e genericità del piano, nonché una preoccupante mancanza di trasparenza»: non si conoscono il criterio di selezione dei progetti e delle organizzazioni invitate ai tavoli.
Dei tre tavoli di coordinamento previsti, l’unico che risulta funzionante è quello sulla sicurezza energetica, che si è già riunito cinque volte, e addirittura convocato per la prima volta pochi giorni dopo il primo decreto del Piano. Infine non si conoscono i principi dietro «l’identificazione dei componenti» della cabina di regia, in cui è stata inserita la fondazione Med-Or di Leonardo, presieduta dall’ex ministro Marco Minniti. A sostegno del piano, la fondazione della società produttrice di armi si è trasformata in Fondazione per l’Italia, in cui sono confluite anche le partecipate: Cdp, Enel, Eni, Fs, Fincantieri, Poste Italiane, Snam e Terna.
I finanziamenti
«C’è astuzia dietro alla creazione di un piano del genere, che manca di un percorso parlamentare, senza regole e struttura», continua Maugeri, «perché può essere modificato in qualsiasi momento».
Soprattutto se la governance, come in questo caso, tende all’accentramento di funzioni verso la Presidenza del consiglio. Dei 5,5 miliardi di euro annunciati da Meloni per il piano, di cui tre miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa due miliardi e mezzo dalla Cooperazione allo sviluppo, non è previsto alcun finanziamento aggiuntivo ad hoc.
In questo modo, il piano «allunga la sua ombra sulla gestione del Fondo per il clima», spiega Maugeri, che si chiede se valgano, o siano derogati, i limiti posti su questi finanziamenti per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dagli accordi internazionali sul clima. In ogni caso, capire le risorse spese per i progetti è «forse una delle parti più difficili», spiega Simone Ogno, campaigner di ReCommon: «Non esiste uno schema ben preciso ma emergono interventi molto spot». Quanto previsto dall’Italia è «davvero poco, viste le ambizioni del piano, che sono sempre oggetto di propaganda», sottolinea.
I progetti
Per Ogno il processo è simile a quello del Pnrr: «Per evitare ritardi, hanno inserito i progetti già esistenti delle principali multinazionali italiane». Il risultato, dice, è «un collage di piani di investimento delle attività delle multinazionali italiane». Eppure, Meloni nel suo discorso aveva detto basta «alla logica delle risorse spese in miriadi di micro interventi»
Nella relazione, sono in totale 21 i progetti di cui si dà conto: 17 nei nove paesi destinatari dei progetti pilota (Algeria Egitto, Tunisia, Marocco, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico e Repubblica del Congo) e quattro regionali o transnazionali. «Si tratta di mega progetti infrastrutturali a beneficio fondamentalmente dell’export verso l’Europa di risorse legate all’energia – prosegue Ogno – o alla creazione di poli logistici favorevoli al trasferimento delle merci verso l’Occidente». Secondo ReCommon si sta entrando in una fase critica in cui inizieranno ad emergere in maniera ancora più netta i grandi interessi.
Molti dei progetti che sono confluiti nel Piano Mattei erano già esistenti. Come il Centro agroalimentare di Manica, «un progetto che nasce già vecchio», come raccontato da Domani, perché era stato promosso dalla cooperazione italiana nel 2021. Un polo logistico per l’incontro di domanda e offerta che ReCommon giudica un modo per distogliere l’attenzione dall’azione di multinazionali energetiche come Eni. E, nello specifico, dal progetto estrattivo di fronte alle coste del Mozambico. C’è poi il “corridoio di Lobito” nell’Africa meridionale, con l’obiettivo di collegare la città di Luacano, in Angola, con Chingola, in Zambia, attraverso la Repubblica democratica del Congo per facilitare il trasporto di minerali e prodotti agricoli.
Se ci spostiamo verso nord est, in Kenya, come raccontato da Report, il progetto relativo alla produzione di olio di ricino per biocarburanti ha, sulla carta, l’obiettivo di sostenere gli agricoltori locali. Eni ha beneficiato di 75 milioni di euro del Fondo Clima e di 135 dalla Banca centrale. Un progetto «già in corso e dai dubbi risultati», scrive ActionAid, «che rischia di mettere in competizione, in un paese che sta sperimentando l’ennesima crisi alimentare, la produzione agricola per la produzione di energia con quella per gli alimenti». Quello che si è osservato finora, spiega Ogno, è «l’impoverimento dei terreni e una bassa produttività rispetto a quella attesa. Così anche la controparte economica destinata ai contadini è di molto inferiore».
Servono misure concrete, ha segnalato ActionAid, di salvaguardia e tutela: «Una due diligence obbligatoria in tema di diritti umani e ambiente». Al momento, dice Ogno, non rimane nulla per i bisogni della popolazione locale, anche se 600 milioni di persone vivono in povertà energetica: «I soldi pubblici vanno nei fatti a beneficio dei soliti privati».
Il piano ha preso il nome del fondatore di Eni, Enrico Mattei, conosciuto per i rapporti di collaborazione con i paesi africani, che – citato da Meloni – «amava dire: “l’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono”». Il Piano Mattei sembra invece andare in un’altra direzione, con l’ambizione di diventare l’hub energetico europeo. Non un’ambizione originale, la stessa di altri paesi Ue. E così, nonostante la propaganda del governo, «la questione migratoria», conclude Ogno, «è nettamente in secondo piano rispetto a quella energetica».
(da Domani)
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