Marzo 14th, 2018 Riccardo Fucile
MANCANO 130 MILIONI DI FINANZIAMENTO STATALE
Sono oltre 7.400 gli studenti universitari risultati idonei a ricevere la borsa per l’anno accademico 2016-2017, quindi con tutte le carte in regola, ma restano in lista d’attesa perchè di fatto i soldi non ci sono.
Tutto parte dal 2015-2016: ben 35mila ragazzi hanno perso la borsa di studio universitaria a causa delle modifiche apportate all’indicatore Isee.
Nell’anno successivo i fondi sono aumentati, riportando la situazione alla“vecchia” normalità dove vengono esclusi dalla borsa 7.441 aventi diritto.
«Mancano ancora 130 milioni di euro sul Fondo integrativo statale per garantire una copertura totale degli idonei, nonostante l’aumento dell’ultimo anno che lo ha portato a 219 milioni — spiega Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Unione degli Universitari — il sottofinanziamento del sistema di diritto allo studio sta provocando una distorsione delle fonti di finanziamento per provare a coprire tutti gli idonei alla borsa: oltre ai fondi immessi dagli atenei, infatti, molte regioni sono costrette a utilizzare i Fondi Sociali Europei per coprire le borse, invece di utilizzarli per migliorare la qualità dei servizi offerti»
In base alla ripartizione del Fis per il 2017, le regioni del Sud ottengono un aumento del 40% mentre quelle del Centro perdono il 7,3% e quelle del Nord perdono il 13,7%.
Nel dettaglio, il Lazio, il Piemonte, la Lombardia e la Valle d’Aosta hanno perso il 20% rispetto al 2016: per il Lazio sono spariti 5,8 milioni di euro, in Piemonte 2,5 milioni e nella Lombardia 4,6 milioni, il Veneto ha perso 2,5 milioni e l’Emilia Romagna 1,9.
Buone notizie invece per il meridione dove la Sicilia è passata dai 12,5 milioni del 2016 ai 25 del 2017, la Puglia e la Calabria hanno guadagnato 4 milioni di euro ciascuna e la Sardegna 3,5 milioni.
(da “NextQuotidiano”)
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Gennaio 15th, 2018 Riccardo Fucile
COSA AVVIENE ALL’ESTERO DOVE CONTANO ANCHE ESENZIONI E AGEVOLAZIONI
In Italia non solo le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa, ma il nostro Paese non è neppure fra quelli che sostengono maggiormente l’istruzione dei giovani.
Tra gli Stati dove l’università è economicamente più accessibile ci sono sicuramente Germania, Danimarca, Finlandia, Svezia, Scozia e Norvegia.
Le rette più alte sono quelle della Gran Bretagna, anche se nel Regno Unito gli studenti possono iniziare a pagare dopo la laurea.
La recente proposta del presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso di abolire le tasse è stata criticata in primis dal Pd, ma anche dall’ex ministro Vincenzo Visco, secondo il quale in Italia “sono così basse che non è che abolendole succeda molto” e dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che l’ha definita una misura “trumpiana” che sarebbe un “supporto fondamentale alla parte più ricca del Paese”, perchè “oggi sono già esentati gli studenti con reddito basso”.
Ma è davvero così?
“La misura — ha spiegato intanto Grasso — costa 1,6 miliardi: avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei significa credere davvero sui giovani, non a parole ma con fatti concreti”.
Da LeU, a difendere la proposta di Grasso, sono stati Nicola Fratoianni e Roberto Speranza.
Ma rispetto agli altri Paesi europei, in Italia si paga davvero di più per frequentare l’università ?
Cosa succede altrove? Per avere un’idea del sostegno che si dà (o non si dà ) agli studenti italiani e ai loro genitori, anche in confronto ad altre realtà , bisogna tenere presenti diversi fattori. Non solo i costi di iscrizione all’Università , ma anche il sistema di esenzioni e le borse di studio.
Le tasse universitarie in Italia
Secondo l’Ocse negli ultimi dieci anni le tasse universitarie sono aumentate in Italia del 60%, facendo piazzare il Paese al terzo posto della classifica dei più cari d’Europa, dopo Olanda e Regno Unito.
D’altro canto, a fine anno, l’Unione degli Universitari ha denunciato nel dossier Dieci anni sulle nostre spalle che mentre in Italia le borse di studio sono poche e insufficienti a sostenere i costi da affrontare, la tassazione media che pesa sugli studenti universitari è aumentata di 473,58 euro negli ultimi due lustri.
Una prima grande differenza con diversi Paesi è che in Italia le rette le pagano sia gli studenti europei sia quelli extracomunitari. Nell’università pubblica le rette partono dai circa 500 euro per arrivare a superare i duemila euro, a seconda del reddito Isee della famiglia e dell’ateneo. Si segue quindi un sistema progressivo con il quale, già oggi, chi ha un reddito basso non paga, mentre la retta aumenta in modo proporzionale al reddito
La tassazione media che pesa sugli studenti universitari in Italia è aumentata di 473,58 euro negli ultimi due lustri
Chi ha pagato, chi pagherà
Nel 2016 sono stati quasi un milione e 700mila gli studenti che si sono iscritti a corsi di laurea, dottorati, master e specializzazioni, oltre un milione e mezzo solo ai corsi di laurea.
§E di questo milione e mezzo quelli esonerati totalmente dal pagamento delle tasse sono stati 176mila, mentre in 134mila hanno ottenuto uno ‘sconto’.
Nell’ultima legge di Stabilità , però, il governo Gentiloni ha inserito il cosiddetto Student Act che esonera dal pagamento delle tasse tutti gli studenti le cui famiglie hanno un Isee inferiore a 13mila euro.
Diverse università hanno aumentato il limite stabilito dal governo, non facendo pagare le tasse agli studenti con Isee inferiore a 15mila euro.
L’Istat stima che questa novità ridurrà il costo delle tasse del 39,3%. Secondo un’analisi del Sole 24 Ore la decontribuzione per il 2017/2018 porterà a quasi 600mila gli studenti che non pagheranno tasse e a 500mila quelli che beneficiano dell’esenzione parziale. Questo significa che oggi un terzo degli studenti non paga le tasse universitarie e un terzo paga importi agevolati. A chi gioverebbe quindi l’abolizione? In Italia sborsano la retta intera gli studenti con alle spalle famiglie che presentano un reddito Isee superiore a 30mila euro.
Quindi se è vero che quelle meno abbienti sono già esonerate, è anche vero che quelli che pagano non sono necessariamente ‘figli dei ricchi’ che, tra l’altro, frequentano sempre più spesso università private, anche straniere. La differenza potrebbero invece sentirla le famiglie che hanno un reddito medio e sul cui budget le rette universitarie influiscono eccome.
Il confronto con i Paesi europei
Ma per fare un confronto con gli altri Paesi è necessario considerare tutta una serie di agevolazioni che fanno sistema altrove e che da noi sono ancora una chimera. Si parte sì dalle tasse, per arrivare a borse di studio, sostegno per gli studenti che vivono da soli e ad altri tipi di agevolazione.
§Basti pensare che in Italia solo il 9-10% degli universitari percepisce una borsa di studio a fronte del 25% in Germania, 30% in Spagna e del 40% in Francia.
Secondo un rapporto Eurydice per la Commissione europea i Paesi europei dove non esistono, o quasi, tasse universitarie sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Scozia, Grecia, Malta e Cipro. In Germania e Austria sono state prima introdotte e poi abolite.
In Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia gli studi sono gratuiti solo per gli europei: in Austria la tassa annuale per gli studenti che non provengono da un Paese dell’Ue va dai 600 ai 1.500 euro, in Danimarca dai 6mila a 16mila euro, mentre in Finlandia è stata di recente introdotta una tassa di 1.500 euro, ma solo per i corsi di laurea in inglese. Decisamente più alte, invece, le tasse in Italia e in Paesi come Spagna, Irlanda, Olanda, Portogallo e Svizzera. In diverse realtà , poi, c’è un legame tra le tasse universitarie e il merito: accade, ad esempio, in Spagna come in Austria, in Polonia come in Slovacchia
In Danimarca gli studenti che vivono da soli, invece, possono ricevere fino a 804 euro al mese
Danimarca, Finlandia, Scozia e Germania tra i più virtuosi
Come ricordato da FQ Millennium Danimarca, Germania, Finlandia e Norvegia sono quattro Paesi accomunati da due fattori: non ci sono tasse universitarie ed esiste un ottimo sistema di erogazione delle borse di studio.
Gli studenti a tempo pieno residenti in Danimarca ricevono un aiuto economico a cadenza settimanale o mensile per l’intera durata della loro carriera accademica.
Per gli universitari che vivono a casa dei genitori il valore delle borse di studio va dai 124 euro (se il reddito familiare supera i 76.900 euro) ai 346 euro (se il reddito è pari o inferiore ai 45mila euro).
Gli studenti che vivono da soli, invece, possono ricevere fino a 804 euro al mese. Il 38% degli studenti danesi utilizza poi i prestiti al 4% d’interesse: possono arrivare a 411 euro al mese e può beneficiarne anche chi già ha ottenuto una borsa di studio. In Finlandia, invece, tra prestito statale (3.600 euro) e borsa di studio ogni studente ha a disposizione ogni anno la somma massima di 11.260 euro.
Nel caso in cui abbia un reddito inferiore agli 11.850 euro, lo Stato garantisce allo studente un aiuto per la copertura di parte delle spese di affitto: 201 euro al mese per 9 mesi.
E anche in Finlandia funziona molto bene il sistema dei prestiti da parte del governo: 400 euro al mese, che si iniziano a restituire generalmente entro due anni dalla laurea. In Scozia, l’agenzia governativa Student Awards Agency for Scotland paga agli studenti europei l’intera retta universitaria a patto che gli esami vengano superati nei tempi previsti.
In Germania e Norvegia si pagano (scontati) solo i servizi
In Germania il sistema non è neppure paragonabile al nostro. Non esiste alcuna tassa, nè per gli studenti europei, nè per quelli che arrivano da altri Paesi extra Ue. L’iscrizione all’università è legata solo al pagamento di un abbonamento ai mezzi pubblici: si tratta di una somma tra i 100 e i 200 euro a semestre che copre i costi di trasporto.
Ma c’è di più. Il programma di sostegno BAfà¶G garantisce agli universitari under 30 un sussidio individuale che può arrivare fino a 735 euro al mese per un anno composto per il 50% di una borsa di studio erogata in base al merito (la cui entità va dai 300 ai 1.035 euro, dipende dal reddito e dalla situazione familiare) e per l’altra metà di un prestito garantito dallo Stato, che riguarda i costi non coperti dal BAfà¶G.
Si tratta di 300 euro mensili per un massimo di 7.200 euro in 2 anni, che vanno restituiti a partire dal 4° anno dopo la concessione in rate da 120 euro. A questo c’è da aggiungere che lo Stato interviene per assicurare l’alloggio a tutti i cittadini europei residenti in Germania sotto una certa soglia di reddito, che siano studenti o no.
Anche in Norvegia gli studenti sono tenuti a pagare solo una somma modesta (fra i 30 e i 60 euro a semestre) che copre i costi di carta, assistenza sanitaria, trasporti gratuiti e garantisce diversi sconti per attività ed eventi culturali.
In Germania il programma di sostegno BAfà¶G garantisce agli universitari under 30 un sussidio individuale che può arrivare fino a 735 euro al mese per un anno
Gran Bretagna: tasse alte, ma si paga dopo la laurea
In Scozia la triennale è gratuita e per la magistrale si arriva a 5mila euro l’anno. Nel resto del Regno Unito, invece, gli studenti devono sborsare fino agli 11mila euro l’anno per il conseguimento della triennale, ancora di più se si tratta di cittadini non europei. Le tasse sono state aumentate nel 2012, con la revisione del sistema di istruzione.
Le tasse, però, possono essere pagate dopo la laurea, a patto che si rispettino i tempi previsti.
C’è da dire che già nel 2016 l’organizzazione no profit Sutton Trust aveva segnalato un debito medio record di 44.500 sterline per i laureati inglesi del 2015. Non è un caso se di recente Jo Johnson, ministro dell’Università e della ricerca, ha annunciato che agli studenti saranno offerti corsi universitari di due anni, ad un costo ridotto rispetto a quello triennale.
Molto alte le tasse anche in Olanda: gli studenti europei arrivano a pagare anche più di 2mila euro, mentre i non europei sborsano fino a 12mila euro. Relativamente alte anche le tasse spagnole: le triennali costano dai 700 ai 2mila euro all’anno, mentre per la magistrale si può arrivare fino a 4mila euro l’anno.
Francia, tasse basse pagate da tutti
In Francia le tasse le pagano tutti, ma rispetto ad altri Paesi dell’Ue sono piuttosto basse. La laurea magistrale costa 181 euro all’anno, un master 250 euro e un dottorato 380 euro. Fanno eccezione le università di medicina e i politecnici.
Nelle prime si può arrivare a pagare 450 euro all’anno, nei prestigiosi politecnici 596 euro. Per i redditi più bassi le tasse di abbassano di circa 30 euro. Anche in Francia, però, lo Stato aiuta gli studenti studente con l’alloggio: si possono ricevere dai 115 ai 200 euro al mese.
Negli Stati Uniti milioni di famiglie indebitate
Dando uno sguardo al di fuori dei confini europei, è significativo quanto accade negli Stati Uniti.
Come in Gran Bretagna, anche negli Usa iscriversi all’università rischia sempre più di essere un lusso. Sono 44 milioni gli americani titolari di prestiti contratti proprio per accedere agli atenei. Si tratta del 13% della popolazione. Le rette delle università pubbliche per l’anno accademico 2016-2017 ammontavano in media a circa 20mila dollari, il 2,6% in più rispetto all’anno precedente.
Nuova Zelanda, il paradiso
In Nuova Zelanda non solo lo Stato paga le tasse universitarie, ma non chiede neppure il rimborso. A garantire questo tipo di sostegno è lo Student Allowance, il programma del ministero dello Sviluppo sociale che prevede un finanziamento statale di 380 dollari a settimana a fondo perduto.
Può farne domanda chi studia full time dai 18 ai 65 anni, ma anche chi ha tra i 16 e i 17 anni con un figlio a carico e un partner. Ma il governo della Nuova Zelanda mette a disposizione fondi anche per i giovani con figli a carico che vivono con i genitori o che non abitano con loro e non ricevono nessun aiuto economico. E per affitto e bollette c’è lo Youth Service: 50 dollari a settimana.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 7th, 2018 Riccardo Fucile
COSTO 1,6 MILIARDI… ATTUALMENTE GIA’ UN TERZO E’ ESENTATO, NON PAGA CHI E’ SOTTO LA SOGLIA DI 13.000-15.000 EURO DI REDDITO FAMILIARE
Pietro Grasso durante il suo intervento all’assemblea programmatica nazionale di Liberi e Uguali ha proposto di abolire le tasse universitarie.
La misura, ha spiegato Grasso, costa 1,6 miliardi: “È un decimo dei 16 miliardi che ci costa lo spreco di sussidi dannosi all’ambiente, secondo i dati del ministero dell’ambiente”.
Secondo Grasso “avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei, significa credere davvero sui giovani, non a parole ma con fatti concreti. Ne beneficerà il Paese: dare a tutti la possibilità di studiare, mettere in moto la genialità e le intelligenze significa allargare il nostro orizzonte e rendere l’Italia più competitiva”. Poi ha concluso: sul fronte del lavoro occorre “far tornare prevalenti i contratti a tempo indeterminato”, reintroducendo “le garanzie eliminate dal Jobs Act. Altri aboliscono le tasse, noi aboliamo il precariato”.
In realtà , con il debutto dello “Student act”, nell’anno 2017/18 un iscritto su tre rientra di diritto nella no tax area, l’esonero totale dai contributi universitari previsto dalla legge di Bilancio del 2017 riconosciuto a chi ha determinati requisiti di reddito e di merito.
A certificarlo sono i dati dell’Inps che registrano al 21 novembre scorso oltre 543mila dichiarazioni Isee — l’indicatore di reddito e patrimonio familiare — presentate per le università (Iseeu) che si posizionano al di sotto dei 15mila euro.
Il tetto di legge per l’esonero è di 13mila euro, ma molti atenei hanno stabilito limiti a 15mila, se non addirittura a 23mila euro.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 11th, 2017 Riccardo Fucile
“NON VOLEVO RESTARE UNO ZAPPATERRA ANALFABETA”
Peppino il barbiere dottore in Legge a 84 anni. Giuseppe Paventi, molisano d’origine e romano d’adozione, una vita trascorsa “con le mani tra i capelli della gente” nel quartiere Africano a Roma.
La sua storia è raccontata dal Corriere della Sera nell’edizione romana.
Il lavoro e la decisione di “non restare uno zappaterra analfabeta”, come si definiva prima di intraprendere “un percorso lungo e ricco di ostacoli”, culminato con la laurea in Giurisprudenza.
“Nel ’90 presi la terza media, nel 2007 il diploma in ragioneria e quattro anni dopo, a 79 anni, mi iscrissi all’università , quella vera di Tor Vergata, mica quella della Terza Età “. Dopo ventinove esami, compresi inglese e informatica, due sole bocciature e una tesi in diritto del lavoro, Peppino è diventato dottore: “È stato il giorno più bello della mia vita anche se per arrivarci è stata dura. Studiavo quando non c’erano clienti. Camminavo per il negozio, mi guardavo allo specchio e ripetevo ad alta voce. Sembravo un matto e ogni tanto qualcuno mi chiedeva se stessi parlando da solo”.
Il barbiere ottantacinquenne ora punta alla toga:
“Sono ancora all’inizio: la laurea è solo la prima tappa. Il mio sogno? Diventare avvocato, aprire uno studio tutto mio e scrivere insieme ad altri colleghi un libro di diritto. Magari tra un taglio e l’altro”.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 4th, 2017 Riccardo Fucile
CRESCITA MEDIA DEL 61%, DEL 90% AL SUD… A LECCE IMPOSTE TRIPLICATE, ALLA SAPIENZA RADDOPPIATE
Le tasse universitarie a carico degli studenti (e delle loro famiglie) sono schizzate in alto negli ultimi dieci anni.
Gli atenei per recuperare i tagli inflitti al sistema accademico a partire dal 2009 si sono rifatti sugli iscritti.
E’ quello che emerge dall’inchiesta dell’Unione degli universitari (Udu) dall’inequivocabile titolo: “Dieci anni sulle nostre spalle”.
Il dossier confezionato dai ragazzi su dati del Miur, oltre a fornire una quantità considerevole di cifre, ripercorre i passaggi politici che hanno portato all’inasprimento delle aliquote fiscali degli atenei italiani.
Un dato che stride al confronto con quello che è accaduto nei Paesi europei direttamente in concorrenza sul piano economico, Francia e Germania, oppure con i Paesi del Nord Europa dove la frequenza negli atenei è pressochè gratuita.
In un decennio netto — dal 2005-2006 al 2015-2016 — la pressione fiscale universitaria, spiega il dossier dell’Udu, è cresciuta del 61 per cento. Sono gli anni in cui la crisi economica ha fortemente contratto l’inflazione tant’è che, per lo stesso periodo, l’Istat certifica un incremento complessivo dei prezzi al consumo dell’11,5 per cento.
In altre parole, la “contribuzione studentesca” — l’insieme delle tasse universitarie, dei contributi regionali e di quanto sborsano genitori e figli per arrivare alla laurea — in dieci anni è cresciuta ben oltre l’inflazione.
Esattamente, di 474 euro a studente, facendo schizzare la “tassa media” da 775 euro a 1.249. E’ negli atenei del Nord che si registra la tassazione più onerosa: in media 1.501 euro a studente nel 2015-2016. E’ al Sud, tuttavia, che si totalizza l’incremento più consistente: più 90 per cento in dieci anni.
“Nelle sole università statali il gettito complessivo della contribuzione a livello nazionale — si legge nel report — è passato da 1 miliardo e 219 milioni a 1 miliardo e 612 milioni: quasi 400 milioni in più, spillati agli studenti per coprire la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali per le università ”.
A Lecce le tasse sono più che triplicate: più 207,47 per cento in 10 anni, equivalente a 633,86 euro di aumento. Alla Sapienza di Roma la crescita in dieci anni è stata di 702 euro: più 111 per cento. L’aumento alla Statale di Milano ha toccato 510 euro: più 45 per cento.
Firenze è l’unica università italiana con la tassazione in calo nel decennio (-7,45 per cento): dopo una crescita progressiva, l’ateneo ha rivisto la contribuzione studentesca “anche grazie al forte impegno della nostra organizzazione”, sostiene l’Unione degli universitari. L’Udu segnala che i grandi aumenti sono arrivati sotto il Governo Berlusconi e con il governo tecnico guidato da Mario Monti.
Nel 2010 la ministra Gelmini portò a casa la riforma dell’università , si ricorda, ma già con la Finanziaria del 2009 iniziarono le sforbiciate consistenti ai budget degli atenei. “Da quel momento il sistema universitario è stato vittima di un taglio finanziario di oltre un miliardo di euro, senza precedenti”.
Le conseguenze furono immediate, prima che sui bilanci degli atenei direttamente nelle tasche degli studenti: “Tra l’anno accademico 2008-2009 e il 2009-2010 il valore della tassa media subì un incremento senza precedenti”.
Con il picco toccato nel 2015-2016. Conclude l’Udu: “La contribuzione studentesca è la voce che, nei fatti, ha sopperito alla carenza di risorse conseguente ai tagli al finanziamento statale per l’università ”.
(da agenzie)
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Ottobre 20th, 2017 Riccardo Fucile
PIU’ CARE SOLO INGHILTERRA E OLANDA
Istruzione universitaria troppo salata in Italia e con pochissimi incentivi per gli studenti bisognosi e meritevoli.
Il confronto con gli altri Paesi dell’Unione europea è impietoso, in termini di diritto allo studio e aiuti per i giovani che intendono proseguire gli studi dopo il diploma la distanza dal resto del Vecchio Continente è siderale.
Il report arriva dalla Commissione europea che ha aggiornato i dati sui sistemi di tassazione universitaria analizzando i sistemi di supporto per chi incontra difficoltà a pagarsi gli studi.
Un tema caldo nei giorni in cui il governo ha annunciato parte degli interventi della prossima legge di stabilità (quella che una volta era la Finanziaria) con misure che lasciano deluse le organizzazioni studentesche.
In Italia il 90% degli studenti paga le tasse universitarie, le terze più alte d’Europa, e solo poco più di 9 su 100 ricevono una borsa di studio.
Scorrendo i numeri, salta all’occhio il regime di paesi come Francia, Germania e Spagna, diretti concorrenti dell’Italia tra le potenze più industrializzate, dove le tasse universitarie non esistono o sono bassissime.
È il caso della Germania dove non si pagano tasse, sia per le lauree triennali sia per quelle specialistiche, e dove uno studente su quattro può contare anche su una borsa di studio. Tasse bassissime Oltralpe — da un minimo di 184 euro all’anno — e pagate soltanto dal 61 per cento degli studenti. Ma con 4 ragazzi su dieci che ricevono un sostegno economico. E in Italia? Nel 2017/2018 il salasso per affacciarsi ai corsi triennali è salito a 1.316 euro. L’anno scorso eravamo a quota 1.262.
“In un solo anno, il 4,3% in più”, denunciano le organizzazioni studentesche. E a pagare le tasse è il 90 per cento degli iscritti.
L’Italia figura tra gli ultimi Paesi anche per numero di borse di studio erogate: appena 9 ogni cento corsisiti.
La Spagna è il Paese più vicino noi, ma per gli stessi corsi di studio la tassazione media arriva a 1.213 euro e tocca il 71 per cento della popolazione studentesca. Mentre sale al 30 per cento la quota di giovani che percepisce un grant per proseguire gli studi. Nell’Unione Europea, è nel Regno Unito e in Olanda che si pagano i conti più salati. Mentre nella maggior parte dei paesi scandinavi — Danimarca, Finlandia, Svezia — niente tasse e aiuti per la maggior parte degli studenti.
I ragazzi italiani non ci stanno. “Chiediamo — dichiara Elisa Marchetti, coordinatrice dell’Unione universitari — che si trovino almeno 150 milioni di euro da investire nel Fondo integrativo statale per le borse di studio e che il Fondo di finanziamento ordinario destinato alle università sia incrementato con la finalità prioritaria di abbattere in modo sostanziale la contribuzione studentesca. A breve conosceremo i dettagli della prossima legge di bilancio. Quello che già conosciamo da anni sono i numeri del fallimento
dell’università . Siamo il Paese che meno investe in istruzione e questo si ripercuote soprattutto su coloro che hanno meno possibilità di passare dalla scuola all’università e poi di essere in grado di proseguire il percorso di studio fino al titolo finale”.
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 22nd, 2016 Riccardo Fucile
CONFERMATO IL TIMORE DEI RETTORI SULL’ATTRATTIVA DEL SISTEMA INGLESE DOPO L’USCITA DALLA UE
I timori delle Università britanniche per l’emorragia di studenti post-Brexit si rilevano fondati ora che arrivano i primi dati sulle iscrizioni per l’anno prossimo.
I dati definitivi che riguardano anche la specializzazione e i master arriveranno solo all’inizio dell’anno nuovo ma i numeri di quanti scelgono di cominciare il percorso universitario nel Regno Unito sono in diminuzione per la prima volta dal 2011.
Lo dicono i dati dell’Ucas, il servizio che si occupa di immatricolazioni.
Secondo le cifre pubblicate in questi giorni nel report 2016 gli studenti non europei sono scesi del 2.3 per cento cioè sono 38.300 in meno.
Gli studenti europei non mostrano ancora una discesa perchè a trainare i dati ci sono gli studenti di Bulgaria e Polonia che hanno dovuto iscriversi in tempi anticipati cioè prima della Brexit.
L’incertezza frena le scelte degli studenti
Ma a destare allarme è il dato dell’Università di Cambridge che ha termini di iscrizione anticipati rispetto al resto del Paese: il luogo simbolo dell’educazione di livello all’anglosassone ha perso il 17 per cento degli studenti europei che temono di cominciare un percorso di cui non vedono garanzie riguardo al trattamento personale e soprattutto di eventuali borse di studio: finchè la Gran Bretagna resta nella Ue le condizioni economiche per gli studenti inglesi si applicano a tutti i ragazzi e le ragazze che sono cittadini dell’Unione europea (avviene, reciprocamente, in tutti gli stati dell’Unione) ma all’indomani della formalizzazione dell’uscita i costi e le condizioni potrebbero cambiare radicalmente.
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 24th, 2016 Riccardo Fucile
E LE INCHIESTE QUASI SEMPRE FINISCONO PRESCRITTE
Una ricerca di qualche anno fa di un trentenne matematico emiliano, costretto a emigrare negli Stati uniti non per ragioni di studio ma per ragioni di spazio (“tutto occupato dai parenti”), raccontava che tra gli oltre 61mila professori italiani, c’erano settemila casi di omonimia. E che duemila di essi si ripetevano più di due volte. Un’anomalia.
Perchè, prendendo un elenco a caso di 61mila persone, per la statistica le omonimie avrebbero dovuto essere meno della metà .
Se mai ce ne fosse stato bisogno, quella fu la prova scientifica che il vero problema dell’università italiana si chiama nepotismo.
Cattedre tramandate per generazioni, figli che prendono i posti dei padri e delle madri (“e questi ultimi – fanno notare oggi – non sono nemmeno calcolati negli elenchi di omonimia, per via dei cognomi diversi”), nipoti dei nonni.
Per dire, in questo momento all’Università di Bari – che fu la patria di tutti gli scandali della parentopoli con famiglie che avevano in una stessa facoltà sino a otto esponenti della stessa dinastia – cinque dipartimenti sono guidati da figli d’arte.
Ma così è da Milano a Palermo e per quanto i codici etici, approvati ormai ovunque, cercano di impedire che in uno stesso dipartimento possano lavorare padri e figli, mariti e mogli, con soluzioni creative spesso si riesce a trovare la strada giusta per l’inganno.
Ecco: le scorciatoie, ma soprattutto l’impunità , rappresentano il vero scoglio insormontabile alla lotta al nepotismo italiano.
Sollevati gli scandali, raccolte le indignazioni, la magistratura si muove aprendo fascicoli. Che però quasi mai arrivano a compimento.
E non perchè non ci sia sostanza – i figli, gli amici, sono assunti – ma perchè norme e tempi rendono impossibile il corretto corso della giustizia.
Anche in questo senso, il caso Bari fa scuola. Tempo fa durante una perquisizione i carabinieri scoprono sulla scrivania di un professore del Policlinico uno schema con 16 concorsi banditi da dieci atenei in tutta Italia per posti da ordinario e associato.
Nome e cognome del vincitore, accanto a quello dello “sponsor”, tra parentesi. Tutto si verifica come deve. Parte l’inchiesta. Siamo nel 2007 e, otto anni dopo, proprio nelle scorse settimane, viene tutto archiviato: i reati ci sono ma ormai è troppo tardi. Tutto prescritto, inutile indagare.
E fa niente che i candidati “raccomandati” siano saldamente ai loro posti.
Non si tratta di un’eccezione.
Nel 2004, sempre a Bari, si gridò allo scandalo a cardiologia con un’ondata di arresti: 12 anni dopo tutto è prescritto e non è stato nemmeno concluso il primo grado di indagine.
Il caso più clamoroso è però forse quello che riguarda la “cupola” dei giuristi, stando alla definizione che ne fece la procura di Bari.
Un’indagine monstre, che documentava (con intercettazioni telefoniche e sequestri documentali) il solito scambio di cattedre tra docenti di diritto costituzionale, pubblico comparato ed ecclesiastico. Più di sessanta indagati, tra cui alcuni dei principali giuristi italiani e taluni saggi chiamati dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per modificare la Costituzione.
Sono passati più di sette anni: alcuni fascicoli sono stati archiviati, quasi tutti prescritti, altri trasmessi per competenza in altre procure d’Italia.
Non c’è stata nemmeno una richiesta di rinvio a giudizio.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 12th, 2016 Riccardo Fucile
LA QUOTA DI ABBANDONO RAGGIUNGE IL 45%
La Commissione Ue mostra che l’Italia nel 2013 ha una delle quote di abbandono universitario più alte in Europa (45%), e una delle più basse di laureati fra i 30 e i 34 anni.
Nella distrazione generale, il Paese sta vivendo un’esperienza che ne mette in pericolo il ruolo nella competizione globale dei prossimi decenni: l’istruzione superiore è arrivata alla crescita zero.
Per la prima volta dal 1945 il numero dei laureati disponibili per le imprese sta smettendo di crescere. E aumenta il numero dei laureati italiani che lascia ilnostro Paese.
Germania, Gran Bretagna e Svizzera sono le prime destinazioni chehanno assorbito un terzo dei nostri migranti.
Manuela Croatto, una funzionaria dell’Università di Udine, ha capito che un diaframma invisibile era caduto il giorno in cui ha letto questo post su Facebook: «Ho mentito ai miei sulla laurea e ora il passo più grande è inscenare la discussione della tesi. Mi rivolgo a quanti di voi sono nella mia stessa situazione: se qualcuno volesse organizzare la propria proclamazione, potremmo organizzare una finta cerimonia».
Presto sono arrivate le risposte: «Mi trovo nella stessa situazione» o «Vi prego aiutate anche me, sono disperata».
Croatto, che gestisce l’orientamento per gli studenti, di recente ha trovato anche un sito di consigli su come far credere ai genitori che assisteranno a una vera discussione di tesi. Tre volte negli ultimi tempi si è dovuta occupare di ragazzi intrappolati nelle loro storie di lauree fittizie.
Il rettore di Udine, Alberto De Toni, ha finito per offrire un servizio dell’ateneo per la consulenza psicologica a chi entra in questo labirinto di bugie
Questi sono sintomi acuti, però non isolati.
La Commissione Ue mostra che l’Italia nel 2013 ha una delle quote di abbandono universitario più alte in Europa (45%), e una delle più basse di laureati fra i 30 e i 34 anni.
Nella distrazione generale, il Paese sta vivendo un’esperienza che ne mette in pericolo il ruolo nella competizione globale dei prossimi decenni: l’istruzione superiore è arrivata alla crescita zero.
Il sorpasso polacco
Per la prima volta dal 1945 il numero dei laureati disponibili per le imprese sta smettendo di crescere.
Resta fermo ai livelli più bassi nel confronto internazionale, mentre altri Paesi a reddito alto o medio-basso hanno imboccato la direzione opposta.
L’Ocse di Parigi mostra che la popolazione laureata in Francia o in Germania cresce almeno il doppio più in fretta che in Italia e la sua incidenza è già molto superiore (vedi grafico).
In Polonia nel 2014 vivevano 5,6 milioni di diplomati delle università , come in Italia, ma il sorpasso ormai è inevitabile. In Irlanda o in Corea del Sud l’intensità dell’istruzione superiore nella società è tripla, e in aumento costante.
Non è solo un fenomeno dei Paesi avanzati. La Cina nel 2014 aveva già 74 milioni di laureati e ai ritmi attuali tra non molti anni quattro cinesi su dieci usciti dai licei si iscriveranno all’università ; a metà del prossimo decennio la Repubblica popolare potrebbe raggiungere una quota di laureati superiore al 13% di questo Paese. Il rischio che il sistema industriale italiano si trovi spiazzato ben oltre l’universo del basso costo è tutt’altro che remoto: economie dove il lavoro resta più a buon mercato stanno iniziando a competere nella conoscenza, nelle tecnologie, e sulla parte alta del valore aggiunto.
Fuga all’estero
Non è questa, per la verità , la storia che emerge dalle statistiche ufficiali. Sulla base dei dati Istat, la Fondazione Leone Moressa di Mestre mostra che l’incidenza dei laureati nella popolazione italiana starebbe in effetti continuando a crescere: dal 12,9% del 2014 al 13,3% dell’anno scorso.
L’istituto statistico italiano non mente, però dispone di informazioni incomplete a causa della difficoltà di tenere il conto dei laureati italiani che si trasferiscono all’estero. Proprio questo è uno dei fattori che contribuisce di più alla crescita zero dell’istruzione superiore nel territorio nazionale
L’Istat stima che negli ultimi anni aveva una laurea circa una persona ogni quattro fra quelle hanno lasciato l’Italia per lavorare altrove.
Più difficile per l’agenzia è però calcolare l’entità di questi deflussi, perchè la qualità dei suoi dati dipende da una scelta che molti non compiono se non dopo molti anni di emigrazione: iscriversi all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.
L’Istat può tenere conto di loro solo in quel momento, eppure alcuni indizi permettono di misurare che le uscite dal Paese sono probabilmente circa tre volte più delle 145 mila stimate nel 2015.
Germania, Gran Bretagna e Svizzera sono le prime destinazioni per gli italiani che espatriano e, secondo le statistiche ufficiali, negli ultimi anni hanno assorbito circa un terzo dei nostri migranti.
Chi arriva in Germania, nel Regno Unito o in Svizzera deve registrarsi subito per poter ottenere il codice fiscale, l’assistenza sociale o il medico di famiglia, anche se non si cancella dall’Italia.
E i numeri sugli immigrati italiani in mano alle amministrazioni di Berlino, Londra e Berna sono in media tre volte e mezzo più alti di quelli che registra l’Italia.
La Germania è il caso più estremo: secondo l’Istat sono poco più di 17 mila le persone trasferitesi verso la Repubblica federale nel 2014, ma l’omologa agenzia tedesca ne conta oltre quattro volte di più
Istruiti ma poveri
Questi dati permettono di stimare ragionevolmente che in un anno come il 2015 siano usciti dall’Italia circa 100 mila laureati, ne siano entrati circa 27 mila (su 273 mila nuovi arrivati nel Paese) e altri 65 mila siano morti.
Con queste forze in azione, i 212 mila nuovi diplomi dell’ultimo anno – stima Alma Laurea – basterebbero a far salire la quota di laureati sulla popolazione italiana di appena lo 0,12%. C’è però un problema: i 50 mila iscritti in meno all’università in questi anni produrranno presto una flessione nel flusso dei nuovi diplomi e questa può portare il tasso di crescita dei laureati allo zero-virgola-zero-qualcosa.
Nel frattempo le tecnologie nei sistemi produttivi globali si fanno sempre più sofisticate, i concorrenti dell’Italia sempre più decisi a dominarle.
Per un giovane, la scelta di smettere di studiare può apparire razionale: il salario medio d’ingresso di un laureato triennale è crollato da 1.300 euro del 2007 a 1.004 euro del 2012, se e quando trova lavoro. Ivano Dionigi, presidente di Alma Laurea, sottolinea quanto sia paradossale che un bene scarso come la conoscenza in Italia venga remunerato tanto poco.
Di certo, sulla scala di un Paese sta diventando un atto di masochismo collettivo: in Italia solo le imprese più aperte al contributo dei laureati – come dimostra un nuovo studio di Fadi Hassan del Trinity College e altri – stanno tenendo il ritmo della competizione con il resto del mondo.
Le altre molto meno.
Federico Fubini
(da “il Corriere della Sera“)
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