CHIEDI IL SUSHI E MANGI CINESE: IL BOOM DEI (FINTI) RISTORANTI GIAPPONESI
POCHI CHEF E MANCATO CONTROLLO DELLA FILIERA: COSI DOMINANO I CINESI… SI ARRIVERA’ A UN CERTIFICATO DI AUTENTICITA’ DEL CIBO?
Se i chicchi di riso sono troppo duri poggiate delicatamente la bacchetta sul tavolo. Guardate con attenzione come è tagliato il sashimi.
Magari date un’occhiata se notate piatti-clone tipici della cucina nipponica (realizzati spesso in cera).
Direte: pochi segnali per capire davvero se siete di fronte a un ristorante “autenticamente” giapponese.
Il rischio è che lo chef nascosto in cucina sia originario del Guangzhou. Non proprio a due passi da Tokyo.
LE INSEGNE COPIATE
Così l’ipotesi-contraffazione — giocata sull’affinità linguistico-culturale e sulla capacità di replicare alla perfezione gli ideogrammi nipponici sulle insegne dei sushi-bar — sarebbe diventata la formula preponderante dei ristoratori cinesi per smarcarsi da un brand-Paese percepito come meno attraente.
Ecco perchè questa (presunta) mega-operazione di “distrazione di massa” non poteva che preoccupare anche Tokyo.
Tanto da indurre Jetro — l’ente governativo giapponese di promozione del commercio con l’estero — a giocare di sponda con Fipe (la federazione italiana pubblici esercizi) ipotizzando persino un certificato di autenticità del cibo per limitare al minimo gli effetti di questo inquinamento alimentare.
IL BOOM
Soprattutto perchè la cucina giapponese in Italia riscuote così tanto successo da essere diventata un vero e proprio fenomeno culturale.
Solo a Milano si calcolano oltre 200 ristoranti “simil-giapponesi” (nel 2006 erano 70). Mentre a Firenze sono 50, di cui solo sei — sembrerebbe — hanno al loro interno un cuoco proveniente dal paese del Sol Levante. Un paradosso.
Una crescita esponenziale di nuove aperture che sorprende non poco, considerando che ambasciata e consolato nipponico in Italia non hanno finora registrato una diaspora verso il Belpaese per intercettare la domanda culinaria nostrana.
IL LOW COST
Dice Lino Stoppani, presidente Fipe che questo interesse della folta comunità cinese verso la gastronomia del Paese-rivale (la Storia non dimentica certo l’eterna conflittualità sino-giapponese) abbia anche una motivazione economica: «I cinesi hanno grandissime competenze culinarie, sono instancabili lavoratori e soprattutto hanno puntato sul low-cost. Così succede che con 20 euro puoi mangiare pesce crudo in pieno centro a Milano. Una fascia di prezzo alla portata di tutti».
LA DISAFFEZIONE
Al potere d’acquisto ridotto al lumicino si associa una maggiore disaffezione verso la cucina cinese.
Le resistenze sono legate soprattutto all’igiene e alla qualità degli alimenti, amplificate dagli echi (mediatici) delle epidemie di Sars e Aviaria, che hanno finito per “razionalizzare” i ristoranti presenti in Italia che fino a qualche anno fa godevano di una certa credibilità .
Per molti esercenti l’unica via d’uscita è stata perciò quella di riposizionarsi sul mercato, aprendo un sushi-bar sfruttando la fortissima somiglianza somatica con i loro vicini d’Oriente.
LA FILIERA
Il resto l’ha fatto una filiera che di fatto sfugge a ogni controllo, con una serie di operatori in regime di oligopolio e inefficaci reti distributive che penalizzano di più le materie prime giapponesi rispetto alle omologhe cinesi.
Il risultato è il boom della cucina “fusion” servita alla cantonese. Con salsa di soia proveniente chissà da dove.
Fabio Savelli
(da “Il Corriere dela Sera“)
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