DOPO CHE SI È SCOPERTO CHE UNO DEGLI 007 DEL CAIRO, SOTTO ACCUSA PER LA MORTE DI GIULIO REGENI (USHAM HELMI), HA PARTECIPATO ALLE INDAGINI, COME FARA’ IL GOVERNO A DIRE CHE IL PRESIDENTE EGIZIANO HA “ASSICURATO” MASSIMA COLLABORAZIONE?
IL CARABINIERE DEL ROS, LORETO BISCARDI, CHE HA INDAGATO SUL CASO RACCONTA CHE HELMI ERA SEMPRE TRA LE PALLE E, AL MOMENTO GIUSTO, E’ SCOMPARSO
Dal governo potranno ancora dire: «Il presidente Al Sisi ha assicurato la massima collaborazione dell’Egitto nelle indagini sull’omicidio di Giulio Regeni». Ma dopo quel che è accaduto ieri lo potrà fare con qualche difficoltà e imbarazzo in più.
La scena si è consumata in tribunale: carabinieri del Ros e poliziotti dello Sco, nel corso dell’udienza del processo per il sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore italiano avvenuto tra gennaio e febbraio del 2016 al Cairo, hanno ricostruito tutte le bugie e i depistaggi ai quali hanno dovuto assistere in cinque anni di indagini.
Compreso l’affronto di avere, tra i poliziotti scelti da Al Sisi per collaborare alle indagini, proprio quell’Usham Helmi oggi sotto processo con l’accusa di aver ucciso Giulio. «Quello con gli occhiali da sole è il colonnello Helmi, era presente molto spesso» ha confermato in aula il colonnello del Ros Loreto Biscardi, mentre sullo schermo scorrono le immagini dell’imputato sulla scena del crimine, in prima linea con i colleghi egiziani e italiani.
Sollecitato dalle domande del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, il carabiniere ha raccontato che Helmi conosceva ogni dettaglio delle indagini così da avere il tempo di tutelarsi. Non c’è da stupirsi dunque se al momento opportuno si è volatilizzato. E non sorprende neanche il fatto che agli investigatori italiani siano state fornite le piste investigative più disparate, nessuna minimamente vicina alla verità alla quale è poi arrivata la procura di Roma.
«La primissima ipotesi prospettata dalla National Agency – racconta in aula il direttore dello Sco Vincenzo Nicolì – era relativa a un incidente stradale». «Ma era incompatibile sia per la posizione del cadavere sia per le condizioni del ritrovamento del corpo», prosegue.
«Al team investigativo italiano – spiega – man mano che si andava avanti furono prospettate diverse ipotesi tutte corroborate da verbali con sommarie informazioni o da ricostruzioni giornalistiche che ci venivano prospettate come ipotesi».
Ancora: «Una delle piste più suggerite fu quella di un ipotetico coinvolgimento di Regeni in un traffico di opere rubate». «Altro tema riguarda la sfera sessuale», ha detto Nicolì riferendosi all’ipotesi «che Regeni si era mostrato interessato a una ragazza» e che questo fatto «avrebbe suscitato la reazione degli amici» della donna.
E ancora, gli egiziani hanno fatto riferimento a una «sorta di litigio avvenuto nei pressi dell’ambasciata». La pista passionale, l’incidente stradale, le opere d’arte. Tutto era basato su «sommarie informazioni», «fonti confidenziali» o «interviste in tv».
Ma mai nessun «riscontro tecnico» a confermare quelle piste. «Depistaggi», «bugie» ha detto l’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, riferendosi anche a quello che accadde il 24 marzo.
Le foto del pulmino crivellato di colpi dimostrano che la polizia ha sparato frontalmente, ma dai corpi delle vittime si nota che i proiettili li hanno colpiti da dietro. Dai tabulati emerge inoltre che durante il sequestro Regeni il capo era a 100 chilometri di distanza e non ci sono contatti tra tutte le persone coinvolte.
(da La Repubblica)
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