FINO ALLA FINE DELLA LEGISLATURA
IL GOVERNO ESCE STABILIZZATO, ZINGARETTI VINCE, I SOVRANISTI FALLISCONO L’ASSALTO AL CIELO, M5S COPRE A STENTO LA CRISI D’IDENTITA’
Non sarà la “rivoluzione d’ottobre”, al netto di toni comprensibilmente enfatici, ma il “pareggio” vale una vittoria, politica, per l’evidente valore del voto, per gli spettri che ha fugato, per il significato che i sovranisti avevano attribuito alla consultazione, come prodromica alla “spallata”. Per l’effetto di stabilizzazione del governo e del quadro politico.
Una vittoria, innanzitutto, del Pd e di Nicola Zingaretti, che, sia pur tra mille contraddizioni e dati in chiaroscuro, è oggettivamente l’unico perno dell’alternativa ai sovranisti. Già , contraddizioni. Perchè tiene la Toscana, così come aveva tenuto l’Emilia qualche mese fa, grazie alle sue sedimentazioni profonde e a ciò che resta una cultura politica antica, sensibile al richiamo antifascista e alla grande chiamata di fronte all’allarme democratico.
E tiene sia pur all’interno di processo di erosione di certezze, anch’esse antiche perchè quella che fu la zona rossa si è sensibilmente rimpicciolita: dopo l’Umbria crolla un’altra roccaforte come le Marche, assai meno reattiva al richiamo d’antan contro un candidato di destra estrema, con venature anche nostalgiche.
Di diverso segno il voto in Campania e in Puglia, espressioni di un populismo trasformistico interpretato da due vulcanici e strabordanti governatori, con decine di liste zeppe del solito ceto politico meridionale, buono per tutte le stagioni, e parecchia gente proveniente dal centrodestra.
Non a caso De Luca, nell’aprire i festeggiamenti, ha dichiarato che la sua vittoria “non può essere letta in termini di destra e sinistra”. Insomma De Luca è De Luca, Emiliano è Emiliano, personalità che, con i rispettivi sistemi di potere e di spesa, hanno una vita piuttosto autonoma rispetto al loro partito, in quest’Italia dove i partiti di massa non esistono più.
Ecco, governatori uscenti, come uscenti sono Toti e Zaia, il cui risultato è ascrivibile nella categoria plebiscito, con la sua lista che vale tre volte quella della Lega. È un dato che va ben oltre la tendenza, in atto da diversi lustri, verso la personalizzazione della politica.
C’è qualcosa di più che amplifica la personalizzazione: l’emergenza. È come se il Covid avesse congelato il paese, rafforzando chi ha le leve del potere ed è in grado di affrontare e risolvere i non banali problemi che l’emergenza pone. Tutti i governatori uscenti, confermati, sono coloro che hanno gestito, con un certo protagonismo, fasi drammatiche.
È forse questo il punto che certifica, più che una tendenza nazionale, quell’elemento di “federalismo virale” che ha segnato tutta la fase del Covid, dalla ridda di ordinanze per chiudere, ai tempi del lockdown, alla ridda per riaprire, prima scuole e poi discoteche, in cui ogni regione è, sostanzialmente, andata per conto suo.
In questo senso è difficile non vedere un elemento “conservativo” del voto rispetto alla ricerca di nuove avventure, proprio in un momento delicato. Soprattutto in assenza di alternative credibili, in termini di classe dirigente e anche di “connessione sentimentale” col paese.
Quel che rende il pareggio della destra in una sconfitta politica è proprio la coazione a ripetere uno schema vecchio in tempi nuovi.
Parliamoci chiaro, Salvini è fermo al Papeete o forse all’Emilia Romagna, all’idea della spallata (ricordate il sette a zero) da perseguire attraverso candidati deboli perchè tanto, alla fine, conta solo l’essere unti dal Capitano.
E Giorgia Meloni ha perso la scommessa pugliese, dove si misurava la sua capacità di diventare la nuova leader del centrodestra.
Per entrambi si pone un tema enorme ora che, come evidente, si prospetta davanti ad essi la lunga traversata nel deserto di una legislatura che arriverà alla sua scadenza naturale, con l’attuale governo a gestire la valanga di soldi che arriverà dall’Europa: il tema di una classe dirigente che sappia incarnate una credibile alternativa di governo.
Insomma, Zingaretti vince, la destra fallisce il suo assalto al cielo, i Cinque stelle a stento coprono una crisi di identità politica nel voto sul sì.
È fin troppo evidente che il governo esce stabilizzato. E che, all’interno del governo, il voto dà a Zingaretti la possibilità di essere più esigente e meno arrendevole sull’agenda, dal Mes ai decreti sicurezza.
Ma, acuendone la crisi, rende al tempo stesso il suo alleato meno propenso ai cedimenti identitari, dal Mes ai decreti sicurezza appunto. Al fondo, e non è un dettaglio proprio nel giorno in cui è dimostrato che la sovranità popolare non è un cataclisma, resta un problema di rappresentatività di un Parlamento che fotografa un paese che non c’è più ed è espressione di un assetto costituzionale che non c’è più.
(da “Huffingtonpost”)
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