IL MURO DELLE BAMBOLE IMPICCATE DI TOTI CHE DOVREBBE SIMBOLEGGIARE IL FEMMINICIDIO
LA PROVOCAZIONE: SOSTITUIRLO CON IL MURO DEI PENI SPOSTANDO FINALMENTE L’ATTENZIONE SUI CARNEFICI
Da “wall of dolls” a “wall of penis”. Ovvero quando un hashtag diventa realtà e si trasforma in una protesta reale.
E per vederlo basta fare una passeggiata nel “salotto buono” di Genova, nella via che porta da piazza Matteotti a piazza De Ferrari, dove da qualche mese è stato relegata l’installazione voluta dalla Regione Liguria per sensibilizzare sul tema del femminicidio chiamata, appunto, “muro delle bambole”.
Della genesi dell’iniziativa ne abbiamo scritto diverse volte, l’ultima contestandone non tanto la bontà di fare qualcosa per catturare l’attenzione della cittadinanza su un tema importantissimo ma quanto sulla scelta di rappresentare la violenza sulle donne attraverso un’inferriata alla quale sono “impiccate” delle bambole.
Scegliere una bambola, simbolo per antonomasia dell’infanzia di una futura donna, come oggetto da sacrificare per partecipare a una campagna che vuole sensibilizzare sul tema della violenza di genere è un modo per concentrare ancora una volta l’attenzione su chi ha subito e non su chi ha “colpito”
Ora dalle parole c’è chi è passato ai fatti: la scritta #wallofpenis (“il muro dei peni”) è stata messa a coprire alcuni volti di quelle donne che non ci sono più e due fogli A4, uno in italiano e uno in inglese, spiegano le ragioni per cui è stato fatto.
L’autrice è Francesca Ciri Capra, videomaker genovese che così spiega la sua iniziativa:
“Questo Wall of Dolls, in realtà , propone solo un concetto: la donna è una bambola da legare o impiccare ad una rete. Mi sembra di essere spettatrice di un film dell’horror realizzato da ragazzini di sedici anni che girano con quello che trovano nella soffitta della nonna e ne esce un z-movie che raggiungerà al massimo 50 visualizzazioni: tra amici, amici degli amici, parenti vicini e lontani, professori, figli dei professori. Siamo talmente bigotte con noi stesse, che non ci accorgiamo di dove ci abbiano incasellate e come ci autocensuriamo. L’altro giorno per caso ho letto un post che iniziava così: “Sono una moglie da schifo, tuttavia…”; allora introduciamo nuovamente l’Educazione Domestica nelle scuole, per piacere, dato che qualcuna crede ancora di non sapere fare la moglie. Forse le prime maschiliste sono proprio le donne? D’altronde loro hanno scelto e portato coscienziosamente le bambole al patibolo: pensando di rivendicare con orgoglio qualcosa”.
Il testo lo si trova anche online, basta scrivere su Facebook “#wallofpenis”.
Ma ora che l’hashtag ha superato il muro che divide il virtuale dal reale, il messaggio non è più un affare che riguarda un “giro” di persone che si conoscono e che condividono più o meno le stesse idee (la famosa “bolla da social network”).
E’ un dato di fatto, qualcosa di immanente (Treccani: “di ogni realtà che non trascende la sfera di un’altra realtà , che non esiste cioè separata e indipendente da quella, bensì è con essa in rapporto di coessenzialità reciproca”).
E già tutto questo basterebbe. Ma chi ha lasciato il messaggio ha anche deciso di «aggiungere alla protesta una provocazione molto forte», spiega Francesca Ciri Capra. Nero su bianco, infatti, c’è anche una “proposta” su come sarebbe dovuto essere il muro contro la violenza sulle donne.
Una gogna di altrettanta violenza rivolta, però, agli aggressori:
“Il mio personale invito è di appendere in piazza peni, mani, coltelli dei carnefici, affinchè possano andare in putrefazione nel tempo, coprendosi di mosche e di vermi!! Solo in questo modo, forse, i violenti potranno essere spaventati”.
Il nostro personale invito, invece, è di concentrarsi solo quel foglio bianco “macchiato” da un cancelletto e dieci lettere una attaccata all’altra. Di guardarlo come se fosse una benda sugli occhi delle donne uccise, brutalizzate, devastate da chi non aveva il loro stesso cromosoma. Una maschera per coprire il loro sguardo dalla nostra indifferenza, dal “passare di chi passa” e basta.
Un invito, dunque, a non soffermarsi sulle parole che spiegano il messaggio, ma a valutarlo come un’installazione su un’installazione.
Perchè che sia un hashtag o un muro, alla fine quel che bisogna ricordare a chi non si sofferma a leggere nè i nomi e cognomi che quando accade l’ennesimo femminicidio, è sempre e solo una cosa: la colpa non è di chi è morto, ma di chi ha ucciso.
(da “il Secolo XIX”)
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