IN CHE MANI SIAMO
L’IPOCRISIA DI SOSTENERE CHE NESSUN MINISTRO VOLEVA L’AUMENTO E CHE NESSUNO SAPEVA DELL’INIZIATIVA
A Palazzo Chigi dicono di non saperne nulla, che Giorgia Meloni fosse all’oscuro del dettaglio che poi tanto dettaglio non è, qualcuno addirittura scommette sul finale a sorpresa e gli applausi sui titoli di coda, con l’emendamento che viene ritirato.
Scendendo la scala delle gerarchie di governo, e arrivando ai due vicepresidenti del Consiglio, Antonio Tajani dice che «non è una proposta di Forza Italia» e Matteo Salvini che «non ho seguito la vicenda e non ne so nulla». «Mi occupo di fisco, queste cose non dovete chiederle a me», alza le mani il viceministro all’Economia Maurizio Leo, dopo aver scandito che la decisione non ha nulla a che vedere con le scelte dell’esecutivo.
E poi ci sono i potenziali beneficiari della norma, che iniziano a sfilarsi uno dopo l’altro. «Non intendo utilizzare questa opportunità», spiega il titolare dell’Istruzione Giuseppe Valditara. «Mi lascia indifferente», annota il pari grado alla Difesa Guido Crosetto, che poi chiederà di ritirare l’emendamento.
A metà tra una spy story alla John Le Carrè e un mistero buffo alla Dario Fo, impressa nella memoria collettiva di quel che verrà ricordato della Finanziaria del 2024 c’è la vicenda dell’emendamento che parifica, in tutto e per tutto, lo stipendio mensile dei componenti del governo non parlamentari a quello dei deputati e dei senatori, e quindi anche a quello dei loro colleghi dell’esecutivo che contemporaneamente risultano eletti a Montecitorio o Palazzo Madama.
Tutti ormai sanno perfettamente che cosa comporta, calcolatrice alla mano 7.193,11 euro mensili (più 1200 euro l’anno di spese telefoniche) di diaria e di rimborsi «per l’esercizio del mandato»; nessuno che sappia chi abbia immaginato, voluto o anche solo vergato quattro striminziti commi finiti per iniziativa della maggioranza nelle modifiche all’articolo 1 della legge 418 del 1999 contenute nella legge di bilancio di venticinque anni dopo, cioè quella in corso di discussione alla Camera. Modifiche che, di fatto, consistono in una sola correzione, spalmata su più articoli: la singola parola «indennità» — per la vecchia legge era già uguale per ministri e parlamentari, 10.435 euro lordi al mese — viene ovunque sostituita da due, «trattamento economico», in modo da contemplare anche i 7200 euro mensili di diaria e rimborsi di cui sopra.
Insomma, la norma che dal punto di vista dello stipendio parificherebbe le condizioni dei ministri — Abodi (Sport), Calderone (Lavoro), Crosetto (Difesa), Giuli (Cultura), Piantedosi (Interno), Valditara (Istruzione), Locatelli (Disabilità) e Schillaci (Salute) — più altri dieci tra viceministri e sottosegretari, a quella dei loro colleghi del governo eletti alle Camere, che comunque di fatto attività parlamentare non ne fanno, non la riconosce nessuno.
Non il governo stesso, né i piani alti di Palazzo Chigi né i vicepremier, tantomeno i vertici di Lega e Forza Italia. È l’eterno ritorno della «manina», una sorta di versione parlamentare della celebre mano animata che sbucava dalla scatola dei misteri della Famiglia Addams, che griffa tutti i provvedimenti più contestati — di legislatura in legislatura, maggioranza di centrodestra o di centrosinistra che sia — che dai commi più nascosti della legge di bilancio arrivano alle cronache nazionali. Col colpo di scena finale, che forse c’è e forse no. Nascosto nell’ombra, chissà, come l’autore dell’emendamento.
(da agenzie)
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