INTERVISTA A MESSORA: “VI RACCONTO CASALEGGIO”
“LE SUE INCLINAZIONI VIRAVANO UN PO’ A DESTRA”… “IL DIRETTORIO UNA NECESSITA’, NELL’ULTIMO ANNO AVEVA 4 ORE DI AUTONOMIA AL GIORNO”
“Lucido, schivo, di poche parole, non amava mettere a nudo le sue emozioni. Ma non è vero che fosse un uomo freddo: l’empatia, il lato umano, li trasferiva sulla sua creatura, il movimento, e sulle persone che lavoravano con lui. Per chi l’ha conosciuto da vicino era un saggio della montagna, uno capace di spiegarsi con degli aneddoti, magari parlando di Napoleone o Gengis Khan”.
Claudio Messora, blogger, ha lavorato per due anni con Gianroberto Casaleggio, prima come capo della comunicazione M5s in Senato e poi nella delegazione a Bruxelles.
Casaleggio è uno dei leader politici della storia italiana di cui si sa meno. Era un militante, un teorico o un manager?
“Un ideologo che gestiva il M5s come un manager. In lui c’era sia il pensiero che la gestione, e in questo si ispirava a studi di tecnologia, ingegneria gestionale, ma anche di storia e strategie militari. Raccontava aneddoti sulle battaglie di Napoleone, ma anche sulle strategie di comunicazione dell’imperatore francese. E a quelli di noi che correvano il rischio dell’impulsività , raccontava un aneddoto di Gengis Khan: quando un ospite della corte insultò un familiare stretto dell’imperatore, questi lo fece accogliere con doni e con tutti gli onori. Poi, sulla strada di casa, l’ospite venne raggiunto da due sicari…”.
Aneddoto che conferma una certa durezza del leader…
“In lui non c’erano mai rabbia o cattiveria, e neppure argomenti che deviassero dall’obiettivo, che è sempre stato quello di dare un’opportunità a questo Paese. Non credo che altri leader, nei colloqui diretti con i collaboratori, mantengano lo stesso rigore intellettuale. Quando si discuteva della legge elettorale, lui ci ripeteva che non gli interessava se la legge avrebbe favorito o meno il M5s, ma che fosse utile all’Italia. E che fosse utile a restituire il potere al popolo. Non era propaganda, ma le sue intime convinzioni”.
All’interno del movimento ha sempre avuto metodi di gestione piuttosto duri.
“Per lui la politica era anche un esperimento, non certo un percorso facile. Voleva a ogni costo evitare le derive tipiche dei partiti, e per questo c’era l’idea dei parlamentari come portavoce, la rotazione negli incarichi di vertice”.
È vero che aveva rapporti solo con alcuni prescelti?
“Certamente, per lui la gestione del M5s era un teorema complesso, e le persone funzionali al progetto, non il contrario. Questo non gli impediva di provare simpatia per le persone, ma se una persona rischiava di danneggiare il progetto non esitava a cambiarla. Un ruolo manageriale, è vero, ma che è servito molto per aiutare la crescita del movimento. Nel 2013 il M5s è arrivato in Parlamento e poteva trasformarsi rapidamente in un’armata Brancaleone. C’era bisogno di qualcuno che guidasse la macchina e la sua fermezza ha portato i frutti che oggi tutti possono vedere”.
Com’era lavorare con lui?
“Era una persona di grande equilibrio, poche parole, molti sguardi molto eloquenti. Le cose importanti voleva dirle a voce, scriveva pochissime mail. Non si arrabbiava, non urlava, e neppure sorrideva molto”.
È stato un caso unico nella democrazia italiana di leader assente: dal Parlamento, da Roma, dai media…quasi in una torre d’avorio nei suoi uffici di Milano.
“Questo discendeva dal modo in cui aveva formulato il M5s: i parlamentari pensati come semplici portavoce di decisioni affidate ai cittadini attraverso la Rete. Per questo lui non ha mai sentito il bisogno di scendere nell’agone”.
Al timone c’era lui, non Beppe Grillo. O una diarchia?
“Se il M5s fosse una Ferrari, si può dire che Beppe è il designer, Gianroberto il motore. Tutto girava intorno a lui”.
A suo avviso è stato un politico progressista o conservatore?
“Certamente è stato un innovatore, un uomo che progettava un cambiamento radicale per la politica italiana. Le sue inclinazioni personali viravano un po’ a destra, come nel caso del reato di immigrazione clandestina che lui voleva mantenere, mentre i senatori votarono per abolirlo insieme al Pd. In quel caso furono gli iscritti sul blog a decidere, e Gianroberto ne prese atto. Non ha mai imposto le sue opinioni sui singoli temi”.
C’era in lui una sfiducia di fondo nella democrazia rappresentativa?
“Diciamo che era profondamente deluso dalle prove che la politica aveva dato di sè, in particolare in Italia. Era per il proporzionale puro, contrario a qualunque forma di riduzione della volontà popolare. Voleva costruire una nuova classe di cittadini consapevoli che si occupassero della cosa pubblica, senza cedere nella frammentazione tipica delle liste civiche e neppure nell’organizzazione tipica dei partiti. Si sentiva un garante di questo percorso”.
Era consapevole della contraddizione tra la democrazia diretta e una leadership così accentrata?
“Lo era, ma lo riteneva un passaggio inevitabile, una tappa di un cammino più lungo verso una forma di democrazia più diretta. E in fondo anche il blog nel corso degli anni si era molto evoluto”.
Un cammino che ora rischia di incepparsi?
“L’unica deroga ai suoi schemi è stata la creazione del direttorio, frutto delle sue condizioni di salute. Il direttorio nasce dal suo bisogno di farsi aiutare, nell’ultimo anno aveva al massimo 4 ore di autonomia al giorno. Non credo che ci possano essere soluzioni dinastiche a favore del figlio Davide, ritengo invece che tutta la responsabilità ora cadrà sul direttorio, e in particolare su Di Maio, Di Battista e Fico. La loro autorevolezza finora è arrivata da Casaleggio, ora hanno una responsabilità enorme. E il rischio più grande è che il movimento, senza il suo garante, si trasformi in un partito. Un rischio molto elevato, basta pochissimo per scivolare nel caos…”.
(da “Huffingtonpost“)
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