LA POLVERE IN FORZA ITALIA HA COPERTO IL TAPPETO
LA RIMOZIONE DEL PROBLEMA SOLLEVATO DA BRUNETTA: LA SCELTA TRA DRAGHI E LA SUBALTERNITA’ AL SOVRANISMO
Partiamo da qui, dalle reazioni, perché indicano un encefalogramma piatto. In una situazione normale, in una coalizione normale, in un partito normale, di fronte a una posizione come quella espressa da Renato Brunetta nella sua intervista a Repubblica, quantomeno si sarebbe aperto un dibattito. Perché non di una voce dal sen fuggita si tratta, ma della messa a tema, da parte dei uno dei principali ministri che quello schieramento esprime, se di schieramento ancora si può parlare, della questione politica del centrodestra italiano: la sua collocazione strategica di fondo, cultura politica e prospettiva.
Insomma, se si sta con Draghi o con Meloni, semplificando. Non se Berlusconi è ancora una capacità autonoma di giudizio o se la sua volontà è conculcata dalle arti manipolatorie del suo cosiddetto cerchio magico. Se cioè per dirla meglio, l’orizzonte di chi si richiama ai valori delle grandi famiglie europee, in questo caso dei popolari, e ambisce a governare il paese dopo la fase di necessità, è destinato ad essere subalterno al sovranismo, che questa esperienza la vive come una parentesi mal sopportata, o a evolvere a partire da questa esperienza, rivendicandola come propria. Perché questa esperienza è, oggettivamente un discrimine. Parafrasando il vecchio Berlusconi, è una scelta di campo: europeismo o euro-scetticismo, vaccini o non vaccini, economia sociale di mercato o sovranismo autarchico. Per chi, in questo ventennio, si è definito “moderato” rispolverando, a proposito o meno, financo De Gasperi, è questione di non poco conto.
L’imbarazzato silenzio delle reazioni, che vanno dall’ignavia di chi pensa prima alla cadrega, compreso chi è d’accordo col ministro, al battutismo di Salvini, che di fatto rimuove la questione, raccontano davvero molto. Non perché sia un atto di lesa maestà non rispondere al vulcanico Brunetta, ma perché questa è la spia di una rimozione del problema: la famosa polvere e il famoso tappeto, solo che la polvere è così tanta da averlo coperto il tappeto.
Per rimanere agli ultimi tre giorni: la foto farlocca di Villa Grande, il gioco degli inganni e degli specchi sul Quirinale, il comunicato in cui si annuncia il coordinamento dei tre partiti, l’audio sulle gonadi di Salvini fracassate dalla Meloni, uno che va dalla Merkel, uno che vuole fare un gruppo con Le Pen, una che in Europa sta con i conservatori e in Italia più a destra di Salvini, la spaccatura sul voto di condanna della sentenza della corte costituzionale polacca che non riconosce il primato del diritto comunitario su quello nazionale. Bene, il centrodestra, come coalizione politica, non c’è più. E le linee di frattura attraversano entrambi i suoi partiti di governo.
Che il governo Draghi, europeista, scientista, guidato dall’ex presidente della Bce avrebbe rappresentato uno stress test per un partito a vocazione populista, per altro insidiato da una feroce contrapposizione a destra, era prevedibile.
Per Forza Italia è francamente stupefacente che proprio il nuovo contesto non rappresenti l’occasione per uno “scarto” e una ripresa di iniziativa autonoma e non subalterna. Subalternità iniziata con il via libera dato nel 2018 alla formazione del governo gialloverde senza mettere in discussione l’alleanza strategica con la Lega, che suonava più o meno così: do il via libera al peggior governo della storia d’Italia, ma mi dichiaro alleato con uno dei partner che lo sostiene, mica male. La verità è che la fine vera del berlusconismo è datata 2018, l’anno in cui il Cavaliere ha perso nelle urne la sua egemonia nel centrodestra e si sono invertiti i rapporti di forza che, nel ventennio precedente, avevano consentito un equilibrio in grado di costituzionalizzare la destra e incanalare le pulsioni secessioniste in un quadro nazionale. Non moderatismo o moderazione, ma comunque un’egemonia, il cui più rilevante passo politico fu l’ingresso di Forza Italia nel Ppe alla fine degli anni Novanta, sia pur nella perdurante anomalia italiana.
La fase gregaria, di cui questo sfarinamento nell’era Draghi è la conferma, rivela, al tempo stesso, i limiti della fase precedente e la fine di un ciclo, a 27 anni della discesa in campo di Berlusconi, primo tra tutti l’assenza di un partito degno di questo nome, con i suoi luoghi democratici di dibattito, i suoi strumenti di selezione di classe dirigente, la contendibilità di una leadership, vissuta, dai pochi rimasti, come lesa maestà a dispetto delle leggi di natura, con tutto il rispetto. Funziona quando uno prende i voti per tutti e cantano Menomale che Silvio c’è, ma non funziona più quando, per ragioni fisiologiche, il carisma dell’uno dovrebbe essere quantomeno accompagnato dalla forza di un progetto politico.
Dell’antico che non funziona più è la concezione, anche un po’ manichea, del bipolarismo che l’inventore del bipolarismo italiano non riesce a scrollarsi di dosso: l’idea cioè che i moderati debbano per forza stare dall’altra parte rispetto alla sinistra, antico riflesso di quell’anticomunismo artificiale che il Cavaliere fece sopravvivere alla fine del comunismo reale. Aveva un senso, scremato dalla propaganda, quando comunque l’Italia stava dentro quel “bipolarismo” europeo tra popolari e socialisti, che era tali anche in Italia ma li chiamava comunisti.
Ce l’ha molto di meno, e qui si torna a Brunetta, ora che proprio in Europa si pone il discrimine rispetto a quel populismo che ne mina le fondamenta. La famosa maggioranza Ursula, in tal senso, è più di una formula. Incarna un potenziale progetto politico. Peccato che, nel centrodestra nostrano si pratichi l’astinenza da “dibattito”, inversamente proporzionale all’overdose del campo opposto.
(da Huffingtonpost)
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