LA PROVA DI FORZA DELLA MELONI SULLE NOMINE AVRA’ CONSEGUENZE PER IL GOVERNO
CON L’AVIDITA’ DI VOLER ARRAFFARE TUTTO PER LE SUE TRUPPE FAMELICHE, LA MELONI SI E’ GIOCATA ANCHE GIORGETTI
C’è il dispiacere, certo. Ma più ancora c’è la politica: e forse è quella, soprattutto, che preoccupa Giancarlo Giorgetti. Il suo viso teso, rabbuiato, mentre lasciava Piazza Colonna per imbarcarsi alla volta di Washington, diceva quello: di un asse, quello tra il Mef e Palazzo Chigi, su cui il ministro aveva scommesso, e che ora, franando sul tema su cui pure il capo del Tesoro avrebbe maggiore peso negoziale, e cioè le nomine, rimette in moto l’entropia della Lega meno governista.
Quella che già lo accusa “di averci rassicurato fino all’ultimo, finché siamo rimasti fregati”. Ci aveva creduto davvero . Credendo, cioè, non tanto nella cedevolezza di Giorgia Meloni (“Figuratevi se molla”), ma piuttosto nel suo acume politico. “Non sarà così sciocca da inimicarsi il leghista più conciliante su cui può contare”, dicevano, della premier, i parlamentari vicini a Giorgetti
E invece, tra gli effetti collaterali di questa prova di forza della premier, un po’ wannabe Mario Draghi (“Questi sono i nomi a cui ho pensato”) un po’ Marchese del Grillo (“Io so Giorgia, e voi…”), c’è proprio la perdita di credibilità del ministro dell’Economia dentro il Carroccio che da oggi Meloni dà nuova forza all’ala oltranzista.
Quella che alla presidenza dell’Eni voleva Antonio Rinaldi. E dire che l’accordo, stavolta, tra Giorgetti e Salvini aveva retto davvero.
Il segretario aveva creato due diversi tavoli per le trattative. Il primo, quello “di partito”, lo aveva affidato ad Alberto Bagnai, con Armando Siri a supporto. Li aveva tenuti impegnati, esortandoli a stilare una lista di nomi per i cda delle grandi partecipate, e poi ad affinarla, quindi a contrattarla con gli alleati nelle riunioni preliminari, quelle che i leader devono promuovere per far sentire tutti coinvolti.
Giorgetti amministrava l’altro tavolo, quello “di governo” e lo faceva d’intesa con Salvini, muovendosi con discrezione e riservatezza. Salvini s’è fidato del suo ministro. Fino all’ultimo. E fino all’ultimo Giorgetti è rimasto convinto di potere “smuovere” Meloni dalle sue convinzioni. Su Leonardo, per dire, Guido Crosetto, che insieme a Giorgetti era il grande sostenitore di Lorenzo Mariani, capo di Mbda, già venerdì aveva ceduto. Il ministro della Difesa ha cercato invece di riequilibrare in extremis la partita con la proposta dell’ambasciatore Stefano Pontecorvo, gradito a Crosetto, come presidente; ecco, perfino, la trattativa per promuovere proprio Mariani – che in queste ore è a Parigi e che ancora sta valutando l’offerta – a direttore generale dell’ex Finmeccanica, dunque farne un vice di Cingolani con deleghe sul settore militare. Anche Maurizio Leo, viceministro meloniano dell’Economia, s’è attivato per predicare a Meloni la via della mediazione. Fino a ieri mattina, quando il ministro s’è trovato a dovere, pure lui, alzare la voce con Giovanbattista Fazzolari, gran visir meloniano sulle nomine.
“Se blindate Cingolani, e sapete che è una decisione conflittuale, dovete cedere almeno su Poste”. Macché. “Ma allora almeno su Enel, rinunciate a Stefano Donnarumma”. Le hanno provate tutte, i leghisti, per convincere Meloni neppure un amministratore delegato è stato concesso al Carroccio: disfatta totale.
Con la beffa ulteriore, per Giorgetti, che a ufficializzare questa umiliazione della Lega dovrà essere proprio lui, su carta intestata del suo ministero. Ed è un comunicato che segna, di fatto, una transizione: il ruolo di mediatore che finora il ministro dell’Economia ha svolto verrà meno, e insieme con quello svanirà, il fare conciliante di Salvini
(da La Repubblica)
Leave a Reply