LE PASIONARIE DEL MARE: CHI SONO LE DONNE CAPO MISSIONE CHE SFIDANO I RAZZISTI NEL MEDITERRANEO
MORANA MILIJANOVIC DI LOUISE MICHEL, LUISA ALBERA DI OCEAN VIKING, GIORGIA LINARDI DI SEA WATCH
Hanno storie e percorsi diversi alle spalle, sulle navi ci stanno da più o meno tempo, ma nella guerra che il governo ha dichiarato alle Ong, si sono trovate tutte nella stessa trincea.
In mezzo, il Mediterraneo, con centinaia di gusci di ferro, carrette del mare, gommoni, barchini, veri e propri canotti pieni di gente che su quelle imbarcazioni instabili si gioca la vita, per non essere obbligati a rischiarla ogni giorno nella Libia dove la detenzione arbitraria è uno dei principali business, o nella Tunisia economicamente a gambe all’aria di Kais Saied, dove i migranti subsahariani vengono cacciati casa per casa.
Loro si chiamano Morana Milijanovic di Louise Michel, Luisa Albera di Ocean Viking di Sos Méditerranée, Giorgia Linardi di Sea Watch/Sea Bird, e per la Guardia Costiera – fino a non troppi anni fa, per tutti, partner affidabile della flotta civile nei soccorsi nel Mediterraneo, adesso “gendarme” delle attività di salvataggio – rispondono tutte di una medesima accusa: disturbano.
Motivo? Troppe operazioni di soccorso per la Louise Michel, per questo bloccata da un fermo amministrativo di venti giorni, troppe comunicazioni da SeaBird, l’aereo Ong di Seawatch che ha denunciato l’aggressione dei libici alla Ocean Viking. Declinata in modi diversi l’accusa è per tutti la medesima: essere nel Mediterraneo. Testimoni di quanto accade. Sostanzialmente: delle impiccione.
“Mentre nel 2015, a fronte delle difficoltà di garantire il salvataggio di tutte le persone da soccorrere in mare, da una parte la Guardia costiera aveva da una parte chiesto una missione di soccorso europea e dall’altra aveva accolto a braccia aperte la flotta civile, oggi si limita a insultare le Ong definendole un intralcio. È un paradosso che fa riflettere”, dice Giorgia Linardi.
Sulle navi civili che fanno soccorso nel Mediterraneo Linardi c’è fin dall’inizio. “Nei primi anni”, ricorda, ” i casi in cui la Guardia Costiera stessa indicava la presenza di target alle Ong e forniva loro le coordinate piuttosto che il contrario erano addirittura molti di più”.
Lei ha vissuto quella stagione, così come quelle successive, incluso quello – dice – che è stato una sorta di punto di non ritorno: il trattato del 2017 con la Libia, con l’istituzione della Sar di Tripoli, cioè la porzione di acque internazionali in cui la Libia ha responsabilità nelle operazioni di ricerca e soccorso, “che viene interpretata”, spiega Linardi, “come area di giurisdizione piena della Libia, ma in realtà è area di responsabilità dove anche altri Stati possono e devono intervenire per assicurarsi che le persone vengano soccorse e non si compia il reato di respingimento”.
Tecnicamente, significa riportare indietro contro la propria volontà le persone che fuggono da un determinato Paese: per i Paesi sottoscrittori della Convenzione di Ginevra, come l’Italia, è un reato.
Dunque di fatto, ogni volta che la Guardia costiera libica – o meglio una delle tante – interviene per riportare indietro chi fugge, si assiste ad un respingimento. Paradosso ulteriore, l’Italia stessa non considera la Libia un Paese sicuro e del resto – conferma l’ultima ispezione in Libia della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite – nel Paese sono stati commessi “crimini contro l’umanità contro libici e migranti” a partire dal 2016. Eppure, l’ultima donazione di cinque motovedette fatta dall’Italia risale a non più tardi di qualche mese fa.
Cosa significhi nel concreto, Luisa Albera, capomissione di Ocean Viking lo ha sperimentato sulla propria pelle. Il 25 marzo, mentre la nave umanitaria si apprestava a soccorrere un’imbarcazione in pericolo, è stata aggredita dai libici, persino con colpi di arma da fuoco. “Attorno alle 10.30, mentre ci dirigevamo verso un gommone stracarico, con diverse persone a cavalcioni dei tubolari, è arrivata a tutta velocità una motovedetta della Guardia costiera libica, facendo una serie di manovre pericolose vicinissimo alla nostra nave, senza mai rispondere alle nostre chiamare. I libici hanno poi estratto fucili automatici di grosso calibro, minacciandoci e sparando più volte in aria”.
Non è ufficiale di primo pelo Luisa Albera. Un tempo consulente informatica, per anni è stata su Sea Shepherd, da quasi quattro invece è su Ocean Viking come coordinatrice delle missioni di ricerca e soccorso. Di guai e problemi in mare, ne ha visti e affrontati. Ma nel video che su Ocean Viking è stato registrato in quei momenti, mentre, attaccata alla radio cerca di comunicare con i libici, appare realmente preoccupata.
“Quando sono arrivati, abbiamo contattato più volte la motovedetta libica 656 via radio sul VHF 16 (il canale delle emergenze, ndr), in inglese e in arabo, senza ottenere alcuna risposta. Abbiamo chiesto quali fossero le loro intenzioni, nessuna reazione. Solo dopo aver sparato più volte contro di noi, ci hanno chiamati usando esattamente lo stesso canale su cui avevamo tentato inutilmente di contattarli, dichiarando che eravamo in ‘acque libiche’ pur essendo in acque internazionali”.
Sono momenti complicati. Perché si sa che in mare ci sono persone in pericolo, che farebbero di tutto, anche lanciarsi in acqua pur di sfuggire alla Guardia costiera libica, ma c’è anche la sicurezza dell’equipaggio delle Ong da salvaguardare. E quelle raffiche da fucili di grosso calibro erano per tutti un pericolo concreto. Nei video diffusi gli spari si sentono distintamente, in quello registrato dall’alto da Seabird si vedono persino i proiettili che colpiscono l’acqua.
“La guardia costiera libica ha messo a rischio l’incolumità della squadra e quella dei naufraghi”, tuona anche a mente fredda Albera. “Dovrebbe essere condotta un’indagine internazionale ed europea sul comportamento della guardia costiera libica perché non si tratta di un caso isolato e sono finanziati, equipaggiati e addestrati dagli Stati membri europei”. Anche qualche mese fa, i soccorritori della Ocean Viking hanno avuto problemi con i libici. “A gennaio, hanno interferito con un’operazione di salvataggio impedendo a una delle nostre lance di salvataggio di tornare alla nave madre”.
“Sulle ambulanze non si spara”
Ma al posto dell’apertura di un’inchiesta, dalla Guardia costiera italiana è arrivata una tirata d’orecchie. Alle comunicazioni di SeaBird, che immediatamente ha informato dell’incidente, si sono limitati a rispondere: “Grazie per la segnalazione”. E con un comunicato ufficiale a Ocean Viking hanno riproverato di non aver informato il Paese di bandiera. Nel merito dell’aggressione, neanche una parola.
“Il Paese di bandiera è sempre in copia nel rapporto sugli incidenti marittimi che vengono inviati alle autorità competenti, come prevede il diritto internazionale. E noi abbiamo informato tutti i centri di coordinamento e soccorso, Tripoli, Malta e Italia”, dice secca la Albera. L’amarezza però non riesce a nasconderla. “Nessun soccorritore al mondo dovrebbe preoccuparsi di minacce con armi da fuoco mentre salva vite in mare”, sottolinea. Ci si sente più soli? “Non si tratta di solitudine ma di sicurezza. Siamo in una situazione in cui i soccorritori sono minacciati da colpi di pistola e accusati. Non è accettabile che le risorse finanziate e addestrate dagli Stati membri dell’Unione europea abbiano un simile comportamento. Le ambulanze non possono essere un bersaglio”
E le navi umanitarie – lo si spiega da tempo – di fatto sono ambulanze del mare. Soccorrono le vittime di incidenti che in molti casi nessuno vedrebbe. Nell’immensità del Mediterraneo, è facile – lo mostrano i continui naufragi di cui si ha notizia e quelli di cui si finisce per sapere solo quando un corpo riappare fra le onde – che un barchino sparisca insieme alle vite umane che ci sono sopra.
Morana Milijanovic e il team di cui fa parte ne hanno soccorsi quattro, ma tre, su cui viaggiavano più di cento persone che a terra non sarebbero probabilmente mai arrivate, per la Guardia costiera, erano di troppo. E durante il quarto salvataggio, denuncia Milijanovic, “sono rimasti a guardare mentre il nostro team soccorreva la gente in acqua, solo dopo trentasette minuti hanno risposto ai nostri mayday. Chiedevamo un’evacuazione medica urgente per un bambino privo di sensi nonostante i tentativi di rianimarlo e per un ragazzo gravemente ferito”.
Bionda, esile, Morana oggi è la faccia pubblica della nave che ha iniziato le proprie attività grazie ad una donazione del misterioso artista Banksy. A bordo ci sono dodici persone, tutti soccorritori professionisti che arrivano da mezza Europa, Norvegia, Croazia, Spagna, Germania.
“Il nostro obiettivo è coniugare il soccorso in mare con i valori del femminismo, dell’antifascismo e dell’antirazzismo”, dichiarano pubblicamente. Perché? “Per noi è importante che siano chiari i nostri valori. Quello che accade nel Mediterraneo non accade nel vuoto. Fascismo, machismo, razzismo hanno degli effetti molti concreti sulla vita delle persone che sono costrette a fuggire e non trovano altra strada che sia quella pericolosissima della traversata in mare perché non esistono canali sicuri”.
(da La Repubblica)
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