MATTARELLA E IL GOVERNO ADDOMESTICATO
L’ELOGIO DEL PLURALISMO E IL CONTE NEGOZIATORE
C’è tutta l’antica sapienza democristiana nel passaggio in cui Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso alle Alte Cariche, presenta la resa del governo come una sua scelta consapevole di responsabilità , e, perchè no, il successo politico anche del Colle come una vittoria di tutti, non di una parte che prevale su un’altra: “Ho valutato molto positivamente la scelta del governo di avviare un dialogo costruttivo con la Commissione europea — che ha agito con spirito collaborativo — sulla manovra di bilancio per giungere a soluzione condivise”.
Se la bestia sovranista è stata addomesticata, non c’è ragione — politica e di stile — per risvegliarla. Perchè, in fondo, conta il risultato.
Raggiunto senza ricorrere al repertorio di strappi, moniti e reprimende, con la granitica convinzione che esacerbare il conflitto con un pubblico braccio di ferro, avrebbe sortito l’effetto opposto.
Le immagini, si sa, in questi casi rendono più delle parole. E basterebbe una sequenza di istantanee dei volti al ricevimento al Quirinale per dare la misura di un clima dimesso e di un equilibro cambiato.
Di quelle che ci sono, come Luigi Di Maio, visibilmente provato, degli assenti come Salvini, corso a Milano per partecipare alla recita di Natale della figlia, ottima ragione per sottrarre il suo volto al giorno della resa, di quelli come Giancarlo Giorgetti, particolarmente a suo agio con i vecchi amici del centrodestra in grande spolvero, che si abbandona a considerazioni su quanto la strada a questo punto si faccia impervia e difficile.
Finalmente sorridente, dopo settimane di tensione, voci di dimissioni, numeri nervosi, il ministro Tria parla più con Gianni Letta che con i suoi colleghi di governo.
Fotografie che cozzano con la retorica degli impegni rispettati, di una manovra che non è una resa nonostante gli oltre dieci miliardi di tagli, che resta ancora sub judice dell’Ue, disseminata di balzelli e falcidiata dei capitoli di spesa sulle due misure simbolo, reddito di cittadinanza e quota cento.
Al ricevimento al Quirinale va in scena la celebrazione sobria non solo del “metodo Mattarella”, ma di un cambio di fase del “governo sovranista”, rimasto ingabbiato e costretto a fare i conti con il set di regole italiane ed europee sui cui aveva promesso sfracelli.
E costretto a misurarsi con la reazione dei mercati allegramente sottovalutata finchè i dati di un’imminente recessione la rivolta del “partito del Pil” — artigiani, commercianti, partite Iva, base sociale della Lega nelle urne – non hanno smontato manovra ed esuberanza sovranista.
Perchè poi la chiave politica è tutta qui, nel giorno di un finale “paradossale”, col premier che rinvia di un’ora il suo discorso al Senato per attendere — cose mai viste — che i contenuti della manovra vengano svelati da Moscovici e Dombrovskis, i quali annunciano anche che l’esame non è ancora finito.
E cioè che, a questo punto, sarà complicato considerare l’accaduto una parentesi, dopo il quale riprendere tutto come prima: l’Europa matrigna, le perfide burocrazie, quelli che a Bruxelles voglio imporre le loro scelte ai governi nazionali.
E se in questa vicenda c’è un prima e un dopo, il discorso di Mattarella è un auspicio che il dopo che non sia come prima e che la brusca scoperta del principio di realtà sulla realtà dei conti diventi una consapevolezza democratica più ampia.
È questo il senso dell’elogio del pluralismo, parola ripetuta ben sei volte.
Pluralismo inteso come parti sociali da ascoltare, libertà di stampa da tutelare, Parlamento da rispettare, assetto istituzionale da non stravolgere (come potrebbe avvenire, ad esempio, con la riforma Fraccaro che stravolge il processo legislativo), pluralismo come presa d’atto della complessità della società e dell’articolazione dello Stato democratico (vai alla voce: autorità di garanzia), insomma come cultura del limite nell’esercizio del potere, perchè governare non significa essere o sentirsi padroni del paese.
È un discorso di valori di valori e di principi, che ha un carattere generale, ma dentro il quale, come con la manovra, c’è anche un investimento politico che riguarda la figura del premier, circondato al Quirinale da una selva di giornalisti e fotografi come qualche mese accadde a Salvini e Di Maio, il giorno del giuramento del governo gialloverde.
Perchè è vero che si è trovato ad essere un protagonista quasi per caso, e per esplicita cessione di sovranità da parte dei due vicepremier, nel momento in cui andava gestita la più grossa rogna di governo, dopo i primi “favolosi” cinque mesi vissuti spericolatamente.
Ma è anche vero che, nella fase in cui è stato chiamato a gestire la ritirata, la guida subliminale ha giocato in uno spazio reale, anche con una certa ambizione, spazio dilatatosi anche grazie all’appannamento della leadership altrui, nel senso di Di Maio. Trovandosi ad essere uno dei perni della strategia della “limitazione del danno”, messa in campo da Mattarella.
Certo, nelle condizioni date, e nell’ambito di un percorso molto tattico. Ma comunque come se fosse davvero il premier.
E come se lo fosse davvero rimarrà , anche nelle turbolenze annunciate della campagna elettorale, il principale interlocutore per limitare i danni futuri.
(da “Huffingtonpost”)
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