PORTOGRUARO: LA “PALESTRA DELLA DISCORDIA” DIVENTA ESEMPIO DI INTEGRAZIONE
DA DUE MESI 54 PROFUGHI ACCOLTI DAI CITTADINI IN UNA GARA DI SOLIDARIETA’… ALLA FINE SONO RIMASTI ISOLATI I POLITICI CHE NON LI VOLEVANO
Teddy è categorico: “Non mi piace questo cibo”. Sai, gli dico, c’è un detto da noi: “A caval donato non si guarda in bocca”. “E cosa vuol dire?”, chiede lui. Che quando ricevi qualcosa in dono, non dovresti mai lamentarti. “Ah. Ok. Però mi manca la zuppetta da tirare su con il pane e mangiare con le mani”. È uno dei pochi, lì, che parla inglese.
Di fronte ha del riso al tonno, un pesce bianco (non molto saporito) e dei piselli. Così anche gli “ospiti” musulmani possono mangiare. E anche volontari e avventori. Commestibile, ma ben lontano dalle cinque stelle di cui parla qualcuno.
Che evidentemente non è mai stato a pranzo lì.
Teddy e altre 53 storie. Teddy è nigeriano. Il gruppo terrorista affiliato ad Al Qaeda, Boko Haram, gli ha raso al suolo la casa. Sua madre è morta. Lui fa lo sbruffone e scherza su tutto, a partire dalla mia telecamera, “sequestrata” da uno di loro che ci gioca. Scherza anche su di lui, Teddy. Poi però prende il cellulare e digita un numero che squilla a vuoto. “Non risponde. Non c’è più”, dice. Sua madre non c’è più.
Lui è uno dei 54 migranti ospitati dall’istituto scolastico Gino Luzzatto a Portogruaro, in provincia di Venezia, da inizio luglio, ma sono più di 200 le persone distribuite tra Eraclea e San Donà di Piave: dentro questa palestra ci sono 54 persone, 54 storie.
Ognuna delle quali meriterebbe di essere raccontata. Molti sono minori; sono originari per lo più dell’Africa subsahariana, ma c’è anche un gruppetto proveniente dal Bangladesh. Quasi tutti hanno attraversato il deserto. Basta nominare Agadez e i loro occhi si fanno bui.
Quasi tutti hanno guardato la morte da vicino, mentre erano sopra i barconi nel Mediterraneo. Quasi tutti partiti dalla Libia verso “Lampa Lampa”, la salvezza, così come viene chiamata Lampedusa.
Il prefetto li ha mandati lì, ma adesso che iniziano le scuole devono essere trasferiti tutti. Non si sa quando, non si sa dove. Il gruppo dei 14 originari del Bangladesh sono arrivati a Annone veneto, altri sono in partenza per Marghera e la riviera del Brenta in appartamenti privati convenzionati con la cooperativa e i ghaniani sono ospiti alla Croce Rossa di Jesolo.
Finalmente una stanza, un po’ di privacy, sogno di ogni notte di una estate intera.
Nord sud ovest est. Accade a Portogruaro, a pochi chilometri dal red carpet della Mostra del cinema al Lido di Venezia che ospiterà una marcia scalza venerdì alle 17, a molti di più dal festival delle migrazioni di Acquaformosa, piccolo paesino di mille abitanti nel cuore del Pollino nel quale in cinque anni sono passati oltre 600 migranti.
Così, mentre la foto choc del bimbo sulla spiaggia di Bodrum fa il giro del mondo e l’emergenza migranti continua in tutta Europa, la punta più a est del Veneto e quella più a ovest della Calabria vantano due esempi concreti di solidarietà , integrazione, accoglienza.
Dal basso, dalla comunità .
Veneto solidale.
“La preside dell’istituto Luzzatto, di competenza provinciale, è stata molto disponibile”, come spiegano i volontari. Del resto, così ha deciso il prefetto. I parroci della zona avevano fatto un sopralluogo in alcune strutture della Chiesa, ma erano già occupate da altre attività o in condizioni non adatte ad ospitare le persone.
“Il Comune se ne è chiamato fuori e, anzi, ha cavalcato le polemiche a livello regionale e la “furia” di Zaia. Il sindaco non si è mai fatto vedere”, dicono i volontari. E a noi non risponde. Però in Veneto ci sono attualmente 5.184 profughi, il 6% dei presenti in Italia (si dovrebbe raggiungere quota 8%) e 1 su mille in relazione ai 5 milioni di abitanti (in Germania sono 2, in Francia 4, in Svezia 14, tanto per fare degli esempi).
Incaricata dell’accoglienza per questa emergenza estiva nel nordest, su delega del prefetto, una cooperativa di Carpi, la Solaris.
Solo contusioni.
Non è così facile entrare nella palestra. All’ingresso c’è Florica, infermiera specializzata della cooperativa. Capelli rossi e occhi verdi come il camice che indossa. Sguardo severo. Un vero Cerbero. E non c’è pagnotta che tenga. Protegge questi ragazzi come fossero suoi.
Di origini romene, lavora in Italia dal 2007: è lei che si occupa della loro igiene. Sono in salute. Non c’è nessun rischio sanitario. Gli unici problemi che hanno sono le stirature e le contusioni che li costringono a consumare tubetti interi di pomate. Se le fanno giocando a calcio. Unica tentazione a cui non resistono. Si sono divisi in due squadre e hanno organizzato un torneo, con coppa. Teddy è il capitano. A parte le attività sportiva e qualche dvd a disposizione per guardare la tv, i ragazzi hanno potuto anche frequentare un corso di italiano grazie alle associazioni locali e ai volontari che si sono dati da fare.
Paola, la maestra, è rimasta sorpresa dalla loro “volontà di imparare. Sono volenterosi, disposti a fare qualsiasi lavoro. Alcuni assorbono con una velocità incredibile. Sono pieni di vita, stanno dentro la vita come oramai non ci si sta più, in questa Italia vecchia e spenta”.
Siamo in cima.
“La cooperativa fa quel che può. Ma i cittadini stanno dando un grande contributo”, dice Damiano Nonis, 30 anni, insegnante di educazione fisica.
Gli abitanti del quartiere e i volontari di oltre venti associazioni che si sono impegnate nell’accoglienza portano di tutto in palestra: vestiti, cose da bagno, cibo.
E soprattutto, loro stessi. Il loro tempo, i loro giorni di vacanza, o il primo giorno di pensione, come per Valentino.
Damiano non si preoccupa della destinazione scolastica, ha passato le sue ferie qui. Va in montagna abitualmente e ha deciso di portare un gruppetto di loro con sè. “Abbiamo dormito fuori, in un bivacco. Erano così felici di vedere le montagne. Telefonavano agli amici qui: “Top of the mountain, top of the mountain”, dicevano “Siamo in cima”. Hanno grande resistenza, mangiano pochissimo”.
Con lui i “ragazzi della palestra” hanno risistemato il campetto da basket e quello da calcio che ci sono lì vicino: “Abbiamo messo le porte nuove, aggiustato i canestri. È stato bellissimo”.
Si è creato un rapporto molto stretto tra volontari e migranti.
Mama.
“Mama, Mama, vieni”. In coro la chiamano. Non è chiaro all’istante a chi si rivolgano perchè “mama” è un appellativo affettuoso che i ragazzi usano per attirare l’attenzione dell’inflessibile infermiera Florica, che distribuisce cibo, medicine e ordini militareschi, ma anche altre “mamme”: le volontarie che vanno lì a dare una mano.
Tutte mamme “adottive” di molti di questi giovani che quella vera non ce l’hanno più. Alida fa parte dell’associazione pensionati della Cgil. È lei che chiamano adesso perchè qualcuno le ha fatto un dono: un disegno, con dedica. L’autore è un decoratore.
Era il suo lavoro in Bangladesh. “Abito qui vicino e sono venuta dal primo giorno, quando ho visto che c’erano persone che avevano bisogno di aiuto. Non voglio pensare a quando andranno via. Mi mancheranno così tanto. Sono come figli miei. E loro mi chiamano mamma. Penso a cosa accadrebbe se fossero i nostri figli, nipoti ad avere bisogno di accoglienza da qualche parte, nel mondo”.
Il loro arrivo irrompe nella vita di Alida, come in quella di tutti coloro che abitano nei dintorni della palestra. Li vedono. Non più solo in tv o sui giornali. Proprio davanti alle loro finestre. Alle loro cene in famiglia. Non sono rimasti indifferenti.
“Li ho invitati a cena, hanno pescato i pesci nei fossi qui vicino e hanno cucinato”. Pesce, ma anche carne di pollo. Ne vanno ghiotti. “Ho visto sparire in mezzora 30 polli e 10 litri di sugo. Incredibile la fame che devono avere sofferto”, racconta un volontario.
Vita sopra il materassino.
I ragazzi impacchettano le loro cose. Riordinano le coperte, le lenzuola. Piegano le loro magliette con cura maniacale. Si fanno la barba, i capelli. Sanno di non poter restare lì perchè a giorni altri ragazzi frequenteranno quella palestra. Anche loro sui materassi. Non per dormirci, però, solo per fare gli esercizi di educazione fisica. Gli studenti. Anche loro scherzeranno, giocheranno, si isseranno sul quadro svedese.
Un’ora o due alla settimana, non di più, forse ignari dei loro precedenti coinquilini che, nonostante le preoccupazioni di qualche genitore, non lasciano sporcizia, ma solo un altro pezzettino della loro vita e del loro viaggio.
“Abbiamo trovato pulito e lasceremo pulito”, dice Teddy mentre raccoglie le foglie in giardino e sistema i piatti del pranzo nei bidoni, rigorosamente differenziati.
Honorè de Balzac.
In teoria sono liberi di muoversi, alcuni hanno paura della polizia. Spunta un libro dalla mensola. È Balzac. “Mi piace leggere. Soprattutto storie vere, documentari, ma anche qualche romanzo”. A Emmanuel David piace andare in biblioteca. Sfuggito dalla guerra in Sierra Leone e dai soldati che lo avrebbero arruolato a soli 14 anni, poi dalla dittatura del Gambia, dai trafficanti del deserto e dalle sevizie dei libici.
Sfuggito al mare del Mediterraneo e anche al suo sogno: “Studiare computer” o qualsiasi cosa possa dare “un senso alla mia vita”.
Nessuno di loro ha ancora presentato i documenti per la loro tutela giuridica e la richiesta di asilo. Migranti economici o rifugiati di guerra. Sembra l’unica, sottile, linea rossa tra la disperazione e la salvezza. “Sapevo che era pericoloso, ma non avevo scelta. Era la mia unica opportunità di una vita migliore”. Sono parole piene di vita e di speranza. Che spinge ad infilarsi dentro il cofano di una macchina, o in un trolley.
Noi accettiamo.
C’è un biglietto nella mia borsa, lasciata per tutto il tempo incustodita, appoggiata a terra. È scritto a penna. “In Libia, quando lavoravo, alcune persone pagavano altre persone non pagavano. Perchè alcune persone non erano gentili”. Un italiano perfetto. Sotto c’è scritto: “Accettare. Io accetto, tu accetti, lui/lei accetta, noi accettiamo, voi accettate, loro accettano”. L’ultima “t” è stata aggiunta dopo, una correzione. In fondo al foglietto: “Noi accettiamo”. Una scelta verbale.
Una lezione a chi dimentica che un giorno potremmo tutti essere migranti: loro “accettano”.
Noi ancora no.
Alessandra Borrella
(da “La Repubblica”)
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