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QUANDO LA MELONI DICE “NON SONO RICATTABILE”, DICE UNA CAZZATA: LA SCARCERAZIONE DEL TORTURATORE ALMASRI È LA PROVA CHE LA LIBIA USA I MIGRANTI A MO’ DI PISTOLA PUNTATA SULL’ITALIA

CHE POI PALAZZO CHIGI NON SAPPIA GESTIRE LE SITUAZIONI DI CRISI E’ LAMPANTE: SAREBBE BASTATO METTERE IL SEGRETO DI STATO, INVECE CHE MANDARE PIANTEDOSI A CIANCIARE DI ” ALMASRI, PERICOLO PER LA SICUREZZA”, E NESSUNO SI SAREBBE FATTO MALE

E pensare che sarebbe stato semplice. Sarebbe bastato invocare la “ragion di Stato” e nessuno si sarebbe fatto male sul caso Almasri. E invece la scarcerazione del torturatore libico è diventata l’ennesima prova di come al Governo non sanno gestire le situazioni di crisi.
Come scrive su “Repubblica”, Francesco Bei, “gli italiani non si bevono la versione raccontata dal ministro Piantedosi in Parlamento e ripetuta da Meloni. Ovvero che il capo della milizia libica Rada sia stato rimandato a Tripoli perché minacciava la sicurezza nazionale.
Un’inerzia collosa, un muro di gomma troppo evidente per non sospettare una precisa volontà politica, motivata dalla ragion di Stato, che siano le forniture di gas dalla Libia o il blocco dei migranti (non a caso, nei giorni di detenzione di Almasri, gli sbarchi dalla Libia sono ripresi). Entrambe motivazioni configurabili, queste sì, come “ricatti” a cui Meloni si è piegata”.
Per farla breve: quando Giorgia Meloni ripete come una nenia “Non sono ricattabile” (una frase che pronunciò già a inizio legislatura, quando Berlusconi si fece vedere in Senato con il celebre foglietto in cui la definiva “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”), dice una cazzata grande come una casa.
Il governo libico usa i migranti a mo’ di pistola alla tempia dell’Italia. La prova? La scorsa settimana, dopo l’arresto di Almasri, gli sbarchi dal paese del Nord Africa sono aumentati del 130%. Un’evidente ritorsione per l’incarcerazione del ricercato internazionale per crimini di guerra.
Giorgia Meloni avrebbe dovuto gettare il cuore oltre l’ostacolo, e dire: Abbiamo un accordo segreto con la Libia, che ci ha permesso nel 2024 di far calare gli sbarchi del 35-40%, ed è una questione di interesse nazionale su cui poniamo il segreto di Stato.
E invece, la Ducetta ha mandato il povero Piantedosi a schiantarsi, e fare una doppia figura barbina: come si può definire Almasri “un pericolo per la sicurezza” e poi liberarlo e rimpatriarlo con un volo di Stato, gentilmente offerto dai contribuenti italiani?
Altro errore di valutazione: togliere l’aereo di Stato al procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, per i suoi viaggi a Palermo, significa sconfessare se stessi.
Per quei voli, serviva un’autorizzazione, che solo l’autorità delegata alla sicurezza, Alfredo Mantovano, può aver dato. Togliere un “privilegio” che in passato è stato lo stesso Governo a riconoscere a Lo Voi è schizofrenia politica.
Il danno comunque ormai è fatto. Come ha sintetizzato perfettamente la “Jena” Barenghi, oggi sulla “Stampa”, Giorgia Meloni “non sarà ricattabile, non si farà intimidire, però una bella cazzata l’ha fatta”.
Una “bella cazzata” che, come reso noto dalla stessa premier nel video rabbioso di ieri pomeriggio, si è trasformata in un esposto, presentato dall’avvocato Luigi Li Gotti.
Un esposto molto circostanziato, dove l’ex sottosegretario del governo Prodi, come ha ammesso lui stesso, si è “limitato a raccontare cosa è accaduto in quei giorni, allegando anche articoli di stampa. Credo che ci siano gli estremi per valutare possibili condotte sia di favoreggiamento sia di peculato”.
Giorgia Meloni ha definito Li Gotti un uomo “di sinistra”, vicino a Romano Prodi, di cui appunto è stato sottosegretario in quota Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.
Una polemica un po’ stantia, considerato anche il passato del legale calabrese, ex militante del Movimento sociale italiano. Piuttosto, è vero che Li Gotti è molto vicino ai magistrati: in passato ha difeso pentiti di mafia del calibro di Buscetta e Brusca, e adesso sta seguendo i familiari delle vittime della tragedia di Cutro.
Incarichi che gli vengono affidati dalla magistratura stessa, come ha raccontato lui stesso in un’intervista alla “Stampa”: “Ho preso la difesa di alcuni.
Ad esempio quando Giovanni Falcone mi chiese di assistere Francesco Marino Mannoia che non aveva più difensori. In quel periodo stavo facendo il processo Calabresi. Falcone mi chiamò e mi chiese se me la sentivo di assistere Mannoia. E io per rispetto per me stesso, per la deontologia, dissi di sì. Poi arrivarono altri. Io difendo la persona, non il reato”.
Una volta presentata la denuncia, la Procura ha proceduto a iscrivere la Meloni e i ministri Nordio e Mantovano nel registro degli indagati, come “atto dovuto”. Attenzione, non si tratta di un “avviso di garanzia”, come lo ha definito impropriamente Giorgia Meloni, ma di una “comunicazione”.
A spiegarlo è stata l’Associazione nazionale Magistrati in una nota: “Si segnala il totale fraintendimento da parte di numerosi esponenti politici dell’attività svolta dalla procura di Roma, la quale non ha emesso, come è stato detto da più parti impropriamente, un avviso di garanzia nei confronti della presidente Meloni e dei ministri Nordio e Piantedosi, ma una comunicazione di iscrizione che è in sé un atto dovuto.
La legge impone al procuratore della Repubblica, ricevuta la denuncia nei confronti di un ministro, ed omessa ogni indagine, di trasmettere, entro il termine di 15 giorni, gli atti al Tribunale dei ministri, dando immediata comunicazione ai soggetti interessati, affinché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati”.
Un’indagine nei confronti di un presidente del Consiglio, peraltro, non è una novità: è successo (più volte) con Silvio Berlusconi, ma anche con Dini, D’Alema, Renzi, Conte, e anche con lo stesso Prodi.
Quello di Giorgia Meloni appare quindi un “eccesso di reazione”, come lo definisce ancora Francesco Bei su “Repubblica”, che lo imputa alla volontà di evitare di rispondere nel merito delle molte domande rimaste appese dal caso Almasri, insieme al “tentativo di contropiede rispetto alla protesta della magistratura”.
Una protesta, quella delle toghe, in effetti clamorosa, quasi senza precedenti: nemmeno ai tempi di Berlusconi si era vista una tale compattezza tra i magistrati, uniti contro il Governo. Del resto, la separazione delle carriere è considerata pericolosa dalle toghe di ogni corrente.
Come ripete spesso Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli che sabato ha disertato la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, l’opinione dei magistrati sulla riforma del Governo è questa: “Serve per indebolire il pubblico ministero, e a sottoporlo al controllo dell’esecutivo”.
Un divide et impera che danneggerebbe il potere giudiziario, rafforzerebbe la presa della maggioranza sui tribunali e ovviamente fa andare su tutte le furie i magistrati di tutta Italia.
Nei palazzi romani si dà anche un’altra interpretazione al giramento di otoliti della Ducetta, associandolo al caso Santanchè: c’è chi sostiene la contrapposizione con i giudici servirebbe a coprire lo scazzo interno a Fratelli d’Italia sulle possibili dimissioni della “Pitonessa”. Non è così: i due fatti non sono legati.
Vero è che anche sulla “Santa” si sta consumando una lotta tutta interna in Fratelli d’Italia, partito storicamente giustizialista. La vecchia guardia dei Rampelli e dei Donzelli è infastidita dal garantismo senza limitismo invocato dall’ex proprietaria del Twiga, e pressa per farle fare gli scatoloni.
Un’altra fronda del partito, invece, così come Lega e Forza Italia, sostiene che non si possa far dimettere la ministra del turismo senza apparire ambigui. “Ci sarebbero due pesi e due misure”, sostiene chi predica la permanenza della Santanchè al Governo, visto il caso Salvini (che non si è dimesso da indagato, e poi è stato assolto in primo grado) e pure quello di Delmastro, rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio, nel caso Cospito, e rimasto sottosegretario alla Giustizia.
Lo scazzo sul destino di Danielona è l’ultima spia della “svolta” di Fdi: un tempo partito “staliniano”, centralista, con un’unica corrente (i “gabbiani” di Rampelli) e ora invece diviso, frantumato in mille fronde, dai “donzelliani” ai “Lollo-boys”, e chi più ne ha, più ne metta.
Se il caso Santanchè non c’entra con quello Almasri, anche la minaccia del voto anticipato è solo uno specchietto per gli allocconi. Innanzitutto, a decidere di sciogliere il Parlamento non è la Meloni, ma Sergio Mattarella. Ed è praticamente impossibile che il Capo dello Stato lo faccia senza una vera crisi di Governo. Ciò significa che o la Lega o Forza Italia dovrebbe togliere la fiducia alla premier (con il rischio di perdere consensi, e quindi seggi, nella nuova tornata elettorale).
Chi, dal partito della Meloni, dice: “Andiamo al voto così prendiamo il 40%”, sa di finire sui giornali (nello specifico, “Repubblica”), ma è ben consapevole di parlare a vuoto, ma lo fa consapevolmente e su input della “Giorgia dei due mondi”.
La best friend europea del ketaminico Musk, infatti, ormai inebriata dal trumpismo, pensa di governare l’Italia come Donald può fare in America, a suon di ordini esecutivi che diventano immediatamente applicabili.
Non ha capito, la “pora Giorgia”, che in Italia la Costituzione è diversa, e il presidente del Consiglio, da solo, può promettere, ma non quaglia senza il Parlamento.
Lo si è visto anche con la “deportazione” cacio e pepe in Albania. Mentre Trump, in dieci giorni, ha fatto partire un’operazione “stealth”, con arresti e rimpatri forzati di poveri cristi in catene, i centri in Albania, costati mezzo miliardo di euro, accolgono poche decine di persone. Sempre che i giudici non blocchino di nuovo i trasferimenti.
Se ci fosse un’opposizione politica, in questo Paese, non esiterebbe a ricordarlo alla Ducetta.
(da Dagoreport)

This entry was posted on giovedì, Gennaio 30th, 2025 at 14:40 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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