QUEL CHE MANCA AL CENTRODESTRA: SFIORA IL 50% MA SENZA CLASSE DIRIGENTE ALL’ALTEZZA
NEL DUALISMO SALVINI-MELONI EMERGE L’ASSENZA DI UN FEDERATORE
Le settimane scorrono via, l’appuntamento elettorale si avvicina, ma sui nomi siamo ai blocchi di partenza tanto per il Campidoglio quanto per Palazzo Marino. Matteo Salvini pudicamente minimizza, “abbiamo un problema di abbondanza” va spiegando, folle di aspiranti Nobel che sgomitano per fare il sindaco, la cernita richiede tempo.
Purtroppo, la realtà risulta diversa. Usciti di scena Gabriele Albertini e Guido Bertolaso, adesso si sta discutendo di figure improbabili, cercate col lanternino. Enrico Michetti, ad esempio: l’avvocato-tribuno sponsorizzato a Roma dai Fratelli d’Italia ha un profilo che lascia perplesso perfino un campione della destra-destra come Francesco Storace, ex presidente della Regione Lazio e brillante penna del quotidiano “Il Tempo”. Con lui, spiega Storace, “rischieremmo di fare una campagna elettorale in difesa” per via di certi risvolti giudiziari non ancora venuti a galla. Meglio, molto meglio Nerone.
Una classe dirigente seria (sinistra compresa) si domanderebbe come mai scarseggiano i nomi all’altezza.
Contrasterebbe l’impoverimento della politica cercando di affrontarne le cause, che vengono da lontano: dalla fine dei partiti novecenteschi entrati in crisi con Mani Pulite e soppiantati da movimenti carismatici, totalitari, dove il dissenso non è tollerato e conta soltanto la figura dei leader assecondati dai loro cerchi magici.
Bilancerebbe i tratti “identitari” con la capacità di ascolto. Correggerebbe un sistema elettorale concepito apposta per nominare i servi e punire chi ragiona con la propria testa. Lancerebbe ami verso la società civile, sperando che qualche “personaggio del fare” si lasci ingolosire per narcisismo o per masochismo (due facce, in fondo, della stessa medaglia).
Questa riflessione, nello schieramento politico che sfiora il 50 per cento e ambisce a governare l’Italia, sembra di là da venire, anzi non è stata nemmeno avviata.
Il gruppo dirigente leghista rimane lo stesso dell’era padana, con i druidi vestiti di verde e le ampolle del “dio Po”; quello della Meloni si è forgiato nella palestra d’ardimento di Azione giovani ai tempi in cui lei ne era presidente. In compenso sulla destra divampa lo scontro tribale.
L’ultimo esempio: anziché chiudersi in una stanza con l’impegno di non uscirne senza avere scelto i candidati sindaci a Roma e a Milano, nei giorni scorsi i nostri eroi se ne sono andati a zonzo per Europa. Salvini in Portogallo, con l’intento di rinforzare i legami con i sovranisti locali; Meloni prima a Madrid e poi a Varsavia per sventare le manovre salviniane tendenti a sfilare i polacchi dal gruppo Conservatore che lei presiede.
Nemmeno sul Copasir, dopo le dimissioni del leghista Volpi, sono riusciti a trovare uno straccio di compromesso.
L’unico vero punto d’intesa, tra Giorgia e Matteo, è su luogo e data del duello finale. I conti verranno regolati il giorno delle elezioni: vincerà, ha ripetuto Salvini con aria di sfida, chi prende anche solo uno zero virgola in più.
Su tutto il resto sarà competizione.
Ciò significa che per i prossimi due anni il Capitano e la Ducetta (come viene incensata dai quotidiani amici) passeranno il tempo a combattersi tra loro; salvo ricominciare le liti subito dopo il voto; chi verrà sconfitto cercherà di rifarsi e non darà tregua al vincitore a costo di finire male.
Perché, diversamente dalla sinistra dove sopravvive un certo tasso di ipocrisia, la destra è il regno delle pulsioni “basic”, degli istinti irrefrenabili primordiali.
A tenerli insieme un tempo c’era Silvio, il Federatore; che possano riuscirci senza di lui, è ancora tutto da dimostrare.
(da Huffingtonpost)
Leave a Reply