SALARIO MINIMO E CONTRATTI, EUROPA IN ORDINE SPARSO
LE REGOLE SUL LAVORO ESCLUSE DAI TRATTATI
L’Europa non ha voce su rappresentanza sindacale, contratti e salari.
Non ne ha diritto, perchè quando i governi si sono dati i Trattati e le regole per governare il mercato interno hanno tenuto per sè il diritto di decidere su lavoro e connessi.
Le competenze sono rimaste nelle capitali, circostanza che si manifesta nella difformità di codici e comportamenti.
Anche quando si è occupata della materia, l’Ue l’ha toccata con la punta del dito.
«Si propone che la Commissione valuti, eventualmente, l’ipotesi di un quadro giuridico facoltativo europeo per gli accordi societari transnazionali», ha chiesto l’Europarlamento nel 2013.
Testo di cornice, ipotetico, finito nel limbo dei desideri non accolti.
Del resto si tratta di materie difficili da discutere a livello europeo. Un salario minimo per tutti i Ventotto sarebbe impensabile: qualunque fosse la soglia fissata, risulterebbe troppo bassa per alcuni e troppo alta per altri.
Chi lo vuole, se lo fa, opzione scelta dalla maggior parte degli stati europei, ma non da Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Cipro e Italia, che delegano le decisioni al confronto fra le parti sociali. In Francia sono 9,53 euro l’ora almeno, in Spagna scendono a 5,57, in Grecia a 5,06, mentre nel Regno Unito si torna a 6 sterline e mezzo (8,30 euro ai valori attuali).
In Svizzera, fuori dall’Ue, un referendum ha bocciato fra la sorpresa la paga minima di 4000 franchi per tutti (3250 euro).
In Germania è passata in luglio una legge che introduce una soglia minima per le retribuzioni a livello federale da gennaio, rivoluzione che smosso anche Roma.
L’approccio tedesco alla contrattazione è peculiare, ma efficace, a vedere i risultati su occupazione e attività . Posto che in Italia si lavora su due livelli – contratti nazionali di settore e integrativi aziendali basati su redditività , produttività , qualità -, in Germania si parte dalle regioni. Si sceglie un «land» rappresentativo e si chiude un’intesa a livello locale che, in seguito, viene estesa a tutte le altre regioni.
Fatto questo, ciascuna impresa contratta poi il proprio livello salariale che non può scendere sotto il livello distrettuale.
Nel Regno Unito non c’è contratto nazionale collettivo di settore, il sindacato discute azienda per azienda.
In Francia si negozia su tre livelli (nazionale, settoriale, aziendale): obbligatoria la contrattazione annuale di categoria sul salario minimo e ogni cinque anni sull’inquadramento professionale, senza però obbligo di raggiungere un’intesa.
Interessante il sistema scandinavo.
Ci sono contratti nazionali per tutti i settori in cui vengono stabilite solo condizioni di perimetro, mentre gli aspetti più specifici vengono demandati al confronto aziendale.
Qui, le materie in campo sono numerose e sensibili, riguardano i salari e i benefit.
Il sindacato svolge un ruolo diverso rispetto a quello a noi familiare, paga i sussidi ed ha un ruolo di mediatore fra domanda e offerta del lavoro. Insomma si sostituisce con frequenza alla mano pubblica.
Nel Grande nord, il sindacato nel consiglio delle grandi aziende è la regola.
In quasi tutti i paese europei la rappresentanza è disciplinata per legge (non in Italia).
In Germania si prescrive l’esistenza di una rappresentanza sindacale in ogni azienda con più di dieci dipendenti, mentre oltre i duemila si richiede un consiglio di sorveglianza in cui azionisti e lavoratori si spartiscono le poltrone.
In Francia le prerogative del consiglio aziendale sono ampie, possono impegnare un pacchetto di licenziamenti e chiedere l’intervento di un mediatore.
Qualcuno potrebbe dire che non hanno aiutato l’economia transalpina negli ultimi anni.
Ma questo, è un altro discorso.
Marco Zatterin
(da “La Stampa”)
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