SALVINI, IL MINISTRO DELLA MALAVOGLIA CHE PER SOGNARE IL VIMINALE SI PERDE TRA PANTOGRAFI E CHIODI
L’ENNESIMO STOP AI CONVOGLI RIVELA LA CRISI DEL LEGHISTA
Non si capisce più tanto bene che cosa vuole Salvini dal governo, da Meloni, dalla Lega che contro ogni logica continua a invocarlo premier nel nome e nel simbolo. Per uno di quei paradossi che segnano la vita del potere – e quella dei potenti ancora di più – questa sua irresolutezza si è accentuata dopo l’assoluzione di Palermo. Così adesso è sempre meno chiaro che cosa il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture vuole dalla sua amministrazione, dal suo impegno, dalla sua carriera e, se è consentito, anche da se stesso – incertezza che per un uomo politico che ha superato i 50 anni costituisce un bel guaio.
Sul piano operativo è sopraggiunto il terzo stranguglione ferroviario in pochi mesi, su siti e giornali illustrato dai cartelloni luminosi densi di ritardi e cancellazioni. Ieri, il vice e super ventriloquo leghista Crippa ha garantito che Salvini lavora 14 ore al giorno; ma la penultima volta, a ottobre, quando Roma Termini e migliaia di viaggiatori erano piombati dentro l’ennesima paralisi, il ministro era intento a celebrare la festa dei nonni; e solo nel pomeriggio, ai margini di un evento, in tal modo ha ritenuto di auto-commiserarsi: «Sono anni che chiedono le mie dimissioni perché respiro e perché vivo».
E tuttavia lo snodo Salvini oltrepassa vittimismi, pantografi, chiodi, guasti elettrici, incendi e “sfiga”, come ha riassunto lui con indulgente approssimazione. C’entra e non c’entra il Viminale, desiderato, concesso, perduto, poi richiesto e non ottenuto, però intanto “sto bene dove sto”. Prima un rullio di tamburi sul nuovo e severo codice alcolemico della strada, poi le più insistite rassicurazioni che “non è cambiato nulla”, quindi auguri dal ministro intento a grattare la pancia a un cagnone. Per cui l’incertezza trascende i soliti strombazzamenti, le abituali contraddizioni, le capricciose impuntature, i tagli dei nastri tirati con i denti, la cravatta rossa alla Trump e la “Casa rossa” che sarebbe la nuova, provvida e comprensibilmente gettonata società di produzione di Francesca Verdini.
È la mancanza non solo di sbocchi a breve termine, ma anche e soprattutto di senso compiuto l’inconfessabile cruccio di Salvini, il ritrovarsi intrappolato fra Vannacci e il Ponte del perenne scetticismo, i sommovimenti lombardi e il terzo mandato di Zaia; per cui il personaggio rilutta, resiste, recalcitra, si offre, ci ripensa, si offende, insegue Musk, partecipa all’apericena a casa Meloni, ma poi diserta il Consiglio dei ministri e in definitiva sembra che faccia tutto di malavoglia.
Troppo e insieme troppo poco, come capita alle maschere. Potrebbe dirsi la fine di un ciclo o la crisi del settimo anno o giù di lì, in questo gli archivi, ma più in generale i confronti con il passato sono impietosi. Nel gennaio del 2019 il Capitano era il perno del governo gialloverde e la sorpresa della scena pubblica, sfoggiava uniformi, inaugurava protocolli di selfie post-comizio, divorava gagliardo biscotti alla Nutella, attaccava briga sui social assestando “bacioni” di sprezzo a J-Ax, a Baglioni, perfino alla pornodiva Valentina Nappi.
Un sito dal sintomatico nome de “Il Populista” lo ritrasse accanto a Padre Pio: «Notevole esperimento di psicologia sociale», commentò lo strategist Luca Morisi; ma è documentato che ad Afragola un signore (dal nome Francuccio e di mestiere venditore ambulante di calzini) gli baciò la mano. Qualche mese dopo Salvini ottenne alle europee il 34 per cento e quando, in omaggio alla malattia melodrammatica italiana, veniva accolto sui palchi dal “Nessun dorma” di Pavarotti, ecco, arrivò a chiedere i pieni poteri. È pur vero che tutto si dimentica. Ma oggi? A parte la lotteria permanente dei treni in ritardo o cancellati, durante le feste l’ex “Bestia” social si è compiaciuta di far notare che nel potente coro africano di apertura di “Mufasa, il Re Leone”, riecheggiano, per tre volte, le parole “per Salvini” – così la fiaba è servita, assai meno anzi per niente la realtà.
(da La Repubblica)
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