SI ANNUNCIA UNA PIOGGIA DI RICORSI SUL PALETTO DEI 10 ANNI DI RESIDENZA PER IL REDDITO DI CITTADINANZA
E’ L’EFFETTO PARADOSSALE DI DISCRIMINARE TUTTI… PRECEDENTI SENTENZE HANNO GIA’ BOCCIATO IL REQUISITO DEL PERMESSO PROLUNGATO PER ACCEDERE AL WELFARE
Il decreto sul reddito di cittadinanza lavora di fino per aggirare un rischio cause sul fronte del comportamento discriminatorio, tema su cui da almeno un trentennio lo Stato è costretto a difendersi da “grandinate” di ricorsi.
Nella bozza in circolazione si punta a mantenere lo stesso trattamento per italiani e stranieri, con un effetto che ha del paradossale: più discriminazione per tutti.
“E’ una vera beffa che per non essere accusati di comportamento discriminatorio, si arrivi a discriminare tutti con il paletto dei 10 anni consecutivi di residenza per italiani e stranieri — dichiara Morena Piccinini presidente del patronato Inca Cgil — Questo significa, ad esempio, che i giovani che sono emigrati e che volessero tornare in Italia, dovranno aspettare 10 anni prima di poter godere di questo beneficio. Quanto agli stranieri, è chiaro che rispettare questo parametro per loro è più difficile”.
Piccinini non si sbilancia sul futuro, bisognerà leggere il testo definitivo prima di decidere il da farsi.
Ma un fatto è certo: finora le richieste dei lavoratori su trattamenti paritari in fatto di welfare hanno sempre avuto ragione nelle sedi giudiziarie. Sia quelle italiane che quelle europee.
Per Bruxelles l’architrave è il Regolamento 2011/98/UE, che all’articolo 12 chiede agli stati membri di riservare ai cittadini stranieri lo stesso grado di protezione sociale dei cittadini nativi, come definito dal Regolamento 883/04.
Mentre in Italia, naturalmente, tutto ruota intorno ai principi scolpiti nel testo costituzionale.
“La Carta dice chiaramente che non si può creare una società dell’apartheid — dichiara Luca Santini, avvocato del lavoro impegnato in Cgil — I diritti e le prestazioni vanno riconosciuti in modo equanime. La bozza di decreto che circola in questi giorni fa uno sforzo in questo senso. Secondo me, comunque, il vero dato su cui riflettere è l’armamentario di imposizioni e restrizioni, rischio di decadenze e sanzioni con un effetto fortemente coercitivo”.
Per gli stranieri torna il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo, che fu l’ultimo escamotage introdotto dai governi a partecipazione leghista dopo che i tentativi di inserire altri tipi di limitazioni venivano “impallinati” uno dietro l’altro dalle decisioni dei Tribunali.
Peccato che anche questo requisito sia stato in passato dichiarato illegittimo in una famosa sentenza della Consulta, la 306 del 2008.
In quella sede i giudici costituzionali ritennero “manifestamente irragionevole” subordinare l’erogazione di una prestazione assistenziale al possesso di un titolo che “richiede per il suo rilascio, tra l’altro, la titolarità di un reddito”.
Per avere quel permesso, infatti, bisogna dimostrare la disponibilità di un reddito di quasi 6.000 euro l’anno (per l’esattezza 5.889 euro), pari all’importo annuo dell’assegno sociale.
Si deve poi conoscere l’italiano e sottoporsi a dei test. Capita spesso che lavoratori regolarmente residenti, in possesso di tutti i requisiti, sbaglino i test e non ottengano il permesso “a tempo di lungo periodo (di fatto a tempo indeterminato). Dunque, se la bozza resterà invariata, ci si ritroverà nella “manifesta irragionevolezza” di poter concedere un reddito a chi già guadagna almeno 6.000 euro l’anno, ma non a chi guadagna meno, pur essendo regolarmente residente in Italia.
La sentenza del 2008 smonta anche un altro “paletto” che sembra tornare nella bozza del decreto di oggi. Riguarda la reciprocità tra Paesi come principio guida per erogare un servizio.
Nel testo, infatti, si consente l’accesso al reddito di cittadinanza a cittadini “provenienti da Paesi che hanno sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale”.
Ebbene, per i giudici costituzionali questo parametro non sembra accettabile “visto che il legislatore italiano ha fatto propria — si legge nella sentenza — la regola dell’universalità dei diritti umani”.
Va detto, tuttavia, che ogni sentenza è un caso a sè, e che la prescrizione di un lungo periodo di residenza è ormai entrata stabilmente nella legislazione sociale sia degli enti locali che dello Stato. I 10 anni consecutivi sono previsti anche per ottenere la pensione sociale. Anche se in quel caso si parla di anziani ultra65enni, mentre con il reddito di cittadinanza si vincolano giovani e intere famiglie che, magari, si sono spostate proprio per cercare lavoro.
Finora, tutte le volte che sono stati inseriti vincoli rigidi, i giudici hanno dato ragione ai lavoratori.
E’ successo per tantissimi benefit, dal bonus bebè all’assegno per le famiglie numerose, fino agli assegni di maternità .
Uno degli ultimi casi ha riguardato il Comune di Adro, in provincia di Brescia. L’amministrazione leghista – quella che aveva addobbato la scuola pubblica con il simbolo del sole delle Alpi, quella che prima di altri aveva escluso dalla mensa scolastica i bimbi delle famiglie che non pagavano, che ha intitolato una scuola all’ideologo della Lega Gianfranco Miglio — ecco quella Adro istituì un contributo al canone di locazione per le famiglie povere solo italiane.
Ci sono voluti 9 anni di contenzioso legale arrivato fino alla Cassazione per giungere al parere definitivo. La sentenza 18 giugno 2018 n. 16048 boccia il sindaco della cittadina. Per la verità la decisione di allargare il beneficio agli stranieri era arrivato prima. Ma il sindaco aveva pensato bene di far pagare agli italiani il beneficio da erogare agli stranieri, chiedendo indietro una parte della quota.
Su questo la Cassazione è stata chiarissima: non si possono aiutare dei poveri facendo pagare altri poveri.
(da “Huffingtonpost”)
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