STRAGE DI VIAREGGIO, LA SICUREZZA E IL CINISMO
TRA UN MESE ALMENO DUE DEI REATI CONTESTATI CADRANNO IN PRESCRIZIONE
I fatti e le responsabilità accertate dalla sentenza del Tribunale di Lucca che, dopo sette anni, con ventitrè condanne e dieci assoluzioni, rende giustizia a trentadue innocenti arsi vivi in quell’Apocalisse che fu la notte del 29 giugno 2009 alla stazione di Viareggio, sono lo specchio della maledizione che affligge il Paese.
Della sua memoria friabile e cattiva coscienza, dell’arrogante cinismo dei suoi manager di Stato contro cui lo Stato rinuncia a costituirsi parte civile, dell’idiosincrasia per una cultura della “sicurezza” che si declini innanzitutto in prevenzione.
Di più, e ancora: di una giustizia penale manomessa nel tempo ad uso di chi, di fronte alla legge, è più uguale di altri e in ragione della quale sulla sentenza di ieri si chiuderanno, di qui a un mese, le sabbie mobili della prescrizione.
Per almeno due dei reati contestati nei capi di imputazione. L’incendio colposo e le lesioni gravi colpose.
Centoquaranta udienze, l’ammirevole sforzo istruttorio della Procura di Lucca, la terzietà dei giudici di merito capaci di distinguere tra le singole posizioni degli imputati, hanno dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che nella strage del treno merci 50325 Trecate-Gricignano la mano dell’uomo, la sua “negligenza inescusabile”, ebbe parte cruciale. Ne fu “concausa”.
Nè più e nè meno del “caso”, che volle il deragliamento figlio del cedimento di una “boccola controdentata” dell’asse del primo di quattordici vagoni carichi di gas liquido e l’immane rogo che ne seguì dello squarcio prodotto in una delle cisterne ribaltate da un picchetto di tracciamento collocato lungo la massicciata.
Che quanto accadde dunque alle 23 e 50 di quella notte, quando l’aria diventò fuoco e il buio si accese di rosso, porta le stimmate e la responsabilità anche dei manager delle aziende che in quella tragedia ebbero parte.
Rete Ferroviaria Italiana (Rfi), la società per azioni partecipata al 100 per cento da Ferrovie dello Stato e responsabile della gestione e della sicurezza dell’infrastruttura ferroviaria del nostro Paese.
Le tedesche “Gatx rail Germany”, proprietaria delle cisterne da 35 mila litri caricate sui vagoni e affittati a Fs, e “Jugenthal”, l’officina in cui era stato revisionato il carro di cui avrebbe ceduto l’asse.
Suonano dunque intollerabili, in una giornata come questa, le parole dell’avvocato Armando D’Apote, legale di Rfi e Fs, che, di fronte al semplice dispositivo di condanna e assoluzione, definisce “scandaloso l’esito del processo” e denuncia il “populismo che trasuda dalla sentenza”.
E non certo perchè una sentenza debba essere immune anche dal più aspro diritto di critica o censura (a maggior ragione da parte di chi ritiene, come in questo caso, di non averne ricevuto giustizia).
Ma per ciò che da quelle parole “trasuda”. In quell’epiteto – “populista” – è infatti lo specchio dell’arroganza con cui, dal giugno del 2009, i vertici di Rfi e Fs – diciamo pure e meglio Mauro Moretti che ne è stato nel tempo amministratore delegato – hanno maneggiato una tragedia che avrebbe richiesto misura nei toni, onestà intellettuale nella ricostruzione dei fatti, rispetto di un lutto.
E di cui, al contrario, restano in archivio le parole pronunciate dallo stesso Moretti.
Il 2 luglio del 2009, quando, da amministratore delegato di Fs, ebbe a spiegare le ragioni per cui non era stata attivata la copertura assicurativa per far fronte ai risarcimenti per la strage (“Non ci sentiamo responsabili”).
E il 2 febbraio del 2010, durante un’audizione al Senato: “Vi prego di considerare che quest’anno, dal punto di vista della sicurezza, a parte questo spiacevolissimo episodio di Viareggio, abbiamo fatto ulteriori miglioramenti. Siamo i primi in Europa”.
Ora, nel chiedere e ottenere la condanna di Moretti, la Procura di Lucca ne ha censurato i profili di responsabilità osservando come, in quello “spiacevolissimo episodio”, “in qualità di Amministratore delegato di Rfi, era tenuto a garantire la sicurezza di circolazione dei treni e, sempre nel campo di Rfi, non ha valutato il rischio insito nella circolazione dei treni che trasportano merci pericolose, il possibile taglio del serbatoio contro un elemento ferroviario (il picchetto), non ha valutato che il grave rischio potesse accadere in una stazione vicina alle case, non ha valutato l’opportunità di abbassare la velocità in concomitanza di centri abitati”.
Ha insomma e più semplicemente stigmatizzato come nelle competenze di un manager di Stato la cultura e le pratiche della sicurezza come “prevenzione del rischio” non siano un optional.
E che la “tragedia” non possa e non debba diventare un danno collaterale accettabile in ragione dell’incidenza infinitesimale dell’incidente ferroviario (“Siamo i primi in Europa”).
Che tutto questo venga eliso nella vis polemica dell’avvocato di Rfi e Fs è comprensibile.
Meno lo sarebbe se sfuggisse a Mauro Moretti. Che, ferma restando la presunzione di innocenza, dovrebbe mettere da parte il codice penale e riflettere da oggi sulla compatibilità tra il suo ruolo di manager di Stato e i fatti accertati dal Tribunale di Lucca, a prescindere dalla valutazione giuridica che ne è stata data.
Magari rinunciando anche alla prescrizione. Sarebbe un segno di discontinuità .
La dimostrazione che responsabilità politico-aziendale e responsabilità penale rispondono a principi e canoni diversi.
L’arrocco con cui il Cda di Finmeccanica lo ha ieri sera riconfermato indica che è assai improbabile che questo accadrà .
Perchè, in fondo, la prescrizione è dietro l’angolo. E finchè c’è prescrizione, c’è speranza.
(da “La Repubblica”)
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