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TESTIMONIANZE DALLE CARCERI LIBICHE: “QUA E’ UN INFERNO, AIUTATECI”

ALCUNE STORIE RACCONTATE CLANDESTINAMENTE E RACCOLTE DALLA FONDAZIONE “INTEGRA/AZIONE” DI DETENUTI RINCHIUSI NELLE CARCERI LIBICHE… PROVENIENTI DALL’AFRICA SUD SAHARIANA E DAL CORNO D’AFRICA E COSTRETTI IN CONDIZIONI DISUMANI NEI CENTRI DI DETENZIONI COSTRUITI CON SOLDI PUBBLICI ITALIANI

Queste che leggete di seguito sono le storie e le testimonianze raccontate clandestinamente al telefono, e poi trascritte, di detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove vengono rinchiuse le persone che fuggono dai paesi dell’Africa sud sahariana e del Corno d’Africa.
Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria, ma dove in qualche modo riescono a tenere accesi alcuni cellulari, con i quali appena possono chiamano per denunciare quanto sta loro accadendo.
Queste che seguono sono i racconti raccolti dalla Fondazione IntegrA/Azione .

Una speranza che sta svanendo
Debesay, eritreo

“Mi hanno arrestato mentre camminavo in città  a Benghazi – racconta Debesay, detenuto da più di due mesi nel carcere di Ganfuda – cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di raggiungere l’Italia dove già  è rifugiata mia madre.
Qui in carcere siamo disperati, frustrati, abbiamo provato ad uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie”.
Debesay è riuscito a far arrivare a un trafficante 400 dollari per corrompere i militari libici per la sua liberazione.
Un pagamento anticipato senza alcuna garanzia, “un tentativo fallito: sono ancora qui. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce”.
Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei libici. “Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoie sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte al giorno, il più delle volte pane secco e acqua. Per il resto, un’attesa infinita.
Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte. Non so veramente che dirti – conclude Debesay – non so cosa faccio, non so che pensare, la speranza sta svanendo…”

A 17 anni nell’inferno di Ganfuda
Mogos, eritreo

Mogos viveva ad Asmara in Eritrea, è scappato dal campo di addestramento dell’esercito eritreo di Saua per non trovarsi costretto ad andare al fronte a soli 15 anni. Una fuga lunga, durissima.
Passato il confine è stato quasi due anni in Sudan, per trovare il giusto trafficante di esseri umani e reperire il denaro per riprendere il viaggio sino alle coste libiche, per tentare di raggiungere l’Italia.
Come per tutti passare il deserto è stato un’odissea.
Un lungo viaggio senza ritorno andato “male, molto male. Come ti spiego – dice Mogos al nostro mediatore culturale – tu lo sai bene, hai già  passato questo deserto, abbiamo viaggiato per 12 giorni, eravamo 50 persone ammassate su un camion”.
Ad un passo dal mare, quando sembrava finito l’incubo, “mi hanno beccato con i ragazzi che viaggiavano con me. Camminavo verso Tripoli, per trovare il modo per attraversare il mare, sicuro di avercela fatta, quando i militari libici mi hanno preso e arrestato nel corso di una retata.
Per due giorni mi hanno tenuto nel centro di Ijdabiyah, poi mi hanno trasferito qui a Ganfuda. Sono da quattro cinque giorni qui a Gandufa, si sopravvive tirando avanti giorno per giorno.
La cosa più dura è non vedere un futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare”.
Alcuni prigionieri vengono scelti per lavorare da ricchi libici, che comprano i detenuti per poi usarli come forza lavoro a costo zero nelle proprie aziende o fattorie nel deserto. Questa uscita dal carcere, per trasformarsi da detenuti a schiavi è possibile solo per le persone con il passaporto, che viene sequestrato in modo da scongiurare la fuga del lavoratore comprato. “Tutti quelli che hanno il passaporto possono uscire, ma anche per questo ci vuole molta fortuna – spiega Magos – noi eritrei siamo tutti senza passaporto, per noi non c’è soluzione, non c’è futuro. A 17 anni sono bloccato qui, all’inferno”.

Io scomparso dal mondo
Samuel, eritreo

Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. “Sono fuggito perchè non volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia famiglia”. Da cinque giorni è anche lui nel carcere libico di Ganfuda: “Ci hanno preso durante il lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i bambini che erano con noi – ci spiega Samuel – sono stati presi e trasferiti al centro della Croce Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla”.
Le comunicazioni con l’esterno sono difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri.
“In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l’unico contatto con la famiglia, i connazionali, i trafficanti: l’unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro. Qui la vita è dura e faticosa – racconta Samuel – siamo sempre chiusi in cella, possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma non c’è alcuna possibilità  d’uscita, non c’è nessuna speranza”.

Siamo tanti, tantissimi e altri ne arrivano
Aroon, eritreo

Aroon ha 24 anni e viene anche lui dalla periferia di Asmara, ha condiviso il viaggio di fuga dall’Eritrea con Samuel, compreso l’epilogo di prigionia.
“Qui siamo divisi per nazionalità  – spiega Samuel – somali, sudanesi ed eritrei, ognuno nella propria cella. Viviamo in ansia continua.
Stiamo resistendo, siamo costretti, per forza. Prima il viaggio nel deserto, ora la prigione, trattati come delinquenti, non ce la facciamo più”. La speranza nel futuro tende ad allontanarsi velocemente. “Non riusciamo a corrompere le guardie per uscire, quando paghiamo qualcuno ruba i soldi e non ci fa uscire,
Evadere è difficile, in pochi ci riescono e se ti prendono ti torturano.
La croce rossa non può fare nulla per noi perchè questo paese non ha un governo, tutto è caotico”.
“Siamo tantissimi detenuti qui – conclude Aroon – e altre persone stanno arrivando attraverso il Sudan verso la Libia, molti miei amici sono partiti. Come faranno a tenerci tutti qui”?

Dalla prigione al mare
Anwar, etiope

Nascosto in una stanza con diversi altri connazionali, Anwar è un giovane etiope dell’etnia Oromo, perseguitata nella propria terra e soggetta a vessazioni di ogni genere.
“Sono uscito dalla prigione di Ganfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Così poi pagando sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare. Ora sto raccogliendo gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli e imbarcarmi per l’Italia”.
Nascosto in una casa sulla strada per Tripoli è in balìa del trafficante che dovrebbe condurlo alla costa e che irrompe più volte durante la telefonata con il mediatore della Fondazione IntegrA/Azione.
“Sono stato prigioniero in tante carceri qui in Libia. Prima sono stato a Kufrah poi a Ganfuda – ci spiega Anwar – La prigionia era terribile, bruttissima: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo il cibo, non c’erano medicine nè dottori. Ho passato tutte queste sofferenze e adesso sono diretto finalmente verso il vostro paese. In Libia non ci sono diritti, non c’è un governo. Per loro se tu mangi o non mangi, ti ammali o stai bene non cambia nulla. Voi siete in un paese dove c’è un governo”.

Ai lavori forzati
Meron, eritreo

A gennaio Meron era rinchiuso nel carcere di Kufrah, sotto la supervisione dell’UNHCR 4.
“A marzo la prigione è tornata sotto il controllo dei militari del nuovo governo libico e noi siamo tornati ad essere prigionieri – spiega Meron – ci costringevano ai lavori forzati pulendo carri armati ed armi”.
Poprio da questi lavori forzati ha avuto inizio uno sciopero della fame e una manifestazione repressa duramente dai militari. “Da Kufrah ci hanno portato in aereo a Ganfuda, dove sono rimasto quasi due mesi.
Ora con un po’ di fortuna e molta fatica sono riuscito ad uscire; lavoro in una fattoria di un padrone libico, nell’attesa di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungere mio fratello in Italia”.

Aspettando di salpare verso la speranza.
Salua, somala

“Sono stata in carcere a Ganfuda per due mesi – racconta la giovane Salua – la vita era molto difficile. Finalmente sono uscita, ora mi trovo a Tripoli nascosta in una casa”.
L’appartamento è di un trafficante che sta organizzando la traversate del Mare Nostrum. “Uscire dall’appartamento non è possibile, ci portano ogni giorno beni di prima necessità “.
Così si passa il tempo nell’attesa delle giuste condizioni meteo per la partenza. “Vengo in Italia la prossima settimana, mi sto preparando”. Mentre scriviamo Salua dovrebbe essere in procinto di partire verso l’Italia, non ci resta che augurarle ancora una volta buona fortuna.

Un ringraziamento particolare.
Le interviste sono state realizzate con l’insostituibile aiuto di un mediatore culturale di origine eritrea e collaboratore della Fondazione IntegrA/Azione, Mahamed Aman, cui va il ringraziamento più grande, per aver permesso un’indagine altrimenti impossibile, fornendo chiavi di lettura, informazioni fondamentali nella comprensione del contesto e decodifiche dei messaggi veicolati dai ragazzi intervistati.
Una collaborazione che nasce dalla volontà , da parte di Mahamed, di restituire speranza ai giovani nelle carceri e cercare di far conoscere le loro storie nel nostro Paese, che di quelle vicende è spesso complice.
Mahamed ha un fratello che sta ancora in Libia, nell’attesa dopo mesi di carcere di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungerlo in Italia.

(da “Mondo Solidale”)

This entry was posted on giovedì, Luglio 5th, 2012 at 22:35 and is filed under Libia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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“CI HANNO VISTI IN MARE E CI HANNO RESPINTO DI NUOVO IN LIBIA”: CARO MONTI SE VUOI STARE IN EUROPA COMINCIA AD APPLICARE LA LEGGE INTERNAZIONALE NON LE NORME PADAGNE »

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