“THE GREAT GAME” DENTRO IL PD
ANCHE MINNITI E MARTINA SCENDERANNO IN CAMPO… IL RISCHIO E’ CHE IL PD TORNERA’ AD ESSERE IL PARTITO DELLE CORRENTI, MA COMUNQUE NON SARA’ PIU’ IL PARTITO DEL LEADER
In un angolo del Transatlantico Francesco Boccia gesticola animatamente, mentre parla al telefono: “Sì, sì… Torno a Torino a metà mese, nel frattempo aprite una pagina facebook, perchè con Martina in campo dobbiamo lavorare di più sul Nord”. Auricolari nelle orecchie, di quelli col filo, tono di voce che tradisce la riservatezza della conversazione, Boccia per cinque minuti percorre su e giù gli stessi dieci metri: “Parliamoci chiaro, qua dobbiamo fargli capire che, se vogliono un congresso a tavolino, se lo scordano. Vogliono una cosa a tavolino? E noi la facciamo vera, senza pietà . Il discrimine è tra chi era connivente con Renzi e chi diceva che si andava a sbattere”.
È iniziato il grande gioco del congresso del Pd, avvolto in una nube di tatticismo. Quasi un rito per iniziati, otto mesi dopo la sconfitta epocale del 4 marzo. Eccolo, Maurizio Martina, appena fissata la data dell’assemblea in cui saranno formalizzate le sue dimissioni e si procederà ad avviare il famoso “percorso congressuale”, il 17 novembre.
A chi gli chiede lumi sulla sua candidatura, risponde prudente: “Sto riflettendo”. Stessa risposta che, a domande analoghe, da giorni ripete anche Marco Minniti. In verità , manca solo l’ufficializzazione, ma la manovra è in atto.
Per l’ex ministro dell’Interno è questione di giorni. Già la prossima settimana, in cui presenterà il suo libro a Roma, potrebbe esserci l’annuncio, preceduto da un altro appello di sindaci e amministratori.
Anche per Martina la decisione sembra essere presa. Uno dei kingmaker della sua operazione, Matteo Orfini lo ha assicurato a più di un parlamentare: “Vedrete che Maurizio si candida. Lo sosteniamo noi e un pezzo di mondo renziano”.
Il tassello che manca — come si dice in questi casi: l’interlocuzione è in corso — è Graziano Delrio che nel suo recente manifesto contro il turbocapitalismo, ha evidentemente preso le distanze rispetto all’ortodossia renziana e sull’immigrzione è da sempre critico con l’approccio di Minniti.
Torniamo all’ira di Boccia. E non solo lui. Anche Zingaretti è piuttosto infastidito dalla dinamica in atto. Anzi, il paradosso è che scontenti sembrano essere davvero tutti, chi per un motivo, chi per un altro: “Abbiamo creato l’attesa messianica del congresso — sospira Giacomelli — pensando potesse arrivare una soluzione profonda. E invece chiedono lo scontro congressuale quelli che chiedevano l’unità …”. La verità è che è complicato che, con questa pletora di candidati, qualcuno possa raggiungere il 51 per cento alle primarie, in modo da essere eletto segretario.
E dunque il segretario sarà eletto dopo, dai delegati dell’assemblea, con un accordo tra le correnti. P
er intenderci: se Minniti arriva primo, ma non supera il 50 per cento, Zingaretti arriva secondo e Martina arriva terzo, per eleggere il segretario occorre, ad esempio, che Minniti e Martina si mettano d’accordo dopo le primarie.
È questo il gioco tattico, secondo l’antica formula del “contarsi per contare”.
È anche possibile, sulla carta, che il candidato possa uscire da un accordo tra Martina e Zingaretti, perchè è vero che è complicato escludere chi arriva prima, ma l’assemblea è pur sempre sovrana.
Parentesi, per i non addetti ai lavori.
Il congresso del Pd si svolge in due fasi. La prima, in cui la consultazione è tra gli iscritti, dove potranno presentarsi tutti i candidati. La seconda — ovvero le primarie aperte — dove correranno solo i primi tre o anche il quarto, qualora raggiunga il 15 per cento dei voti nella prima consultazione.
A questo punto i tempi, che saranno fissati quando l’assemblea formalizzerà le dimissioni.
Con questo numero di candidati, inevitabilmente, non sarà breve la prima fase, perchè tutti chiederanno tempi congrui per spiegare la propria proposta. I professionisti della politica del Nazareno prevedono che, su questi presupposti, una data possibile per le primarie sia il prossimo 3 marzo.
Ovvero un anno dopo la rovinosa sconfitta alle elezioni. E con un anno passato a definire il peso delle correnti e dei candidati.
Parliamoci chiaro: al momento si delinea un congresso di riposizionamento dei gruppi dirigenti più che un grande confronto su visioni radicalmente alternative, segnato una ustionante analisi di errori, smacchi e sconfitte di questi anni, anche perchè i protagonisti di quegli errori, smacchi e sconfitte sono equamente distribuiti tra i candidati.
E, finora, nessuno si è segnalato per capacità autocritiche. Si farà comunque il congresso, dato non scontato fino a qualche tempo fa, quando era appeso — ricordate Renzi alla Leopoda? — anche alle oscillazioni dello spread.
Ciò che resta del Pd è comunque contendibile. E comunque si apre una dinamica nuova, sia pur confusa, poco appassionante e poco comprensibile per il famoso elettore medio. Il partito delle correnti non è più il partito del Capo.
(da “Huffingtonpost”)
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