UCRAINA, SUL TRENO DI CHI VA IN GUERRA: “DOBBIAMO CORRERE A DIFENDERE LA NOSTRA PATRIA“
SUL TRENO LEOPOLI-KIEV, PROSSIMA FERMATA L’INFERNO
Sul treno senza luci che avanza in direzione opposta a quella dell’istinto di sopravvivenza, si aspetta in silenzio.
Zero voglia di avventurarsi in discorsi patriottici e analisi militari. Sette ore di viaggio e non un solo Slava Ucraini udito in carrozza.
Il diretto 750 Leopoli-Kiev va nella città da cui tutti vogliono fuggire e ci va al buio. Il sistema di illuminazione è stato disattivato per non diventare bersaglio per cacciabombardieri.
A quaranta chilometri dalla capitale che Putin pretende, il capotreno ordina di chiudere le tendine dei finestrini. Il macchinista accelera all’improvviso. Da un finestrino semi-aperto entra nevischio e odore di circuiti bruciati. Appaiono le prime case. Non si parla, si bisbiglia. Quasi che i russi ci possano sentire.
Diretto 750, partito alle 12 con mezz’ora di ritardo e in arrivo a Kiev, prima o poi. All’andata era strapieno di famiglie. Al ritorno i passeggeri sono tutti uomini. Le donne, i bambini e gli anziani li hanno lasciati sul piazzale della ferrovia di Leopoli con la speranza che possano attraversare il confine per la Polonia. Loro, i maschi tra i 18 e i 60 anni, no. Non possono. Devono tornare a Kiev, a Kharkiv, a Mariupol, a Odessa, comunque sotto i missili russi.
La nazione ucraina chiama, bisogna imbracciare il fucile e puntarlo contro gli invasori venuti da Mosca anche se non si è mai tirato un grilletto.
Normalmente da Leopoli a Kiev ci si mettono cinque ore e mezzo, ma il convoglio va a velocità ridotta e ogni tanto si ferma. Non c’è niente da fare e niente da guardare. Il paesaggio non cambia mai. Dopo un’ora, due ore, tre ore, la stessa brutta cartolina. Campagna innevata, alberi spogli, case basse col tetto a punta, stazioni anonime senza scalo, locomotive di quarant’anni fa su binari morti, serbatoi di cherosene, i check-point ai passaggi a livello, altra campagna e altri alberi secchi.
Il riscaldamento dello scompartimento è troppo alto, fa venire il mal di testa e secca la gola. Fino al tramonto il cielo è una coltre grigia e uniforme.
Victor della carrozza 5 fissa il finestrino, ma non è un raggio di sole che sta cercando.
Uno dei passeggeri
«Siamo vicini a Zytomar, qui hanno colpito coi razzi…». È un riflesso condizionato, più lo spettro di Kiev si avvicina e più gli occhi si alzano per controllare se piovono bombe. Victor ha 57 anni, un grosso zaino sul sedile, beve tè da una tazza con su scritto, in inglese, “L’elettricista è il miglior mestiere del mondo”. La guerra ha costretto gli ucraini a riconvertire le professioni. Fino al 24 febbraio Victor aggiustava fili e frullatori, adesso è soldato. «Sono un riservista, avevo fatto il servizio militare 30 anni fa. Torno a casa e poi raggiungo i miei amici che stanno al fronte».
A 57 anni, in prima linea. Paura? «Non so che dire». Vincerete voi alla fine? «Neanche questo so dire. Prima vado e sparo, poi torno e ti rispondo». Patrioti e prigionieri.
Svitlana, psicologa diretta a Kiev
Neanche volendo Victor avrebbe potuto seguire la sua Mariya in Polonia. Il presidente Zelensky ha bisogno di Victor e ha bisogno di Vladislav, 34 anni, cuoco. Fuma una sigaretta nell’intercapedine tra una carrozza e l’altra, per non affumicare gli altri e per cercare sollievo dal caldo. «Mia moglie e mia figlia sono passate, sono a Varsavia. Torno a Kiev, prendo i miei genitori e porto a Leopoli anche loro». La spola tra due capitali, quella di oggi e quella di domani nel caso i bombardamenti dovessero costringere il governo ucraino a riparare altrove. «Una volta fatto questo, mi metto a cucinare il rancio per i nostri ragazzi eroi». Il diretto 750 Leopoli-Kiev ha un sussulto.
Per le prime sette ore è andato a un passo soporifero. Ora invece accelera e negli scompartimenti si rimbalza contro le sponde dei seggiolini. Non è vero che i passeggeri, circa cento, sono tutti uomini. Nella carrozza 3 c’è Svitlana, la psicologa, che ha trovato un suo equilibrio e non solo interiore: ha messo i piedi sul sedile davanti e si è puntellata il fianco col grosso trolley, per ridurre le vibrazioni del locomotore diventato frettoloso.
«Ero in Egitto quando è scoppiata la guerra, mio figlio ha 28 anni ed è a combattere. Torno per stagli vicino, lo sento una volta ogni due giorni. Mi manda un messaggino, mi scrive ‘tutto ok’ e per me è l’unica cosa che conta». Svitlana non ha intenzione di rimanere a casa ad aspettare il figlio. «Andrò nei bunker a dare supporto psicologico ai bambini, che vivono con l’incubo delle sirene d’allarme e le esplosioni. Bisogna parlargli della guerra, farli cantare, proteggerli con l’abbraccio a farfalla».
Lo mima, mettendo il braccio destro dietro la scapola sinistra, e viceversa. Dice che funziona. «Li fa sentire sicuri», assicura Svitlana, che combatte e resiste con la psicologia, l’unica arma che ha.
Dima, 23 anni, cameraman
«Robert, mi chiamo solo Robert». Questo pezzo d’uomo alto due metri, con i pantaloni tattici, il collo tatuato e lo zaino gonfio, non è un tipo loquace. Nell’oscurità, il volto accigliato si illumina per lo schermo del telefonino acceso. Sta consultando le mappe geografiche dei dintorni di Kiev. Sulla giacca ha una toppa con i colori della Slovacchia. «Brigata internazionale», sono le uniche altre due parole che proferisce.
Il treno accelera ancora, poi si blocca, stride il ferro dei freni. Riparte. Imbocca nel silenzio il binario 11 alle 20.15. Stazione centrale di Kiev. Fuori c’è già il coprifuoco, i passeggeri del Diretto 750 troveranno una comoda sistemazione sul pavimento della stazione. Welcome to hell.
(da La Repubblica)
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